Informazione

 
Prepararsi allo sterminio termonucleare
 
1) L’affossamento Usa con la complicità dell’Europa (di Manlio Dinucci, 02.02.2019)
2) Corsa agli armamenti: gli USA sospendono il Trattato INF, la Russia anche (di Fabrizio Poggi, 2 febbraio 2019)
3) Italia e Ue votano per i missili Usa in Europa (di Manlio Dinucci, su Il Manifesto dell' 08.01.2019)
 
 
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Sullo stesso tema: INTERVISTA A MANLIO DINUCCI (2 feb 2019)
La «sospensione» del Trattato Inf, annunciata il 1° febbraio dal segretario di stato americano Mike Pompeo, avvia il conto alla rovescia che, entro sei mesi, porterà gli Stati Uniti a uscire definitivamente dal Trattato. Già da oggi, comunque, Washington si ritiene libera di testare e schierare armi della categoria proibita dal Trattato: missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km), con base a terra. Il Trattato sulle Forze nucleari intermedie, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan,  eliminava tutti i missili di tale categoria, compresi quelli schierati a Comiso. Il Trattato Inf è stato messo in discussione da Washington quando gli Stati uniti hanno visto diminuire il loro vantaggio strategico su Russia e Cina...
 
 
 
L’affossamento Usa con la complicità dell’Europa
 
Usa/Russia. Anche l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza il governo Conte, come i precedenti, si è accodato sia alla Nato che alla Ue. E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu sul Trattato Inf
 
di Manlio Dinucci, su Il Manifesto del 02.02.2019
 

La «sospensione» del Trattato Inf, annunciata ieri dal segretario di stato Pompeo, avvia il conto alla rovescia che in sei mesi porterà gli Usa a uscire dal Trattato. Già da oggi, comunque, gli Usa si ritengono liberi di testare e schierare armi della categoria proibita dal Trattato.

Si tratta di missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km), con base a terra. Appartenevano a tale categoria i missili nucleari schierati in Europa negli anni Ottanta: i missili balistici Pershing 2, schierati dagli Stati uniti in Germania Occidentale, e quelli da crociera lanciati da terra, schierati dagli Stati uniti in Gran Bretagna, Italia, Germania Occidentale, Belgio e Olanda, con la motivazione di difendere gli alleati europei dai missili balistici SS-20, schierati dall’Unione sovietica sul proprio territorio.

Il Trattato sulle Forze nucleari intermedie, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, eliminava tutti i missili di tale categoria, compresi quelli schierati a Comiso. Il Trattato Inf è stato messo in discussione da Washington quando gli Stati uniti hanno visto diminuire il loro vantaggio strategico su Russia e Cina. Nel 2014, l’amministrazione Obama accusava la Russia, senza portare alcuna prova, di aver sperimentato un missile da crociera (sigla 9M729) della categoria proibita dal Trattato e, nel 2015, annunciava che «di fronte alla violazione del Trattato Inf da parte della Russia, gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra».

Il piano è stato confermato dall’amministrazione Trump: nel 2018 il Congresso ha autorizzato il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada». Da parte sua, Mosca negava che il suo missile da crociera violasse il Trattato e, a sua volta, accusava Washington di aver installato in Polonia e Romania rampe di lancio di missili intercettori (quelli dello «scudo»), che possono essere usate per lanciare missili da crociera a testata nucleare. In tale quadro va tenuto presente il fattore geografico: mentre un missile nucleare Usa a raggio intermedio, schierato in Europa, può colpire Mosca, un analogo missile schierato dalla Russia sul proprio territorio può colpire le capitali europee, ma non Washington.

Rovesciando lo scenario, è come se la Russia schierasse in Messico i suoi missili nucleari a raggio intermedio..

Il piano degli Usa di affossare il Trattato Inf è stato pienamente sostenuto dagli alleati europei della Nato. Il Consiglio Nord Atlantico ha dichiarato, il 4 dicembre 2018, che «il Trattato Inf è in pericolo a causa delle azioni della Russia», accusata di schierare «un sistema missilistico destabilizzante». Lo stesso Consiglio Nord Atlantico ha dichiarato ieri il suo «pieno appoggio all’azione degli Stati uniti di sospendere i suoi obblighi rispetto al Trattato Inf» e intimato alla Russia di «usare i restanti sei mesi per ritornare alla piena osservanza del Trattato»..

All’affossamento del Trattato Inf ha contribuito anche l’Unione europea che, all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 21 dicembre 2018, ha votato contro la risoluzione presentata dalla Russia sulla «Preservazione e osservanza del Trattato Inf», respinta con 46 voti contro 43 e 78 astensioni. L‘Unione europea – di cui 21 dei 27 membri fanno parte della Nato (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla Ue) – si è uniformata così totalmente alla posizione della Nato, che a sua volta si è uniformata a quella degli Stati uniti.

Nella sostanza, quindi, anche l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza il governo Conte, come i precedenti, si è accodato sia alla Nato che alla Ue. E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu sul Trattato Inf.

Né in Parlamento si è levata alcuna voce per richiedere che l’Italia osservi il Trattato di non-proliferazione e aderisca a quello Onu sulla proibizione delle armi nucleari, imponendo agli Usa di rimuovere dal nostro territorio nazionale le bombe nucleari B61 e di non installarvi, a partire dalla prima metà del 2020, le ancora più pericolose B61-12.

Avendo sul proprio territorio armi nucleari e installazioni strategiche Usa, come il Muos e il Jtags in Sicilia, l’Italia è esposta a crescenti pericoli quale base avanzata delle forze nucleari Usa e quindi quale bersaglio di quelle russe.

Un missile balistico nucleare a raggio intermedio, per raggiungere l’obiettivo, impiega 6-11 minuti. Un bell’esempio di difesa della nostra sovranità, sancita dalla Costituzione, e della nostra sicurezza che il Governo garantisce sbarrando la porta ai migranti ma spalancandola alle armi nucleari Usa.

 
 
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Corsa agli armamenti: gli USA sospendono il Trattato INF, la Russia anche
di Fabrizio Poggi, 2 febbraio 2019
 

Gli Stati Uniti hanno ufficialmente sospeso per sei mesi gli obblighi derivanti dal Trattato INF (per i russi DRSMD: Accordo sui missili a media e corta distanza, cioè da 1.000 a 5.500 km e da 500 a 1.000 km) e si ritengono liberi di installarne a proprio piacimento dove e quando vogliono. Durante questi 6 mesi, come ha dichiarato il Segretario di stato Mike Pompeo, “se la Russia non tornerà al rispetto del Trattato, gli USA si ritireranno ufficialmente da esso”. 

Al tempo stesso, Donald Trump ha dichiarato di sperare che “sapremo riunire tutti in una grande e bella sala per stipulare un nuovo accordo. Questo accordo sarà molto migliore e io lo vorrei vedere”.. Il riferimento a “tutti” è chiaramente riferito, oltre che a USA e Russia, alla Cina e ai suoi nuovi complessi missilistici DF-26, rientranti nella categoria della media distanza e che, quando nel 1987 URSS e USA firmarono il Trattato, non erano (quantomeno ufficialmente) nemmeno all’orizzonte. Se poi Trump, ancora con quei “tutti”, intende riferirsi anche all’Iran, è da vedere quanta fiducia Teheran gli possa accordare, dopo la mossa unilaterale americana del ritiro dal cosiddetto “accordo sul nucleare iraniano” nei mesi scorsi. 

Riassumendo, osserva topwar.ru, attendiamo una risposta concreta alla semplice domanda: se veramente il problema consiste nel voler ampliare il numero dei partecipanti al Trattato, allora a che scopo si è messa in piedi tutta questa sceneggiata sulle violazioni russe dell’accordo? Da tempo Mosca aveva proposto a Washington di cercare il modo per allargare la cerchia dei partecipanti al DRSMD, senza nel frattempo arrestarne l’efficacia: proposta sempre respinta dagli USA, che ora, al contrario, prima sospendono i propri obblighi e poi parlano di una “grande e bella sala” per i colloqui.

E’ così che Mosca non ha potuto far altro che denunciare i trucchi propagandistici yankee a proposito del non rispetto russo degli obblighi derivanti dal Trattato e il Ministero degli esteri già ieri aveva espresso indignazione per il fatto che per gli USA è diventata una tradizione quella di ricorrere “deliberatamente alla maniera divulgativa di redigere e presentare le proprie congetture”. La Russia “adempie costantemente, coerentemente e incondizionatamente ai propri obblighi”; l’atteggiamento USA, sostiene Mosca, è un “trucco puramente propagandistico” e il vero motivo delle dichiarazioni di Washington è il grave indebolimento delle posizioni statunitensi nell’arena internazionale.

Ma qual è la “materia del contendere”? 

L’annuncio del ritiro USA dal Trattato era stato anticipato nella riunione dei Ministri degli esteri NATO del 4 dicembre scorso, quando lo stesso Pompeo aveva detto che Washington concedeva a Mosca 60 giorni per tornare all’esecuzione del trattato, e il Segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg aveva affermato che “la NATO dà alla Russia l’ultima possibilità di salvare” l’accordo. “La Russia ha messo a rischio gli interessi di sicurezza degli Stati Uniti, non possiamo più essere limitati da un trattato finché la Russia lo violerà spudoratamente”, ha detto ora Pompeo; e ha aggiunto che se “la Russia non tornerà al pieno e verificabile rispetto del trattato entro sei mesi, distruggendo in modo verificabile i missili che violano il Trattato INF, i loro lanciatori e le relative attrezzature, il trattato cesserà di sussistere”.

Dall’altro lato la TASS ricorda come già dopo tre anni dalla firma del Trattato, entrato in funzione nel giugno 1988, Mosca avesse distrutto 1.846 missili delle categorie previste, contro gli 846 di Washington, quasi tre volte più lanciatori (825 e 289) e quasi sette volte più basi missilistiche (69 e 9). Ora, trenta anni dopo la conclusione del trattato, entrambi si accusano a vicenda di violare l’INF. 

Mosca ritiene che il sistema antimissilistico USA “Aegis-Aegis Ashore” (già installato in Romania e in procinto di essere installato anche in Polonia e Giappone) sia in grado, all’occorrenza, di venir utilizzato come sistema di lancio per missili da crociera a medio raggio, il che costituirebbe una violazione diretta del trattato. Gli USA negano tale possibilità. La Russia si dice preoccupata anche per i droni da combattimento americani, il cui raggio operativo supera i mille km e le cui capacità e caratteristiche si avvicinano a quelle dei missili da crociera.

Sull’altro versante, la stampa americana parla dello sviluppo del “Novator 9-M 969”, missile da crociera basato a terra, presumibilmente destinato al complesso tattico-operativo (OTRK) “Iskander-M”, con portata di almeno 3.000 km. I russi assicurano tuttavia che la loro portata sia inferiore ai 500 km. 

E via di questo passo.

In risposta alla mossa americana, oggi anche Mosca ha sospeso la partecipazione al Trattato INF: “Procederemo in questo modo” ha dichiarato Vladimir Putin nel corso di una seduta coi Ministri degli esteri e della difesa, Sergej Lavròv e Sergej Shojgù, “la nostra risposta sarà speculare: i partner americani hanno annunciato che stanno sospendendo la loro partecipazione al Trattato e anche noi la sospendiamo”. 

Putin ha anche disposto che non si intraprendano per ora nuovi negoziati sul Trattato e ha sottolineato che Mosca, dopo la sospensione della partecipazione al trattato INF, non cesserà di sperimentare nuove armi, senza però aumentare il bilancio della difesa: “Non dobbiamo e non verremo coinvolti in una costosa corsa agli armamenti”, ha detto, sottintendendo quella che aveva aggravato la situazione economica dell’ultimo periodo di esistenza dell’Unione Sovietica.

Forse la Russia riuscirà a non farsi coinvolgere in tale corsa; ma è certo che lo farà anche il nostro paese, quale destinatario delle armi USA? Come reagirà il “governo del cambiamento” agli ordini di Washington e di Bruxelles, che certamente da tempo hanno già programmato il destino delle basi americane e NATO in Italia? Come reagirà quello che resta del movimento contro i missili USA sul nostro territorio?

 

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Versione VIDEO (Pandora TV 10.1.2019): https://www.youtube.com/watch?v=3jfXe8O8VGg
 
 
 
Italia e Ue votano per i missili Usa in Europa
 
di Manlio Dinucci, su Il Manifesto dell' 08.01.2019

Presso il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, c’è una scultura metallica intitolata «il Bene sconfigge il Male», raffigurante San Giorgio che trafigge un drago con la sua lancia. Fu donata dall’Unione sovietica nel 1990 per celebrare il Trattato Inf stipulato con gli Stati uniti nel 1987, che eliminava i missili nucleari a gittata corta e intermedia (tra 500 e 5500 km) con base a terra. Il corpo del drago è infatti realizzato, simbolicamente, con pezzi di missili balistici statunitensi Pershing-2 (prima schierati in Germania Occidentale) e SS-20 sovietici (prima schierati in Urss).

Ora però il drago nucleare, che nella scultura è raffigurato agonizzante, sta tornando in vita. Grazie anche all’Italia e agli altri paesi dell’Unione europea che, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, hanno votato contro la risoluzione presentata dalla Russia sulla «Preservazione e osservanza del Trattato Inf», respinta con 46 voti contro 43 e 78 astensioni.

L‘Unione europea – di cui 21 dei 27 membri fanno parte della Nato (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla Ue) – si è così totalmente uniformata alla posizione della Nato, che a sua volta si è totalmente uniformata a quella degli Stati uniti. Prima l’amministrazione Obama, quindi l’amministrazione Trump hanno accusato la Russia, senza alcuna prova, di aver sperimentato un missile della categoria proibita e hanno annunciato l’intenzione di ritirarsi dal Trattato Inf.
Hanno contemporaneamente avviato un programma mirante a installare di nuovo in Europa contro la Russia missili nucleari, che sarebbero schierati anche nella regione Asia-Pacifico contro la Cina. Il rappresentante russo all’Onu ha avvertito che «ciò costituisce l’inizio di una corsa agli armamenti a tutti gli effetti».

In altre parole ha avvertito che, se gli Usa installassero di nuovo in Europa missili nucleari puntati sulla Russia (come erano anche i Cruise schierati a Comiso negli anni Ottanta), la Russia installerebbe di nuovo sul proprio territorio missili analoghi puntati su obiettivi in Europa (ma non in grado di raggiungere gli Stati uniti)..

Ignorando tutto questo, il rappresentante dell’Unione europea alle Nazioni unite ha espressamente accusato la Russia di minare il Trattato Inf e ha annunciato il voto contrario di tutti i paesi dell’Unione perché «la risoluzione presentata dalla Russia devia dalla questione che si sta discutendo».

Nella sostanza, quindi, l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza, il governo Giuseppe Conte, rinunciando come i precedenti a esercitare la sovranità nazionale, si è accodato alla Ue che a sua volta si è accodata alla Nato sotto comando statunitense.

E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu.

Né in Parlamento si leva alcuna voce per richiedere che l’Italia osservi il Trattato di non-proliferazione, imponendo agli Usa di rimuovere dal nostro territorio nazionale le bombe nucleari B61 e di non installarvi, a partire dalla prima metà del 2020, le nuove e ancora più pericolose B61-12. Viene così di nuovo violato il fondamentale principio costituzionale che «la sovranità appartiene al popolo». E poiché l’apparato politico-mediatico tiene gli italiani volutamente all’oscuro su tali questioni di vitale importanza, viene violato il diritto all’informazione, nel senso non solo di libertà di informare ma di diritto ad essere informati. O si fa ora o domani non ci sarà tempo per decidere: un missile balistico a raggio intermedio, per raggiungere e distruggere l’obiettivo con la sua testata nucleare, impiega 6-11 minuti.

 
[[ https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8994 ]]
(deutsch / italiano)
 
L'Europa oscillante tra Carlo Magno e Altero Spinelli
 
1) Il Trattato di Aquisgrana all'ombra di Carlo Magno / Der Vertrag von Aachen im Schatten von Karl Der Grosse (LINKS)
2) Il “Manifesto di Ventotene”. Una decostruzione necessaria (di Italo Nobile / RdC)
 
 
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AQUISGRANA: RISORGE CARLO MAGNO E MUORE L’UE (Fulvio Grimaldi, 24 gennaio 2019)
I 5 Stelle denudano re Macron, Merkel lo riveste... sancito ad Aquisgrana, città dell’imperatore, sede del primo trattato De Gaulle-Adenauer, per l’egemonia nel continente, simbolo dalla potenza simbolica deflagrante. Sede anche dell’insigne Premio Carlo Magno, forse il più reazionario di tutti i premi... “Sacro Romano Impero di nazione tedesca” (SRINT), così Ottone I, erede di Carlo Magno, denominò l’aggregato di popoli dell’Europa centrale che forgiò in impero includendovi la Franconia Occidentale (Francia). Durò, alla fine simbolicamente, 1000 anni, 962-1806, quando venne beneficamente travolto dal laico Napoleone. Lì, però, iniziò una guerra civile europea che sarebbe durata quasi un secolo e mezzo e avrebbe vissuto le sue tragedie maggiori nei due conflitti mondiali. Condotta dalle aristocrazie feudali e poi dalle borghesie capitaliste, a spese di tutti noi, ha celebrato la sua rivincita, ovviamente ad Aquisgrana, con il trattato firmato da Merkel e Macron il 22 gennaio...
 
AQUISGRANA. IL SECONDO TRATTATO, OSSIA L’ULTIMA CAPITOLAZIONE (di Guido Salerno Aletta, 23 gennaio 2019)
... Nei confronti della Germania, il sogno francese è presto detto: vorrebbe sostituire l’Italia come sub-fornitrice nel settore della manifattura meccanica, mantenendo invece la leadership nel campo dell’industria militare e conquistando quella della tecnologie avanzate: informatica ed intelligenza artificiale...
 
DER VERTRAG VON AACHEN (GFP, 22/1/2019) 
Überschattet von Protesten gegen die französische Regierung steht an diesem Dienstag die Unterzeichnung des deutsch-französischen "Vertrages von Aachen" bevor. Das Abkommen, das offiziell als ergänzende "Aktualisierung" des Élysée-Vertrags aus dem Jahr 1963 bezeichnet wird, sieht unter anderem eine Ausweitung der bilateralen Zusammenarbeit bei der Militarisierung Europas vor. So sollen "gemeinsame Verteidigungsprogramme" erstellt und auf eine "gemeinsame Kultur" der Streitkräfte beider Länder hingearbeitet werden. Hinzu kommt eine bilaterale Beistandsverpflichtung, die auch jenseits von NATO und EU gilt. Zudem sagt Paris zu, Berlin beim Kampf um einen ständigen Sitz im UN-Sicherheitsrat zu unterstützen. Frankreich wiederum willigt in eine punktuelle Schwächung seiner traditionellen Zentralstaatlichkeit ein. Parallel fordern Experten eine breite deutsch-französische PR für eine offensivere Militärpolitik - TV-Auftritte der Verteidigungsminister inklusive. Unterdessen versagt Berlin Paris weiterhin jedes echte Zugeständnis in Sachen Austeritätspolitik...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7836/
 
FINALMENTE È STATO PUBBLICATO IL TRATTATO DI AQUISGRANA TRA FRANCIA E GERMANIA: ALCUNE CONSIDERAZIONI (di Giuseppe Masala, 18/01/2019)
... Alcune considerazioni sul Trattato Franco-Tedesco: 1) Strettissimo coordinamento sulle politiche europee... 2) Coordinamento per far ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell'ONU ai crucchi... 3) Istituzione del Consiglio dei Ministri franco-tedesco... 4) Istituzione di un Consiglio degli Esperti per le politiche economiche fondate sulla "competitività"... 4) Strettissimo coordinamento militare in Africa... 5) Istituzione di un Consiglio di Difesa franco-tedesco... 6) Istituzione di distretti "europei" tra le regioni confinanti dove si favorirà il bilinguismo e si amministreranno comunemente. Inutile dire chi sia il paese economicamente egemone e chi farà dunque la parte del leone in queste regioni unite...
 
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Vedi anche:
L’Unione Europea. Un ambiguo inizio (di Italo Nobile, 24/01 2019)
 
 
 
Il “Manifesto di Ventotene”. Una decostruzione necessaria

di Italo Nobile (Rete dei Comunisti), 28 dicembre 2018
 

 

Nel 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati dal fascismo nell’isola di Ventotene, scrivono un documento per la promozione dell’unità europea che verrà poi pubblicato da Eugenio Colorni e viene oggi considerato uno dei testi fondanti dell’Unione Europea. A dire il vero, in ambito liberal-socialista spesso si è soliti dire che l’Europa abbia disatteso le idealità di questo scritto e un procedimento retorico di questo genere viene paradossalmente usato anche in uno dei tanti articoli polemici del “filosofo” rossobruno Diego Fusaro.

Tale manifesto di Ventotene era stato preceduto dal progetto di Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi che dopo la prima guerra mondiale aveva coinvolto numerosi uomini politici (Adenauer e poi Churchill) letterati (Rilke, Valery e Mann) scienziati (Einstein, Freud, Keynes) nel progetto paneuropeo, di ispirazione tecnocratica, che voleva l’unificazione economica e politica dell’Europa sotto forma di Confederazione con tutta una serie di istituti (Corte federale europea, un esercito europeo, una unificazione doganale progressiva, una moneta unica) e con una impostazione rispettosa delle diverse culture presenti in Europa e delle minoranze nazionali. 

Tuttavia la natura imperialista di tale costruzione è evidente laddove Kalergi parla di sfruttamento a livello unificato delle colonie (confermando in parte la previsione di Lenin secondo cui “In regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie”). Inoltre Kalergi, in altre sue opere, accennava ad un modello di uomo, ricco di spirito ma privo di carattere che costituisse il materiale ideale per sviluppare una società cosmopolita, a dimostrazione della ispirazione elitaria del suo progetto che voleva la contaminazione tra razze e culture non per potenziare le capacità degli individui ma per indirizzarle all’ossequio mediocre dell’ordine costruito da una minoranza di competenti (dunque una contaminazione a presupposto razzista).

Per quanto riguarda il Manifesto di Ventotene c’è da dire che nell’introduzione si avverte il lettore dicendo che “Le circostanze anormali in cui tutto questo materiale fu prodotto, l’evolversi degli avvenimenti la cui precisa valutazione non poteva essere data dal confino, han fatto si che oggi si possono notare varie lacune, ed alcune parti possono anche considerarsi superate. Sarebbe forse bene riscrivere tutto da capo in modo da presentare cose completamente aggiornate. Ciò implicherebbe però un lavoro di mesi. Ma la vita politica italiana è stata ridotta dal fascismo come un arido deserto, e chi può dare un qualsiasi contributo che l’aiuti a rifiorire non deve perdere un minuto di tempo, specialmente nell’attuale tragica situazione. Meglio perciò pubblicare questi scritti quali sono, affidando agli studi successivi il compito di correggere e di aggiornare, meglio anche correre il rischio di dire qualcosa di sbagliato ma indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire, anziché tacere per un eccessivo desiderio di adeguatezza alla realtà attuale”. 

E tuttavia pure in questa premessa la natura elitaria del progetto si avverte nel passo “ … indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire …”. Inoltre questo elitarismo si avverte anche nella rinuncia a formare un partito federalista e nel dire che “Il compito dei federalisti nelle attuali circostanze della nostra vita politica italiana deve essere invece quello di indicare ai partiti progressisti, i quali attirano su di sé le simpatie popolari, ma sono ancora più ricchi di fervore che di idee e propositi precisiquali debbano effettivamente essere questi propositi e come ci si debba concretamente preparare a risolvere i problemi politici attuali. Non si tratta più di formare un partito federalista., ma di aiutare i partiti progressisti italiani a diventare federalisti”. 

Nella Prefazione di Eugenio Colorni si dice che “Fu così che si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”.

Qui possiamo individuare l’illusione che la contraddizione sia essenzialmente culturale e politica. Non si va nella dimensione in cui questi processi politici si formano e si consolidano, quella dimensione dove processi di accumulazione capitalistica ridisegnano attorno a sé la società e i territori, ma ci si ferma all’apparenza e si propongono soluzioni che tengono conto solo dell’apparenza.

Nella Prefazione, Colorni critica l’opzione internazionalista dicendo che “benché le analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia e di collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché esistano interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità chiusa all’interno delle frontiere”, ma si illude che l’ipotesi federalista sia un modo alternativo di costruire un ordine internazionale, quando esso va incontro agli stessi problemi e forse a problemi ancora maggiori visto che si vuole applicare a paesi con regimi diversi e sistemi sociali diversi (i quali, a detta proprio di Colorni, non sarebbero sufficienti nemmeno se fossero identici). 

Colorni asserisce che “Tutti i problemi, da quello delle libertà costituzionali a quello della lotta di classe, da quello della pianificazione a quello della presa del potere e dell’uso di esso, ricevono una nuova luce se vengono posti partendo dalla premessa che la prima mèta da raggiungere è quella di un ordinamento unitario nel campo internazionaleEgli però non motiva questo modo di vedere né si chiede se, per l’instaurazione di tale ordinamento, non si debba passare per uno o più dei problemi che invece con questo ordinamento si vorrebbero risolvere. 

Egli poi aggiunge “Un altro motivo ancora — e forse il più importante — era costituito dal fatto che l’ideale di una Federazione Europea, preludio di una Federazione Mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano”.. E questo abbiamo visto come fosse in realtà un pio desiderio. 

Ancora Colorni afferma che “Il nostro Movimento non è e non vuol essere un partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente caratterizzando, esso vuole operare sui vari partiti politici e nell’interno di essi, non solo affinché l’istanza internazionalista venga accentuata, ma anche e principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora sono stati così poco avvezziEcco che quindi ricompare la minoranza illuminata che opera sui e nei partiti politici.

Nel Manifesto vero e proprio (analizziamo in questo contesto anche una prima versione del Manifesto del 1943, perché a nostro parere essa rivela l’ideologia sottesa dei suoi estensori meglio di quella successiva e definitiva del 1944) si dice “L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”. 

Qui possiamo vedere come gli autori attribuiscano la nascita degli imperialismi ai nazionalismi, mentre l’analisi materialistica ipotizza che l’accumulazione di capitale ad un determinato livello condiziona il perimetro all’interno del quale il nazionalismo attecchisce e si sviluppa. 

Inoltre si reitera l’atteggiamento paternalista tra culture quando si dice “ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretratele istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili” (forse per giustificare la soggezione nella quale era tenuto il Meridione d’Italia?). 

Nella seconda e definitiva versione del Manifesto non a caso non si parla più di nazionalismoimperialista ma di imperialismo capitalista, quasi a voler sfumare un presupposto teorico sbagliato.

Si parla anche di “spazio vitale” (l’espressione fatta propria dal nazifascismo per giustificare l’innesco del conflitto mondiale), quasi fosse una sorta di desiderio irrazionale di espansione (e quindi derubricandolo ad espressione di mera volontà politica), quando si tratta dell’espressione ideologica che si collega all’esigenza imperialistica che è interna alle contraddizioni del capitale, per il quale anche l’ambito della nazione diventa angusto ed oppressivo. Perciò la libera circolazione delle merci, che essi vedono solo come “fattore progressivo”, è allo stesso tempo uno dei momenti della dinamica imperialista nel momento in cui ad essa (post hoc e propter hoc) segue quella dei capitali.

Gli autori hanno buon gioco ad evidenziare come anche nei periodi di pace il funzionamento degli ordinamenti che loro definiscono “liberi” (e cioè scuola, scienza e produzione) sia indirizzato totalmente alla guerra. Essi però, come in altre parti dell’elaborato, si fermano alla superficie delle cose. Non vedono che la proiezione bellica è proprio insita nella dinamica imperialistica (e quindi economica) che vede capitalismi in competizione tra loro che trascinano le nazioni con sé (e non nazioni che subordinano la produzione alla guerra). 

La guerra è nella sua accezione moderna un momento della fisiologia (che è dialetticamente una patologia) capitalistica. E la produzione non è affatto un ordinamento libero. Anzi, le modalità con cui si produce sono modalità militari, in quanto la fabbrica sin dal suo inizio (sin da quando si costringeva in Inghilterra a lavorare nelle fabbriche) è una istituzione totale.

E’ sintomatico come gli estensori del Manifesto attribuiscano tutti i mali all’iperbole politica, invece di guardare alla struttura economica: “Le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo”. 

Le madri sono fattrici di lavoratori e devono essere prolifiche per riprodurre “l’esercito” industriale di riserva. I bambini sono dalla più tenera età posti sul mercato del lavoro. Le libertà individuali sono nulla appena varcato l’ingresso della fabbrica. La produzione costringe ad abbandonare la famiglia ed a sacrificare spesso la vita per obbiettivi di cui nessuno capisce il valore. La guerra è l’immagine un po’ più brutta della matrice che la genera e cioè il modo di produzione capitalistico. Ma il Manifesto di Ventotene questa paternità la nega e anzi retoricamente ci disegna l’opposizione tra una produzione pacifica e una politica belligerante.

Anche quando si riferisce alla Germania, il quadro che fa il Manifesto riproduce uno stereotipo dove le considerazioni, fatte anche all’interno degli ideologi liberali (si pensi a Keynes), circa le responsabilità dei vincitori della Prima Guerra Mondiale nel determinare il trionfo del nazismo in Germania sono del tutto sottaciute.

Nella prima parte (“Crisi della società moderna”) ci sono anche analisi che si ricollegano alla tradizione socialista e che cercano di ricollegare il totalitarismo nazifascista alla oppressione delle classi diseredate, ma la tendenza elitaria ricompare quando si dice, all’inizio della seconda parte “Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti …

Troviamo poi anche un principio ambiguo (perché utilizzabile in molti modi) quando si dice “Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei”.

Questo principio, ripreso dall’antifascismo, è stato poi uno dei fattori ideologici che ha permesso le guerre Usa contro l’Iraq, la Serbia e la Libia. Non a caso questo principio è stato fatto proprio dal fondamentalismo neoliberista dei Radicali Italiani, che sono stati sempre in prima fila nel sostegno ideologico e politico alle guerre condotte da Usa ed Europa dopo il crollo del socialismo reale.

Singolare poi è la teoria sostenuta in questo passo dove si dice “Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc:, che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie”. 

Infatti si pensa che l’unificazione europea contribuirebbe a risolvere i problemi interni a vari Stati, mentre la questione catalana è la dimostrazione che la tendenza alla concentrazione dei fattori produttivi – resa possibile dalla libera circolazione degli stessi a livello europeo (senza meccanismi di compensazione) – lacera ancora di più il circuito di solidarietà interno ai singoli Stati, a meno che qualcuno non riesumi il patriottismo nazionalista, per cui il processo di unificazione si configura come una sorta di fuga in avanti.

Fa sorridere ed inquietare l’atteggiamento degli estensori verso la democrazia. Essi combinano la critica al totalitarismo nazionalistico ad un atteggiamento minoritario ed illuministico che non può che mostrarsi scettico verso le possibilità dei popoli di autodeterminarsi. Infatti dicono “I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sugli i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono solo essere ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro”. 

Il popolo per questi signori è sempre confuso. I milioni di teste li ossessionano ed hanno dunque bisogno di ridurre la complessità democratica con l’accetta. 

Infine in questo passo si intravede la tendenza (in altre parti meno accentuata) di assimilare l’Urss alla situazione spagnola e tedesca, quasi rimpiangendo che il socialismo rivoluzionario russo non abbia avuto miglior sorte. E la critica alla burocrazia sovietica fa intravedere un’altra matrice astrattamente internazionalista, oltre quella del liberalismo ispirato dalla concezioni massoniche (si pensi a Briand e allo stesso Kalergi).

Non finisce qui. Il Manifesto aggiunge “Nel momento in cui occorre la massima decisione ed audacia, i democratici si sentono smarriti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare” e ancora “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”.

Giunti a questo punto, gli estensori del Manifesto si preparano a criticare il concetto marxista di lotta di classe ed affermano: “Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi. Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine a cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano a tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario”. 

Dunque, per gli estensori del Manifesto, gli operai ispirati al principio della lotta di classe non farebbero una politica delle alleanze e quindi non riuscirebbero a raggiungere il potere. Questo assunto falso (l’alleanza tra operai e contadini nella rivoluzione russa come si dovrebbe considerare?) serve per introdurre un più sostanziale interclassismo funzionale alla ideologia elitaria degli autori. Anche questo passo non a caso viene in buona parte espunto nella versione definitiva, ma rimane il passo in cui si dice “Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche”, in cui compare un astratto politicismo che derubrica la lotta di classe a rissa.

Essi aggiungono “Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono nei momento decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto”.

Non sapendo quali siano queste altre forze rivoluzionarie, ci meravigliamo di come gli estensori del Manifesto credano in una rivoluzione di qua da venire e critichino quelli che prudentemente parlano di una rivoluzione di là da venire. L’anticomunismo del Manifesto si rende evidente quando si dice “Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paeseUna situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”. 

Anche questo passo viene omesso nella versione definitiva (probabilmente si sceglie un atteggiamento più sfumato verso il partito comunista italiano per quanto Altiero Spinelli fosse stato espulso dal Pci nel 1937). 

Tuttavia la crescente inclinazione di Spinelli verso il liberismo (complice la lettura di Luigi Einaudi, che già dal 1893 parlava di Stati Uniti d’Europa e che, con lo pseudonimo Junius, nel 1920 aveva scritto delle lettere sull’unificazione europea) è evidente quando si dice “Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individualenon vanno spente nella morta gora della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni nei salari, e con gli altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività

Gli autori sognano un’alleanza tra la classe operaia e gli intellettuali, che eviti agli intellettuali una sorta di impotenza sociale e agli operai di appiattirsi sul classismo dottrinario, senza notare che la classe operaia aveva già nei suoi gruppi dirigenti intellettuali di alto livello e che, nel frattempo, Antonio Gramsci aveva già delineato un modello di intellettuale collettivo (proprio quel partito che gli elitari del Manifesto trattavano con ingiustificata supponenza). 

Questa parodia di un bolscevismo in giacca e cravatta così conclude: “Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidateEsso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società modernaDà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia. Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere”. 

Nella versione definitiva a “questo partito” si sostituisce “questo movimento”, aumentando nel lettore l’impressione di un pasticcio. Non si vuole fare il partito per velleità di entrismo, ma al tempo stesso si pretende di dirigere senza imporsi a propria volta una organizzazione. Il Manifesto di Ventotene, contrariamente a quello di Marx, invece di abbandonare la dissimulazione, intende perpetrarla rifiutando un contatto diretto con le masse e nascondendosi nelle istituzioni che pure considera compromesse dalla guerra.

Perché tale ingenua e presuntuosa visione delle cose potesse avere il suo infelice successo, si è dovuto aspettare che essa si piegasse alla Forche Caudine del nascente imperialismo europeo, quell’imperialismo che essa vedeva solo nei cosiddetti totalitarismi e che invece si fa presente anche nelle democrazie liberali sempre meno democratiche e sempre meno liberali.

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Cos'è un nome?
 
1) De quoi la Macédoine est-elle le nom ? (par A. Manessis / PRCF, 31/1/2019)
2) Grecia: ΚΚΕ vota contro il governo e l'accordo Tsipras-Zaev / Cortei militanti e di massa contro l'Accordo Tsipras-Zaev, i piani della NATO e il nazionalismo (gennaio 2019)
3) Cos’è un nome? Tutto e niente (di W. Madsen / SCF 21.06.2018)
 
 
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De quoi la Macédoine est-elle le nom ?
 

Imaginons qu’à la frontière entre la France et l’ Allemagne, celle-ci décide de baptiser Alsace du nord, la partie allemande du Bade-Wurtemberg de Fribourg à Karlsruhe.

On pourrait supputer sans être paranoïaque quelque pensée irrédentiste.

Or c’est exactement ce qui se passe avec la “République de la Macédoine du Nord” avec la complicité du gouvernement de Tsipras devenu la serpillère de l’Union Européenne c’est-à-dire de l’ Allemagne tout particulièrement dominante dans les Balkans.

L’irrédentisme slavo-macédonien de Skopje, avec ses aspirations sur les territoires prétendument slaves en Grèce (Macédoine historique) et aussi en Bulgarie (Macédoine du Pirin) existe depuis fort longtemps au moins depuis que Tito essaya d’obtenir une sortie dans la méditerranée (dans le cadre d’une Fédération balkanique) en créant une République socialiste de Macédoine qui avait des revendications sur le territoire grec. Les nationalistes de Skopje, après la mort de Tito, firent la promotion des visées expansionnistes territoriales sur la Grèce (élaboration de cartes, manuels scolaires, livres d’histoire, etc., illustrant des territoires grecs sur le territoire d’une “grande” République Yougoslave de Macédoine). Sur le plan symbolique, les emblèmes de la Macédoine hellénique de l’ Antiquité comme  le soleil de Vergina de Philippe et Alexandre le Grand (dix siècles avant l’arrivée des Slaves dans cette région) furent récupérés par les nationalistes de Skopje.

Le Grèce ne pouvait pas accepter une telle situation potentiellement extrêmement dangereuse.

Mais la perspective d’une adhésion de Skopje à l’UE et à l’OTAN, que l’ Allemagne soutient, a amené Tsipras, une fois de plus, à capituler. L’Allemagne, après avoir fait exploser et dépecer la Yougoslavie en soutenant les nationalistes croates, slovènes et après avoir avec les autres pays impérialistes et l’OTAN, écrasé la Serbie sous les bombardements, s’est emparé de la région qu’elle domine totalement. La France ayant servie de marche-pied à cette hégémonie en trahissant la Serbie, son allié historique dans les Balkans.

Reste que la “République de Macédoine du Nord” est une menace contre l’intégrité territoriale de la Grèce et une menace de déstabilisation de la région. En effet d’autres puissances régionales pourraient manipuler l’irrédentisme macédonien. On pense évidement  d’abord à la Turquie qui a par ailleurs des exigences totalement contraires au droit international sur les eaux territoriales et l’espace aérien en mer Égée. On ne s’étonnera pas que les Grecs soient à 70% contre l’accord que le parlement grec vient d’approuver. Les Grecs ne sont pas effrayés en soi par Skopje et ses ambitions irrédentistes, mais par les forces étrangères qui pourraient utiliser ce nouvel État pour asseoir leur pouvoir sur la région et en particulier l’OTAN qui pourrait redessiner la carte de la région en fonction des intérêts impérialistes.

La Grèce a trop souffert, a été trop envahie, trop occupée pour que la moindre naïveté soit autorisée.

En revanche il faut dire clairement que c’est la droite (ND) et l’extrême-droite (AD) qui se sont engouffrées dans la brèche. La social-démocratie (Syriza) ayant une fois encore trahi le patriotisme populaire. Le nationalisme grec utilise cette situation pour préparer son retour aux affaires, les élections étant prévues en septembre 2019. Mobiliser entre 60.000 et 100.000 personnes à Athènes est incontestablement un signe d’adhésion que les sondages confirment.

Sous-estimer la question nationale dans un pays comme la Grèce qui fut occupée quatre siècles par l’empire ottoman et, depuis son indépendance (1820-1930), dominée par différentes puissances impérialistes et où le patriotisme est, par réaction, extrêmement puissant, serait une erreur historique.

Les forces progressistes grecques doivent se souvenir et helléniser la phrase célèbre du marxiste irlandais James Connolly : “La cause de l’Irlande est la cause du Travail, la cause du Travail est la cause de l’Irlande.”

Le KKE l’a bien compris qui a voté contre l’accord  de Prespa qui vise l’expansion sans encombre de l’OTAN dans les Balkans occidentaux, la montée de la pression sur la Serbie pour adhérer à l’OTAN et à l’UE, et à la promotion du gouvernement de Tsipras en “appui politique et militaire des Etats-Unis le plus stable de l’arc géopolitique allant de la Pologne à Israël” selon les déclarations de l’ambassadeur américain à Athènes Geoffrey Pyat.

Par Antoine Manessis.
Secrétaire de la Commission internationale du PRCF
 
(31/1/2019)
 
 
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www.resistenze.org - popoli resistenti - grecia - 21-01-19 - n. 698

Il ΚΚΕ vota contro il governo e l'accordo Tsipras-Zaev

Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/01/2019

Nel suo bollettino sugli sviluppi politici, l'ufficio stampa del CC del KKE afferma quanto segue:

«La contrattazione dei giorni passati tra Tsipras (SYRIZA) - Kammenos (ANEL) si è conclusa con la ricerca di un voto di fiducia in Parlamento. Si tratta di un esito conveniente per entrambe le parti coinvolte, poiché offre da un lato la possibilità al Sig. Tsipras di salvare il suo governo con voti dei deputati di ANEL in parlamento, e d'altro canto, consente al Sig. Kammenos di mantenere il suo gruppo parlamentare, apparendo in contrasto con una politica che ha sostenuto durante tutto il recente passato.

Inoltre, l'accordo di Prespa, che ha costituito il catalizzatore di questi sviluppi politici, è un aspetto chiave del piano globale USA-NATO per la regione, che sia il signor Tsipras che il signor Kammenos hanno servito con grande coerenza, al punto di trasformare la Grecia in una vasta base militare USA-NATO.

Il KKE vota contro il governo e indipendentemente da qualsiasi sviluppo si verifichi nel Parlamento tra i potenziali collaboratori di Tsipras, la questione cruciale è che il popolo respinga questo governo perché continuerà le stesse barbare e pericolose politiche anti-popolari in continuazione ai precedenti..

È un governo che ha assunto impegni concreti con gli Stati Uniti, la NATO, la Germania, nei confronti delle classi dirigenti nazionali ed europee. Questi impegni - la ristrutturazione anti-popolare e il sostegno dei piani euro-atlantici - devono essere completati entro le elezioni, e per questo motivo tutti i soggetti sopraccitati sono i primi a dare un "voto di fiducia" al governo SYRIZA, come aveva fatto Trump in precedenza e ora la cancelliera Merkel.

Per quanto il governo definisca l'accordo Prespa come "progressista", la realtà è completamente diversa.

Gli Stati Uniti, la NATO e l'UE hanno voluto imporre l'Accordo di Prespa a ogni costo per promuovere l'integrazione euro-atlantica nei Balcani occidentali e indebolire l'influenza di altri centri, come la Russia, ecc.

Queste forze e le alleanze criminali imperialiste che hanno sparso sangue nei Balcani ed esacerbato le divisioni etniche, ridefinendo i confini con il sangue dei popoli, non possono essere garanti della pace e della sicurezza. Né possono essere protettori dei diritti sovrani del paese, come mostra la storia delle differenze greco-turche. Per questo motivo, anche all'interno dell'Accordo Prespa, vengono preservati i germi dell'irredentismo, al fine di costituire una "fonte" continua di destabilizzazione a seconda degli interessi di volta in volta espressi dalle potenze.

Per questi motivi il KKE vota contro l'accordo di Tsipras-Zaev e difende la solidarietà e la lotta comune dei popoli contro i disegni degli Stati Uniti e della NATO.

Questi piani non vengono contestati dalla ND (Nuova Democrazia, partito conservatore, ndt), né da coloro che pescano nelle torbide acque del nazionalismo e del fascismo, giocando il gioco degli imperialisti sia in Grecia che nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia.

La propaganda governativa sulle "misure positive" che devono ancora essere attuate nel restante periodo di governo, ossia le "briciole caritatevoli", vengono gettate come polvere negli occhi della gente. Anche quelle non verrebbero distribuite se non fosse per le lotte dei lavoratori e dei movimenti popolari, con il contributo decisivo del KKE. Queste misure, tuttavia, non guariscono le ferite inflitte dai memorandum, come sostiene il governo, né impediscono l'ulteriore approfondimento di queste ferite. Non si tratta di altro se non della restituzione in minima parte dell'immenso furto a spese del popolo, che continua ad aumentare. La prova di ciò è la conservazione delle leggi sui memorandum, i profitti estratti sul sangue versato dai lavoratori, l'intensificazione di una imposizione fiscale da rapina, la generalizzazione del lavoro part-time, la restrizione delle tutele sulla prima casa e l'accelerazione dei processi di pignoramento, i nuovi privilegi consegnati al grande capitale, ecc. Per questo motivo le chiamiamo briciole: perché scompaiono prima ancora che vengano distribuite.

Il governo SYRIZA così come ND e gli altri partiti servono costantemente questa politica. Il comune denominatore è la dedizione all'obiettivo della redditività capitalista che richiede il sacrificio del lavoro e dei diritti popolari. Cercano di nascondere la loro convergenza strategica, facendo mostra di vecchie dualità e superate dicotomie, come "progresso - conservazione", dal momento che il presunto fronte "progressista" di Tsipras include persone che negli anni passati si sono distinte come ministri e funzionari nei governi della ND e del PASOK, con significative esperienze di "successo" in politiche antipopolari. Mentre altri dirigenti del partito (SYN/SYRIZA), hanno attraversato il PASOK, POTAMI e DIMAR, per finire ancora una volta in SYRIZA. SYRIZA è un partito amorale, avventurista, dedito alle politiche dei memorandum.

I recenti sviluppi, con trasferimenti di deputati del parlamento da un partito all'altro e il rimescolamento della scena politica, rivelano, al di là dell'avventurismo di alcuni, che le differenze tra i partiti borghesi sono minime e le loro convergenze così forti, che saltare da un partito all'altro è a questo punto estremamente facile.

Se si guarda alla composizione del Parlamento con i suoi 300 deputati nel corso di questi 4 anni, si conferma che l'unico partito stabile è il KKE. E questo è un ulteriore criterio che le persone devono tenere in considerazione nelle prossime elezioni.

Il vero dilemma dal punto di vista del popolo greco e dei suoi interessi è: perseverare sulla stessa strada, che ha dimostrato di portare sempre nuova sofferenza e distruzione, o intraprendere una lotta di massa e decisiva, ovunque, in modo che questo marcio sistema di sfruttamento cambi radicalmente una volta per tutte?

Il popolo greco non deve cercare le sottili differenze tra partiti fatti della stessa stoffa, ma fare veramente la "differenza", con un KKE più potente. Per rafforzare la lotta, la speranza, l'obiettivo del rovesciamento radicale».
 
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En français: 
KKE: Rassemblements de masse militants contre l’accord Tsipras-Zaev, les plans de l’OTAN et le nationalisme
 
 
www.resistenze.org - popoli resistenti - grecia - 29-01-19 - n. 699

Cortei militanti e di massa contro l'Accordo Tsipras-Zaev, i piani della NATO e il nazionalismo

Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

25/01/2019

I lavoratori, i giovani e i pensionati che si sono radunati nelle manifestazioni del KKE giovedì 24 gennaio hanno espresso il loro "NO" all'accordo Tsipras-Zaev, ai piani USA-NATO-UE, all'irredentismo e al nazionalismo, ma anche il loro "SI" all'amicizia, alla solidarietà e alla lotta comune dei popoli.

Fotohttps://inter.kke.gr/export/sites/inter/.content/images/news/sugkentrosh-kke-56.jpg_2126691551.jpg

Il Segretario Generale del Comitato Centrale del KKE Dimitris Koutsoumpas è intervenuto durante la manifestazione ad Atene; immediatamente dopo i manifestanti hanno marciato in corteo verso l'ambasciata americana. Quando la testa del corteo ha raggiunto l'ambasciata, i manifestanti hanno bruciato le bandiere della NATO, degli Stati Uniti e dell'UE.

Videohttps://youtu.be/O_DXpI9onRk

Sotiris Zarianopoulos, rappresentante del KKE al Parlamento europeo e candidato sindaco di Salonicco, ha parlato alla manifestazione a Salonicco, a cui è seguito un corteo verso il consolato americano.
Mobilitazioni simili si sono svolte a Larissa.

Videohttps://youtu.be/JWAi_QHFtNo

Rafforziamo con il KKE l'opposizione del popolo ai disegni imperialisti, alla NATO, all'UE

"Siamo qui per dichiarare il nostro" NO "all'accordo Tsipras-Zaev e ai disegni antipopolari euro-atlantici. Siamo qui per affermare il nostro" SI" alla pace, all'amicizia, alla solidarietà del popolo greco con i popoli vicini. Dall'Acropoli, eterno simbolo della cultura greca e mondiale, sono state riprese questa mattina le immagini che hanno fatto il giro del mondo e che esprimono ora il vero "NO" e il vero "SI", ha dichiarato il Segretario Generale del KKE.

Koutsoumpas ha sottolineato anche che "il governo SYRIZA si appresta a votare per l'accordo di Prespa, progettato, attuato e firmato con il governo della FYROM su richiesta della NATO, degli USA e dell'UE, dei grandi capitali, per consentire loro di fare affari nei Balcani".

In conclusione ha sottolineato: "Chiediamo ai lavoratori, ai disoccupati, al popolo degli strati popolari di intensificare l'opposizione ai piani imperialisti, alla NATO, all'UE. Chiediamo di lottare per la rimozione delle basi NATO dalla Grecia, per il disimpegno del nostro paese dalle organizzazioni imperialiste, in modo che nessun'altro popolo possa entrare in questa prigione.
Di prendere il posto di combattimento accanto ai comunisti, al fine di rafforzare la solidarietà e la lotta comune dei popoli, per seguire la nostra via per assumere il potere, il potere dei lavoratori".
 
 
=== 3 ===
 
ORIG.: What’s in a Name? Everything and Nothing (by Wayne Madsen, 21.06.2018)
 
 
Cos’è un nome? Tutto e niente
di Wayne Madsen, SCF 21.06.2018
 
Secondo tutti i resoconti da Grecia e Macedonia, la maggioranza di entrambi i Paesi sarà felice del nuovo nome per la Macedonia concordato dai governi di Atene e Skopje. Dopo anni di veti greci all’adesione ad Unione Europea e NATO col nome di “Repubblica di Macedonia”, il governo greco accettava di abbandonare l’opposizione fintanto che la Macedonia cambi nome in “Macedonia settentrionale”. I greci credevano che fosse obiettivo di macedoni slavi e albanesi rivendicare la regione della Grecia settentrionale, chiamata anche Macedonia. Da quando la Macedonia dichiarò l’indipendenza dalla Jugoslavia 25 anni fa, la Grecia insistette a che le Nazioni Unite chiamassero il Paese “ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia”, nell’acronimo FYROM. Alcune nazioni la riconobbero come Repubblica di Macedonia, mentre altri optarono per ex-Repubblica jugoslava di Macedonia. I macedoni dichiararono anche Alessandro Magno, eroe nazionale greco, uno di loro e denominarono il loro aeroporto internazionale dall’antico conquistatore. Col cambio del nome della Macedonia, l’aeroporto internazionale Alessandro Magno diventava aeroporto internazionale di Skopje. I libri di storia macedoni vanno modificati per dire che i macedoni del nord non sono gli antichi macedoni. I macedoni veri, sostiene Atene, sono i greci del nord o “macedoni egei”. I macedoni, governati dall’agente di George Soros Zoran Zaev, subiscono il cambio culturale visto in Ruanda dopo che il generale Paul Kagame, un espatriato ruandese proveniente dall’Uganda, prese il potere dopo il sanguinoso genocidio del 1994. Il Ruanda costrinse i ruandesi a sostituire il francese con l’inglese, il tricolore nazionale simile a quello francese con una nuova bandiera, e il Ruanda aderì al Commonwealth guidato dalla regina inglese. L’unica cosa che non è cambiata in Ruanda è il nome del Paese, anche se qui non poteva, Kagame ritornò al nome coloniale di “Ruanda”. Macedonia settentrionale fu concordata da Macedonia e Grecia dopo la discussione di molte altre opzioni. I greci preferivano “Repubblica di Vardar Macedonia”, ma fu respinto dai macedoni che preferivano “Repubblica di Nuova Macedonia”. Il mediatore delle Nazioni Unite disse che c’erano altri nomi candidati, come Repubblica di Macedonia Superiore e Repubblica di Macedonia (Skopje). La Grecia suggerì molti altri nomi, come “Dardania e Paeonia”, nomi antichi della regione; Slavia meridionale, Repubblica di Vardar, Repubblica dei Balcani centrali e Repubblica di Skopje. I macedoni proposero Repubblica Costituzionale di Macedonia, Repubblica Democratica di Macedonia, la Repubblica Indipendente di Macedonia e Nuova Repubblica di Macedonia. I nomi ora significano tutto nell’era del “nuovo nazionalismo”.

L’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, ex-procuratore di Donald Trump, indicò la West Bank occupata illegalmente come “Giudea e Samaria”, uno scappellamento ai coloni ebrei illegali che vogliono che Israele annulli la Cisgiordania e diventi uno Stato dell’apartheid in piena regola, coi palestinesi trattati da “untermenschen”. “Ci sono notizie che dopo aver spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, l’amministrazione Trump sia lanciata a riconoscere tutta Gerusalemme, inclusa Gerusalemme Est occupata illegalmente, capitale d’Israele, e l’annessione delle alture del Golan siriane. Ciò lascerebbe il ghetto palestinese a cielo aperto di Gaza quale obiettivo per la ri-annessione israeliana. Minacciosamente, l’amministrazione Trump già chiama Gaza “Israele meridionale”. Ci sono altre proposte di cambiamento di nomi. Nel 2017, il ministro delle arti e della cultura sudafricano Nathi Mthethwa accese il dibattito quando suggerì che il Sudafrica dovrebbe diventare “Azania”, nome con origini greche. La proposta fu messa da parte rapidamente da un governo che non voleva mal di testa autoinflitti oltre a tutti gli altri problemi. Allo stesso modo, c’è poco interesse nella Repubblica Centrafricana a tornare al nome coloniale francese di Ubangi-Shari, i due fiumi che convergono nel Paese. I sudafricani potrebbero pensarci due volte su Azania. Il Sud Sudan considerava l’uso dello stesso nome dall’indipendenza dal Sudan nel 2011. Il mondo potrebbe sopravvivere a due Azania? Perché no? Ci sono stati due Congo indipendenti dagli anni ’60, l’ex- Repubblica francese del Congo e l’ex-Repubblica Democratica del Congo (RDC) belga. La RDC cambiò nome in Zaire durante la dittatura di Mobutu Sese Seko, ma cambiò di nuovo dopo la sua estromissione con una ribellione popolare. Il Sud Sudan sembrava aver apprezzato il nome Sud Sudan, dopo aver respinto, insieme ad Azania, i nomi Repubblica del Nile, del Kush e Juwama. Alcuni sud sudanesi vogliono ancora cambiare nome, favorendo Tochland o Savannah. Se gli attivisti favorevoli all’indipendenza si faranno strada nello Yemen devastato dalla guerra civile, lo Yemen del Sud riemergerà come nazione indipendente e ciò potrebbe dare sollievo a Sud Sudan e Sudafrica, ma non alla Corea del Sud che, dopo il riconoscimento di Trump del Nord come Repubblica Popolare Democratica di Corea, o RPDC, insisterà ad essere chiamata Repubblica di Corea o “RoK”. In occasione del 50esimo compleanno, il re dello Swaziland, re Mswati III, che ha 15 mogli, 12 in meno del numero noto di ex-mogli di Trump, proclamava che il nome del suo Paese sia d’ora in poi eSwatini.

Il Kazakistan non è più Kazakistan. Il presidente della nazione, Nursultan Nazarbaev, decretava che la lingua kazaka non sarà più scritta nell’alfabeto cirillico, ma in latino. “Qazaqstan” ora raggiungerà il Qatar come unici Paesi nella sezione “Q” dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Anche Nazarbaev non apprezza l’appendice “stan” al nome del suo Paese, è sarebbe favorevole ad abbandonare “stan” e chiamare il Paese Qazaq Yeli, o “Terra dei kazaki”. Alcuni politici in Kirghizistan vogliono abbandonare il loro “stan” dal nome del Paese, ufficialmente riconoscendosi come Kirghizilandia o Kyrgyz Zher, il nome in kirghiso. Questi politici si lamentano che la loro nazione sia spesso confusa col Kurdistan che, grazie alle pressioni turca e irachena, non è un Paese indipendente rappresentato alle Nazioni Unite. I kirghisi hanno ragione. I cechi, nel sostenere il nome Czechia, non sembravano preoccuparsi che alcuni lo confondano con la Cecenia, repubblica autonoma russa. Nel 2013, la piccola nazione sull’isola di Timor Est annunciato che cambiava nome in Timor-Leste, un capolavoro della propria storia di colonia portoghese. Per non lasciare fuori la nostalgia portoghese, Capo Verde cambiò nome in Cabo Verde, lo stesso anno. Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha balenato la possibilità di cambiare il nome del Paese in qualcosa che non onori più i colonialisti spagnoli e il loro monarca re Filippo II. Ci furono passi al Congresso delle Filippine per stabilire una commissione geografica per il nuovo nome. Un’idea avanzata è il nome tagalog Haring Bayan.
Il cambio dei nomi dei Paesi sono difficili per alcuni commercianti. Nel 1997, l’American Safety Razor Company reintrodusse il marchio del sapone da barba Burma-Shave. Ma la Birmania era diventata Myanmar nove anni prima e “Myanmar-Shave” mancava di fascino. Tutti gli addetti al marketing del tè di Ceylon erano inorriditi, nel 1971, quando la nazione insulare cambiò nome in Sri Lanka. Se il referendum sull’indipendenza in Nuova Caledonia, a novembre di quest’anno, si tradurrà nel voto a maggioranza per la rottura dei legami coloniali con la Francia e l’indipendenza, il nome del Paese sarà Kanaky. Il nome è un omaggio ai nativi Kanak. Se la Groenlandia opta per l’indipendenza dalla Danimarca, addio Groenlandia e ciao Kalaallit Nunaat, nome Inuit del Paese. Il nazionalismo risorto in tutto il mondo tiene occupati cartografi e diplomatici. Cambiare il nome del Paese è l’attuale moda e non ci sono segni che finisca presto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 
 
Chi ha diritto di parola e chi no sulle "foibe"
 
1) Casapound, "esuli" e deputati contro la libertà di insegnamento
Riecco Paola Frassinetti in Commissione Cultura / Intimidazioni contro Virginia Raggi / Casapound Italia contro l'ANPI / Onlus Giuliano-dalmati paragona ANPI alle SS / Gasparri chiede di vietare la presenza di ANPI nelle scuole
2) Polemiche a Rovigo
Basovizza: “Story From Trieste Untrue” / Cosa c’è di sbagliato nel post apparso sulla pagina FB dell’ANPI di Rovigo? (C. Cernigoi)
3) FLASHBACK 2018: 10 Febbraio 2018, Decima Mas e Serracchiani sulla "foiba" di Basovizza

 
Le Foibe come arma di distrazione di massa
di Alberto Fazolo, 31 gennaio 2019
 

 

Dal finire degli anni ’80 si andò definendo un nuovo assetto europeo: la Germania (riunita) diventava il nuovo leader che trascinava gli altri paesi in un percorso – politico ed economico – da cui lei avrebbe tratto il massimo giovamento. In questa nuova Europa sono ben definiti i ruoli: chi comanda e chi obbedisce, chi può prendere le decisioni strategiche e chi si può al più limitare al tentativo d’influenzarle. Un quadro in cui il ruolo dell’Italia è evidente, ma ancora più evidente il fatto che optando per porsi in subalternità si finisce per accettare le decisioni delle forze egemoni nella UE, anche quando queste vadano contro i propri interessi. 

La Germania lanciò un progetto di ampio respiro che oggi si manifesta nella sua concretezza e che prevedeva la costruzione dell’egemonia – politica ed economica – in Europa. Forse fare dei paragoni con i vari Reich è per certi versi azzardato, ma per altri non tanto. Infatti il progetto prevedeva la propria riaffermazione su territori in cui più volte ha insistito la presenza tedesca (fino alla Prima Guerra Mondiale con l’alleanza tra Germania e Impero Austro-Ungarico e successivamente con il Terzo Reich). Anche in quest’ottica va inquadrata l’espansione ad Est avviata con il crollo dei paesi socialisti: nella ricomposizione della sfera d’influenza tedesca.

Sotto la spinta delle forze Euro-Atlantiche caddero tutti i paesi del Patto di Varsavia, che repentinamente passarono ad un sistema di libero mercato compatibile con il nuovo corso europeo. Tuttavia la Jugoslavia socialista (Stato multietnico per antonomasia) non mostrava particolari segni di cedimento. Questa infatti, non gravitando nell’orbita sovietica, non aveva eccessivamente accusato il colpo di quegli eventi. Pertanto, era evidente che per “normalizzare” la Jugoslavia si sarebbe dovuto ricorrere a differenti metodi, optando per alimentare le tensioni etniche e disarticolarla in piccoli stati. Su questa operazione convergevano gli interessi di diversi poteri forti: gli USA impegnati nella crociata contro il socialismo, la NATO in corsa verso Est, la Germania smaniosa di espandersi fino ai vecchi confini dei Reich, il Vaticano di Woytila che voleva costruire una nuova e cattolicissima Croazia. 

Le forze Euro-Atantiche incendiarono i Balcani dando il via ad una terribile guerra civile, in Croazia sostennero gruppi che si ponevano in continuità con il passato fascista, compresi i ferocissimi Ustascia. Con il beneplacito delle forze Euro-Atlantiche la Croazia si macchiò di orribili crimini e fece una terribile pulizia etnica. Nel 1991 i cittadini di etnia croata nel Paese erano il 78% della popolazione complessiva, dieci anni dopo erano diventati il 90%. Con l’indipendenza, la Croazia era diventata di fatto uno Stato fascistoide, semi confessionale ed etnicamente quasi omogeneo. Ma soprattutto la Croazia diventava uno Stato davvero identitario, nell’accezione peggiore del termine. 

Uno Stato in cui qualsiasi “diverso” è un nemico: altre etnie, chi abbia un pensiero politico non allineato a quello dominante, altre religioni, ecc. In Croazia i “diversi” soffrono uno stato di soggezione e marginalizzazione – si sentono sotto costante minaccia – per molti le strade percorribili sono sostanzialmente due: l’emigrazione o l’assimilazione (cioè la rinuncia della propria cultura per assumere quella dominante). Infatti, da dopo l’indipendenza, la popolazione complessiva della Croazia è in costante riduzione mentre aumenta la percentuale di croati a discapito delle altre etnie. 

Un fenomeno riguardante pure la comunità italiana che dai primi anni ’90 ha subito una grave e costante riduzione. Questa comunità non fu vittima di pulizia etnica durante la guerra, sia perché l’Italia non lo avrebbe potuto permettere, sia perché è inverosimile pensare che l’aiuto offerto dall’Italia alla Croazia non avesse una contropartita nella protezione della minoranza italiana. Comunque le statistiche confermano che ancora oggi la comunità italiana in Croazia si riduce sempre di più e anche in questo caso per emigrazione o assimilazione. Molti degli italiani in Croazia si sentono stranieri e marginalizzati, incompatibili con uno Stato identitario, per ciò spesso preferiscono o andare a vivere in Italia o rinunciare alla propria identità per sposare quella croata. 

Questo scenario è estremamente triste e abbastanza noto, il frutto avvelenato delle manovre geopolitiche e imperialistiche delle forze Euro-Atlantiche a cui l’Italia non si è opposta. Ovviamente esistono delle organizzazioni che curano gli interessi degli italiani in Croazia, ma qui non si vuole entrare nel merito di questi gruppi e tanto meno degli orientamenti politici loro e dei loro componenti. Qui si vuole riflettere su un aspetto che non è stato adeguatamente indagato, cioè la contraddizione che in quel frangente esplode in seno alle forze politiche europeiste italiane: hanno appoggiato un progetto geopolitico che ha leso la comunità italiana in Croazia. Nella Croazia indipendente che l’Italia ha contribuito a costruire non c’è spazio per i “diversi”, quindi neanche per gli italiani, è una comunità destinata a scomparire anche per colpa dell’Italia.

Come detto, all’inizio degli anni ’90 il mondo fu sconvolto da enormi cambiamenti, la NATO andava a ridefinire le proprie funzioni e in Europa si accelerò sul processo d’integrazione ad egemonia tedesca. In questo quadro si colloca la destabilizzazione della Jugoslavia. La ricostruzione di quegli anni necessita anche di uno sguardo alle vicende italiane. L’Italia si presentava fiaccata al tavolo di trattative europee in quanto subì una durissima speculazione finanziaria ad opera, tra gli altri, di quel George Soros che si stava impegnando nella distruzione della Jugoslavia. La cosiddetta “Prima Repubblica” era tramontata e sulla scena politica si presentarono nuovi protagonisti. Altre forze politiche si riciclarono tramite metamorfosi: il PCI diventava PDS e il MSI diventava AN. Questi ultimi partiti fecero delle svolte con cui si candidavano a divenire forze di Governo sposando ciecamente la causa europeista. 

In definitiva il processo d’integrazione europea proseguiva a tappe forzate e tutta la classe di governo italiana ne era espressione. Il destino della comunità italiana in Croazia era un problema che praticamente nessuna forza politica aveva intenzione d’affrontare. Tuttavia i dati demografici erano inoppugnabili, la comunità italiana si stava riducendo e il clima nel Paese era ostile a tutte le minoranze. Per questo nel 1996 si cercò di correre ai ripari firmando un trattato bilaterale con cui si sancì che “la Repubblica di Croazia prenderà le misure necessarie per la protezione della minoranza italiana”: le persecuzioni contro gli italiani non ci furono, ma la comunità era comunque destinata a sparire; con il nuovo corso croato era inevitabile. Per le forze di Governo italiane era una contraddizione insanabile, uno scandalo che avrebbe potuto avere conseguenze politiche inimmaginabili.

In questo contesto in Italia repentinamente irruppe con vigore la questione delle Foibe: un coro trasversale di politicanti, giornalisti e “storici” di dubbia serietà iniziarono a raccontare che gli italiani in Croazia erano stati sterminati da Tito. Ovviamente anche la Slovenia venne trascinata nella vicenda, ma con minor enfasi. 

Nel dibattito politico italiano la questione delle Foibe è stata assolutamente marginale per circa mezzo secolo (fino agli anni ’90), salvo poi farla diventare di forza un tema politico centrale. Per giustificare questo cambio di registro venne inventata di sana pianta una fantomatica “congiura del silenzio” basata su argomentazioni grottesche. Infatti fino agli anni ’90 la questione delle Foibe era stata nota e dibattuta, ma per quello che realmente era, verosimilmente dandogli anche una corretta quantificazione. 

Successivamente c’è stato un vero e proprio impazzimento collettivo, con una sorta di macabra gara a chi raccontava la versione più tetra: senza alcun riscontro, e in spregio di ogni seria ricerca storica, venivano proposte cifre in libertà. Particolarmente interessante è stata la risposta scatenata dall’apertura del dibattito sulla bontà della “ricostruzione storica”: reazioni feroci e isteriche. Un qualcosa di smisurato e oltremodo scomposto per quelli che erano ormai – dopo tanti anni – i termini della vicenda. La questione delle Foibe, infatti, era improvvisamente  diventato il più caldo tra tutti gli aspetti della Seconda Guerra Mondiale. 

Dato che tutto ciò non era imputabile a novità di rilievo – non c’era stata alcuna scoperta di nuove fonti – sorse da subito il dubbio che dietro la questione delle Foibe ci potesse essere dell’altro, un qualcosa che tuttavia non si manifestava palesemente e che non si riusciva a cogliere. Ma soprattutto, risultava difficile credere che quel qualcosa di cui si sospettava l’esistenza potesse davvero essere relativo a dei fatti avvenuti negli anni ’40. Serpeggiò insomma subito il dubbio che si potesse trattare di qualcosa di più recente. A tal riguardo sono state formulate diverse ipotesi, in vario modo collegate all’evoluzione degli assetti politici interni e internazionali di quegli anni o a varie forme di opportunismo e trasformismo. Sicuramente si tratta di letture che trovano numerosi riscontri, tuttavia non riescono ad essere esaustive.

Collegando i vari eventi viene quindi da chiedersi se, da dopo gli anni ’90, la questione delle Foibe possa essere stata usata in Italia come “arma di distrazione di massa”, cioè per nascondere all’opinione pubblica un tema ben più attuale qual è la salvaguardia della comunità italiana in Croazia. Si è fatto passare il messaggio che le Foibe siano state il genocidio degli italiani nei Balcani. Si vuole far credere che gli italiani in quelle terre furono o massacrati da Tito o costretti alla fuga (con l’Esodo Giuliano Dalmata). Cioè, viene diffusa una narrazione da cui è completamente rimosso il fatto che, dopo quegli eventi, ci fosse ancora una consistente comunità italiana nei Balcani

La rimozione potrebbe non essere casuale, ma collegata al fatto che negli anni ’90, in Italia, si era deciso di svincolarsi dalla comunità italiana in Croazia (e di voltarle le spalle, concedendo qualche mancia come “buonuscita”). Una volta cambiati i termini della questione, l’Italia non era tenuta ad intervenire, perché per l’opinione pubblica il problema non esisteva più

Spostando artificiosamente agli anni ’40 l’estinzione della comunità italiana in Croazia, automaticamente veniva assolto chi dagli anni ’90 in poi è stato complice nel segnarne il destino: il tradimento è arrivato proprio da chi si presentava come suo paladino.

Ovviamente si tratta di vicende estremamente complesse, che è difficile poter trattare con esaustività in spazi brevi e su cui pochi sono disponibili al confronto. Abbiamo tutti il dovere morale d’indagare sul nostro passato (anche sul più recente), per rendere giustizia alla verità, alla memoria storica e alle vittime.

Certamente non si possono escludere altre concause, ma l’ipotesi di lettura della questione delle Foibe qui esposta è particolarmente innovativa e spinosa, si inserisce nel più ampio dibattito sul delicato tema del Confine Orientale. L’importanza della vicenda non è solo nell’interesse storico o politico, si tratta di un qualcosa di concreto e impellente. 

Il destino della comunità italiana in Croazia è un tema estremamente serio, che non può essere risolto con qualche regalia, va affrontato politicamente. Ma è altrettanto importante fare piena luce su tutte le vicende del Confine Orientale, anche qualora – sia dal passato remoto che da quello più prossimo – emergano verità scomode. Ora la priorità è capire se la questione delle Foibe venga strumentalmente utilizzata per coprire delle scelte scellerate: il sacrificio della comunità italiana in Croazia sull’altare dell’integrazione europea.

 

[[ https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8990 ]]

(english / italiano)

 
Venezuela: oro giallo e oro nero
 
1) “L’oro del Venezuela resta qui!”: il ruolo di Bank of England e Deutsche Bank nel golpe in atto a Caracas (A. Ramaccioni, 29/1/2019)
2) Venezuela, golpe dello Stato profondo (M. Dinucci, 29/1/2019)
 
 
Altri link:
Una telefonata dagli USA avrebbe innescato il piano per la presa del potere in Venezuela (Sputnik, 27 gennaio 2019)
ORIG.: Un coup de fil des USA aurait déclenché un plan secret de prise du pouvoir au Venezuela (26.01.2019)
Intervista a Maduro (Ignacio Ramonet, Granma 18 gennaio 2019)
Granma International riproduce estratti dall’intervista di Ignacio Ramonet al Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro
http://aurorasito.altervista.org/?p=4911
ORIG.: Granma International reproduces excerpts from Ignacio Ramonet’s interview with the President of the Bolivarian Republic of Venezuela, Nicolás Maduro (Ignacio Ramonet, january 18, 2019)
Bank of England refuses to hand over Venezuela's gold – report (9 Nov, 2018)
Sanzioni statunitensi contro l’oro venezuelano: portata e obiettivi (Mision Verdad 6 novembre 2018)
 
 
=== 1 ===
 
 
“L’oro del Venezuela resta qui!”: il ruolo di Bank of England e Deutsche Bank nel golpe in atto a Caracas
di Alessio Ramaccioni, 29 gennaio 2019
 

Dietro la scomparsa dell’oro venezuelano, c’è la regia degli Stati Uniti. Leggendo una notizia del genere potrebbe sembrare di esser finiti in una spy story, o in una vecchia storia d’avventura di un paio di secoli fa. Stiamo invece parlando di cronaca, di politica, di quello che sta avvenendo in Venezuela. E come sempre quando si segue la pista dei soldi – in questo caso dell’oro – poi le dinamiche in atto iniziano a diventare chiare.

Sono tre le notizie interessanti, da questo punto di vista, che circolano da ieri, citate e proposte da Corriere della Sera e da Sole 24 Ore (media che non possiamo certo annoverare tra quelli pro-Maduro, che di fatto da queste parti non esistono).

La prima arriva dall’agenzia Bloomberg: la Banca d’Inghilterra ha bloccato una richiesta del governo venezuelano di ritirare oltre un miliardo di dollari in lingotti d’oro in possesso della stessa banca. Si tratta di parte della riserva aurea all’estero della banca centrale venezuelana, quindi teoricamente nelle sue disponibilità.

La seconda notizia la riporta la Reuters: l’autoproclamato – e quindi golpista – presidente Guaidò ha scritto a Teresa May, chiedendo formalmente di non restituire l’oro perchè “sarebbe usato per la repressione” da parte di Maduro.

La terza notizia arriva dal Sole 24 Ore, ed è quella che forse “pesa” di più. Sono due, in realtà, le news contenute nell’articolo di Alessandro Plateroti, che suggeriamo di leggere (https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2019-01-26/-l-oro-caracas-londra-congelato-usa-deutsche-bank-saga-193032.shtml?uuid=AEFrBQLH).

Il primo spunto è in apertura di articolo: dietro il mancato rimpatrio a Caracas nel settembre scorso di 550 milioni di dollari di lingotti d’oro depositati a Londra, non c’erano infatti «problemi procedurali» come hanno sostenuto finora la banca centrale e lo stesso governo inglese, ma una vera operazione di esproprio internazionale organizzata segretamente dalla Casa Bianca”. 

Più chiaro di così si muore. Nello specifico, l’autore fa riferimento ad un precedente diniego da parte dell’autorità britannica che era stato attribuito a questioni di procedura.

Il secondo arriva qualche riga dopo, ed è ancora più clamoroso, forse.

Secondo alcune fonti, la quantità di oro venezuelano in possesso della Bank of England sarebbe praticamente raddoppiato. Da 14 tonnellate presenti nel mese di novembre 2018 alle 31 tonnellate attualmente custodite.

Ma come, a settembre Londra blocca il rimpatrio di 500 milioni di oro e il governo venezuelano gliene affida altre diciassette tonnellate? Sono matti? No. Perchè l’oro non arriva dal Venezuela, ma dalla Germania. Più precisamente dalla Deutsche Bank, che lo aveva avuto come garanzia da parte di Caracas per un prestito concesso quattro anni fa. 

Bloccare l’accesso alle riserve auree al governo di Maduro è una operazione che può avere conseguenze gravi ed immediate. L’oro è usato infatti da anni come valuta di scambio per l’acquisto di beni di consumo anche fondamentali, come cibo e farmaci. Un modo – spiega il Sole 24 Ore – per superare gli ostacoli del lungo embargo a cui il Venezuela è sottoposto da anni da parte degli Usa.

E qui si chiude il cerchio, che parte ed arriva sempre lì, negli Stati Uniti: “I sospetti che dietro questi casi ci sia la regia della Casa Bianca girano da mesi, come riportato in un’inchiesta del Sole 24 Ore il 29 novembre 2018. Una conferma arriva ora da Marshall Billingslea, Assistant Secretary for Terrorist Financing del Dipartimento al Tesoro Usa: «All’inizio di ottobre – rivela a sorpresa Billingslea – il Segretario Mnuchin ha incontrato i ministri delle Finanze d’Europa e Giappone, i governatori delle Banche Centrali e i responsabili dell’intelligence, per definire un piano di azione comune contro Maduro: l’obiettivo più importante e immediato è bloccare il commercio dell’oro sovrano venezuelano. Alcuni risultati li abbiamo già avuti in questi giorni…». Non a caso, erano proprio gli stessi giorni in cui Londra aveva deciso di bloccare il rimpatrio dei lingotti a Caracas.”

Citiamo volentieri e volutamente le ultime righe dell’articolo del Sole 24 Ore perchè, in storie come questa, la chiarezza è fondamentale.

Quello che sta avvenendo in Venezuela è qualcosa di assolutamente artificiale, eterodiretto, antidemocratico. Nasce dalla volontà di un paese terzo rispetto alle vicende venezuelane – gli Stati Uniti – che sta imponendo la sua agenda ad altri paesi terzi che vigliaccamente ne diventano complici.

La “storia dell’oro del Venezuela” è l’ennesima dimostrazione di tutto questo. E mentre Guaidò annuncia di stare prendendo il controllo dei beni all’estero del Venezuela – con l’ovvio e necessario benestare dei paesi che quei beni li ospitano -, gli Stati Uniti annunciano altre sanzioni. La prima ad essere colpita potrebbe essere la Pdvsa, la compagnia petrolifera di Stato.

 
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Venezuela, golpe dello Stato profondo

di Manlio Dinucci, su il manifesto del 29.01.2019

L’annuncio del presidente Trump, che riconosce Juan Gualdó «legittimo presidente» del Venezuela è stato preparato in una cabina di regia sotterranea all’interno del Congresso e della Casa Bianca. La descrive dettagliatamente il New York Times (26 gennaio).

 

Principale operatore è il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio, «virtuale segretario di stato per l’America Latina, che guida e articola la strategia dell’Amministrazione nella regione», collegato al vicepresidente Mike Pence e al consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Il 22 gennaio, alla Casa Bianca, i tre hanno presentato il loro piano al presidente, che l’ha accettato. Subito dopo – riporta il New York Tmes – «Mr. Pence ha chiamato Mr. Gualdó e gli ha detto che gli Stati uniti lo avrebbero appoggiato se avesse reclamato la presidenza».

Il vicepresidente Pence ha poi diffuso in Venezuela un video messaggio in cui chiamava i dimostranti a «far sentire la vostra voce domani» e assicurava «a nome del presidente Trump e del popolo americano: estamos con ustedes, siamo con voi finché non sarà restaurata la democrazia», definendo Maduro «un dittatore che mai ha ottenuto la presidenza in libere elezioni».

L’indomani Trump ha ufficialmente incoronato Gualdó «presidente del Venezuela», pur non avendo questi partecipato alle elezioni presidenziali del maggio 2018 le quali, boicottate dall’opposizione che sapeva di perderle, hanno decretato la vittoria di Maduro, con il monitoraggio di molti osservatori internazionali.

Tale retroscena rivela che le decisioni politiche vengono prese negli Usa anzitutto nello «Stato profondo», centro sotterraneo del potere reale detenuto dalle oligarchie economiche, finanziarie e militari. Sono queste che hanno deciso di sovvertire lo Stato venezuelano. Esso possiede, oltre a grandi riserve di preziosi minerali, le maggiori riserve petrolifere del mondo, stimate in oltre 300 miliardi di barili, sei volte superiori a quelle statunitensi.

Per sottrarsi alla stretta delle sanzioni, che impediscono al Venezuela perfino di incassare i dollari ricavati dalla vendita di petrolio agli Stati uniti, Caracas ha deciso di quotare il prezzo di vendita del petrolio non più in dollari Usa ma in yuan cinesi. Mossa che mette in pericolo lo strapotere dei petrodollari. Da qui la decisione delle oligarchie statunitensi di accelerare i tempi per sovvertire lo Stato venezuelano e impadronirsi della sua ricchezza petrolifera, necessaria immediatamente non quale fonte emergetica per gli Usa, ma quale strumento strategico di controllo del mercato energetico mondiale in funzione anti-Russia e anti-Cina. A tal fine, attraverso sanzioni e sabotaggi, è stata aggravata in Venezuela la penuria di beni di prima necessità per alimentare il malcontento popolare.

È stata intensificata allo stesso tempo la penetrazione di «organizzazioni non-governative» Usa: ad esempio, la National Endowment for Democracy ha finanziato in un anno in Venezuela oltre 40 progetti sulla «difesa dei diritti umani e della democrazia», ciascuno con decine o centinaia di migliaia di dollari.

Poiché il governo continua ad avere l‘appoggio della maggioranza, è certamente in preparazione qualche grossa provocazione per scatenare all’interno la guerra civile e aprire la strada a un intervento dall’esterno. Complice l’Unione europea che, dopo aver bloccato in Belgio fondi statali venezuelani per 1,2 miliardi di dollari, lancia a Caracas l’ultimatum (concordato col governo italiano) per nuove elezioni. Le andrebbe a monitorare Federica Mogherini, la stessa che l’anno scorso ha rifiutato l’invito di Maduro di andare a monitorare le elezioni presidenziali.

[[ https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8989 ]]

IL TERRORISMO DEI SEPARATISTI ALBANESI IN KOSOVO E METOHIJA

di Rade Drobac

Febbraio 1999
Fonte: ARTEL GEOPOLITIKA - www.artel.co.yu

La situazione attuale in Kosovo e Metohija dimostra assai chiaramente i veri scopi dei separatisti e terroristi albanesi e conferma in totale il contenuto di questo testo scritto nel febbraio 1999, poco prima l'aggressione della NATO contro la Jugoslavia, precisamente per supportare questi stessi separatisti e terroristi.

(srpskohrvatski /français / english / italiano)
 
Il monumento a Tudjman e altre ciliegine reazionarie croate
 
1) LINKS
2) Zagreb 30/1: Prosvjed ispred spomenika Franji Tuđmanu 
Si terrà mercoledì a Zagabria, di fronte al monumento a Tudjman "sfregiato" con una falce e martello dal 24-enne Filip Drač, un presidio per richiedere non solo il proscioglimento del giovane ma anche azioni giudiziarie contro chi ha sfregiato e distrutto in Croazia nell'ultimo quarto di secolo molte centinaia di lapidi e monumenti a martiri e partigiani caduti nella Lotta Popolare di Liberazione
FLASHBACK 2017: Spomenik Franji Tuđmanu koštat će Zagrepčane 560 tisuća kuna
 
 
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Zaratino multato per aver corretto un graffito "Ammazza il serbo" in "Ama il serbo"
Задранин кажњен јер је преправио графит "Уби Србина" (10.1.2019.)
 
Croazia: L’epilogo del caso Agrokor, il colosso agroalimentare evita il fallimento (di Pierluca Merola, 10/1/2019)
... l’Agrokor, con un fatturato di 6,5 miliardi di euro l’anno, è la più grande società per azioni dell’Europa sud-orientale. La società è presente in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Ungheria, Slovenia e Serbia, dove impiega più di 130.000 persone. Infine, il valore dell’Agrokor è pari da solo al 16% del PIL croato. Da quando è fuggito nell’ottobre 2017, Todoric ha sempre dichiarato di essere vittima di una congiura internazionale, orchestrata dal governo croato e dal fondo di investimento americano Knighthead Capital Investments, per privarlo della propria compagnia... Il nuovo assetto societario vede la banca russa Sberbank come socio di maggioranza con il 39,2% delle azioni, seguita dagli ex-obbligazionisti con il 25% delle azioni, la cui maggioranza è gestita dalla Knighthead Capital Investments. Partecipazioni minori sono poi detenute dalla russa VTB bank (7,5%) e dall’italiana Unicredit (2,3%)...
 
Révisionnisme Pro-Oustachi En Croatie : Le Nouveau Scandale De Noël (CdB 9 janvier 2019)
« Joyeux Noël pour tous les ’amis’ serbes » : voici ce qu’a écrit sur Facebook le fils d’un député du HDZ, avec la photographie d’un milicien oustachi tenant des têtes coupées de combattants serbes. Ce nouveau scandale s’inscrit dans la vague de révisionnisme pro-oustachi, dénoncent les organisations serbes de Croatie...
 
Croazia: genere e spazio urbano, le donne dimenticate (Ana Kuzmanić, Ivana Perić, 08/01/2019)
Lo spazio urbano è fondamentale nel processo di creazione di una memoria collettiva e per immaginare il futuro. In Croazia, nella toponomastica, non vi è però traccia di nomi femminili
 
Croatia: Crimes Denied and Criminals Praised (Anja Vladisavljevic / BIRN, 26/12/2018)
The downplaying of crimes committed by Croatia’s World War II fascist regime and the public rehabilitation of convicted criminals from the 1990s war continued to cause alarm in 2018
 
Croazia, come ricordare i luoghi storici “dimenticati”? (di Alice Straniero, 04/12/2018)
Suvremena kutura sjećanja u Hrvatskoj i Europi: Kako dalje na odabranim lokacijama na Golom otoku, Grguru, Pagu i Rabu?", Rijeka, 26.-27. listopada 2018.
 
 
Sul fascista croato che a novembre 2018 nella città di Spalato, nella foga di abbattere a calci il busto dell'eroe antifascista Rade Končar, si è rotto una gamba:
 
Sulla situazione tragica per la libertà di stampa:
 
Croazia: giornalisti e media sotto processo (OBC / Radio Popolare, 21 gennaio 2019)
 
Croazia, mille cause contro i giornalisti (Giovanni Vale, 18/01/2019)
 
Croazia: quel cazzuto trio del Feral (Giovanni Vale, Srđan Sandić, 31/12/2018)
Due giornalisti di punta e un famoso caricaturista. Sono tra i fondatori dello storico settimanale satirico croato Feral Tribune. In questa intervista, il trio commenta senza peli sulla lingua la situazione in Croazia, lo stato di salute dei media e altro ancora
 
 
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Si terrà mercoledì a Zagabria, di fronte al monumento a Tudjman "sfregiato" con una falce e martello dal 24-enne Filip Drač, un presidio per richiedere non solo il proscioglimento del giovane ma anche azioni giudiziarie contro chi ha sfregiato e distrutto in Croazia nell'ultimo quarto di secolo molte centinaia di lapidi e monumenti a martiri e partigiani caduti nella Lotta Popolare di Liberazione. 
 
Sul caso del monumento a Tudjman si veda anche: 
Na novom Tuđmanovom spomeniku u Zagrebu osvanuo zanimljiv grafit (R.I., 6.1.2019.)
https://www.index.hr/mobile/clanak.aspx?category=vijesti&id=2054448
 
 
 
Srijeda 30 siječanj 2019.
od 18:00 ispred spomenika Franji Tuđmanu - križanje Ulice grada Vukovara i Ulice Hrvatske bratske zajednice u Zagrebu
 
Prosvjed - Protiv političke represije
 
Baza za radničku inicijativu i demokratizaciju (BRID), Mreža Antifašistkinja Zagreba (MAZ), Radnička Fronta, Radnički portal i Socijalistička radnička partija Hrvatske (SRP) u srijedu, 30. 1. 2019. organiziraju prosvjed „Protiv političke represije“ koji će se održati u Zagrebu ispred spomenika Franji Tuđmanu na križanju Ulice grada Vukovara i Ulice Hrvatske bratske zajednice u 18 sati.

IZJAVA POVODOM PROSVJEDA:

U deindustrijaliziranoj i iseljenoj Hrvatskoj u kojoj većina stanovništva jedva preživljava, a domaći i strani kapitalisti na najgrublji način desetljećima eksploatiraju radnice i radnike, seljakinje i seljake, umirovljenice i umirovljenike, studentice i studente, protekli je tjedan započela medijska i javna hajka. Država je preko svog ministarstva raspisala tjeralicu za dvadesetčetverogodišnjakom koji je na spomenik privatizacijske pljačke, uništene privrede i ratnih zločina 90-ih nacrtao simbol radničke i seljačke sloge. Javnom objavom identiteta osumnjičenika represivni aparat namjerno je proizveo i nastavlja proizvoditi opasnu atmosferu koja graniči s pozivom na linč, a na koji će dio desničarske javnosti spremno odgovoriti.

S druge strane, državni aparat, koji tijekom devedesetih uspostavlja i njime autoritarno upravlja Franjo Tuđman, nije učinio ništa da zaustavi uništavanje preko 3000 spomenika i spomen obilježja posvećenih antifašističkom otporu, borbi za narodno oslobođenje, kao i stotinama tisuća žrtava ustaško-fašističkog terora. Smatramo da je nužno naglasiti činjenicu da sadašnji režim nastavlja s toleriranjem neofašističkog vandalizma, dok se u nekim slučajevima uključuje i u promociju ustaške ikonografije. Masovna uporaba eksplicitnih ili latentnih simbola ustaškog režima ne problematizira se u javnosti već više od dva desetljeća, unatoč tome što su zakonski zabranjeni, za razliku od komunističkih, radničkih i antifašističkih simbola. Očiti rezultat jest da se takva kaznena djela i njihovi počinitelji ne osuđuju i ne proganjaju.

Nužno je naglasiti da je korištenje javnih institucija za selektivnu i pristranu represiju, čemu svjedočimo u navedenom slučaju – a sve kako bi se reproducirala dominantna ideologija – nedopustivo u demokratskom društvu.

Zbog svega navedenog oštro osuđujemo ovaj gnjusni čin kapitalističke države, njezinog represivnog aparata i institucija koji preko leđa mladića koji se suprotstavio sistemu poručuju da će u zatvor trpati sve ljude koji, pa makar i na simboličan način, pokušaju pružiti otpor njihovoj vladavini. Postojeća ekonomska i društvena devastacija u najvećoj mjeri ostavština je Franje Tuđmana i Hrvatske demokratske zajednice. U potpunosti shvaćajući da je otpor puzajućoj fašizaciji društva nužan, od vladajućih zahtijevamo:

- da se smjesta obustave postojeća politička i policijska represija, hajka i linč
- da nadležne institucije započnu s procesuiranjem i kažnjavanjem odgovornih za uništenje spomenika Narodno-oslobodilačke borbe
- da Državno odvjetništvo smjesta odbaci optužnicu protiv Filipa Drače

Antifašistički VJESNIK
Baza za radničku inicijativu i demokratizaciju (BRID)
Mreža antifašistkinja Zagreba (MAZ)
Radnička fronta
Radnički portal
Slobodni Filozofski
Socijalistička radnička partija Hrvatske (SRP)
 
 
--- FLASHBACK:
 
TRAD.: CROATIE : L’OMNIPRÉSENT FRANJO TUĐMAN FAIT SON RETOUR À ZAGREB (H-Alter, lundi 11 décembre 2017)
Après avoir débarqué à l’aéroport Franjo Tuđman, vous pourrez vous détendre au Parc Franjo Tuđman, avant d’aller vous recueillir devant le nouveau monument à Franjo Tuđman... La mairie de Zagreb fait des coupes sèches dans les budgets sociaux, mais vient de débloquer 90 000 euros pour une statue de l’ancien Président...
 
 
 
675 tisuća kuna za Tuđmana
Toni Gabrić
07.12.2017.
 
H-Alter otkriva: Spomenik Franji Tuđmanu koštat će Zagrepčane 560 tisuća kuna.

Grad Zagreb ovih je dana, nakon višemjesečnog natezanja, bio prinuđen dostaviti nam ponudbeni list koji je početkom godine zaprimio od akademika Kuzme Kovačića za posao koji je službeno opisan kao "modeliranje izvedbene skice–modela i izrada kipa dr. Franje Tuđmana u glini u konačnim dimenzijama". Na osnovu te ponude zagrebački gradonačelnik Milan Bandić s Kovačićem je 20. travnja ove godine potpisao ugovor za izradu Tuđmanovog spomenika, koji nam je također isporučen po slovu zakona. Navedeno remekdjelo trebalo bi ukrašavati tzv. Sveučilišnu livadu, kako se službeno zove onaj teško pristupačni zeleni prostor preko puta Nacionalne i sveučilišne knjižnice, na kojem su posađene znamenite Bandićeve fontane.

Iz ponudbenog lista vidljivo je da je Kovačić za navedeni posao zatražio od Grada 560 tisuća kuna. Isti iznos prepisan je i u ugovor, kao svota koju Grad mora iskeširati Kovačiću za obavljeni posao, s naznakom "bez PDV-a". U Odluci o odabiru donesenoj 18. travnja, vrijednost nabave je procijenjena na 674.900 kuna, uz naznaku "bez PDV-a". Kako smo doznali u tajništvu Hrvatskog društva likovnih umjetnika, za ovakav se tip autorskog rada niti ne plaća PDV, pa naznaku iz ugovora ne bi trebalo tumačiti u smislu da bi Grad, uz ovaj "neto" iznos, trebao platiti još i PDV. Međutim, napominju u HDLU-u, uz plaćanje osnovnog iznosa redovito ide porez i prirez, a vjerojatno i još neka specifična davanja, što ukupnu cijenu izrade Tuđmanova spomenika diže na blizu 700 tisuća kuna.

Računamo li prema recentnijim službenim podacima, radi se o iznosu koji jedan prosječni zagrebački radnik (uzmemo li pritom u obzir samo one zaposlene) zaradi za stotinu mjeseci, odnosno za nešto više od osam godina svakodnevnog rada. Unesemo li pak u kalkulaciju podatke o prosječnoj mirovini proizlazi da umirovljenik Kuzma Kovačić za izradu još jednog u nizu svojih Tuđmana zaradi 311 prosječnih mirovina. Drugim riječima, jedan penzioner/penzionerka toliko novaca primi za 26 godina mirovinskog staža, naravno, ako ih doživi.
 

Vidimo da Franjo Tuđman, otkako se preselio u onostranost, živi na jednako visokoj nozi kako je to uobičajio dok je provodio vrijeme na ovome svijetu. On je sebi bio beskonačno važniji od svakog običnog smrtnika pa je, korak po korak, postao beskonačno važniji i njima samima. Privatizirao je vilu u kojoj je živio u Nazorovoj točno dan prije donošenja propisa kojim je bio zabranjen otkup rezidencijalnih objekata i vila u sjevernom dijelu grada, deložiravši pritom bivše susjede i iskeširavši za taj rezidencijalni objekt tričavih 200 tisuća DEM-a, čime je udario ton pljačkaškoj privatizaciji koja je ubrzo nakon toga, u jeku rata, započela.

Jednoga sina je instalirao na čelo svih obavještajnih službi, supruga mu je postala liderica karitativnog pokreta za djecu Hrvatske, kćer uspješna trgovkinja luksuznom tehničkom robom s dućanom u MORH-ovoj zgradi i s poslom koji je bio uspješan dok je ćaća bio živ i na vlasti. Drugi sin mu je bio uspješan ugostitelj čiji je uspjeh također durao dok je ćaća stolovao na Pantovčaku, jednako kao i uspjeh unuka, talentiranog bankara. Uspjesi su se devedesetih nizali, sve zahvaljujući Franji i njegovom beskonačno važnom položaju, čime se obitelj Tuđman inaugurirala u rodonačelnike nepotizma u modernoj povijesti Hrvata.

Završilo je, kao što znamo, time da ga danas djeca u školama "uče" kao Stvoritelja hrvatskog državotvornog čuda. Čudo se, u glavnim crtama, sastoji u tome što je, u povijesnom trenutku u kojem je u Europi i srednjoj Aziji niklo cca. 25 novih, samostojnih i suverenih država, svaka zasebno kao neprijeporno ostvarenje tisućljetnih snova naroda koji većinski u njima žive – i Franjo uspio napraviti svoju. Pa je zato posve normalno, razumljivo i hvale vrijedno da mu Zagreb diže spomenik težak 26 godina prosječnog penzionerskog staža.

U jeku skupštinske rasprave o gradskom budžetu suvišno bi bilo pitati se je li taj izdatak najpotrebniji u situaciji kada se iz budžeta vidi da Bandićeva vlast očito i u 2018. namjerava preskočiti vruću temu sanacije Jakuševca, da nemilosrdno reže sredstva za osnovno i srednje školstvo, za unapređenje stanovanja, za nezavisnu kulturu, za organizacije naprednog civilnog društva – ali zato jednako tako nemilosrdno podiže sredstva za plaće i druga davanja gradskoj birokraciji koju su prvih deset godina nakon tzv. Stjecanja Nezavisnosti po babi i po stričevima regrutirali Mikšin i Canjugin HDZ, a preostalih sedamnaest godina Bandić i njegov bivši SDP. Suvišno bi bilo pitati, jer takva budžetska struktura, takvo regrutiranje i takva birokracija nisu ništa drugo no logična posljedica politike kakvu je na ovim prostorima inaugurirao Onaj kojemu akademski kipar Kuzma Kovačić, prekaljeni autor bezbrojnih Gospi, Oltarā Domovine, Svetih otacā, Prvih Hrvatskih Predsjednikā i čega sve još, ta vjerna domovinska kopija blitvinskog vajara, ideologa i političara Romana Rajevskog, upravo vaja spomenik, na radost i veselje svih Blitvinki i Blitvina, pardon: Hrvatica i Hrvata koje je za života usrećio.

Suvišno bi bilo napomenuti i da je Zagrebačka skupština, ona koja je bila u mandatu do proljeća 2017, odluku da se Prvom Hrvatskom Predsjedniku sagradi taj spomenik donijela jednoglasno. Tu su hvalevrijednu zamisao od srca podržali svi vijećnici i vijećnice, redom: iz SDP-a, HNS-a, HSU-a, HSLS-a, HSS-a, Kandidacijske liste grupe birača Milana Bandića, te naravno iz HDZ-a i koalicijskog mu HSP-a.

I tako, kada danas putnik namjernik, biznismen, diplomat ili obični turist iz neke druge zemlje doleti u Hrvatsku, prvi će fizički kontakt s našom zemljom najvjerojatnije ostvariti na aerodromu glavnoga grada, koji se odnedavno zove Zračna luka Franjo Tuđman. Zatim će se, taksijem ili aerodromskim autobusom, provesti pored velebnog spomenika Franji Tuđmanu, okruženog fontanama od kojih ti zastane dah, šarenim cvijećem, a u perspektivi u društvu Spomenika domovini. Ako za svojega boravka zaluta malo dalje od najužeg centra grada, mogao bi se naći na prostoru nekadašnjih Rudolfovih vojarni, nazvanim Parkom Kristijana Barutanskog, pardon, Franje Tuđmana.

Od skupštinske odluke o gradnji spomenika pa do trenutka njegova postavljanja, koji još nije nastupio, politička se perspektiva ponešto promijenila. Međunarodna je zajednica u neku ruku službeno zauzela stav, za koji smo otpočetka znali da je istinit, i baš smo zato Tuđmana voljeli, ali smo se ipak nadali da će stvari ostati pri tome da to samo mi to znamo: vječitoj umjetničkoj motivaciji i izvoru prihoda Kuzme Kovačića pravomoćno je drugostupanjskom sudskom presudom potvrđeno da je bio na čelu udruženog zločinačkog pothvata čiji pripadnici su, nije na odmet još jednom citirati:

"Već u decembru 1991. članovi rukovodstva Hrvatske zajednice Herceg-Bosne i čelnici Hrvatske (među kojima je Franjo Tuđman, predsjednik Hrvatske) ocijenili da je za ostvarivanje krajnjeg cilja, to jest za uspostavljanje hrvatskog entiteta, neophodno promijeniti nacionalni sastav stanovništva na teritorijama za koje se tvrdilo da pripadaju Hrvatskog zajednici Herceg-Bosni. U najmanju ruku od kraja oktobra 1992., Jadranko PrlićBruno StojićMilivoj Petković i Slobodan Praljak znali su da je ostvarivanje ovog cilja u suprotnosti s mirovnim pregovorima koji su se vodili u Ženevi i da podrazumijeva premještanje muslimanskog stanovništva izvan teritorije Herceg-Bosne."

Taj hrvatski je identitet trebao biti uspostavljen "djelomično u granicama Hrvatske banovine iz 1939., kako bi se omogućilo ponovno ujedinjenje hrvatskog naroda. Ovaj hrvatski entitet u BiH trebalo je ili da se pripoji Hrvatskoj nakon eventualnog raspada BiH, ili da postane nezavisna država unutar BiH, tijesno povezana sa Hrvatskom".

Pa zatim, "u osmišljavanju i ostvarivanju zajedničkog zločinačkog cilja, jedna grupa hrvatskih javnih ličnosti, među kojima se ističu Franjo Tuđman, Gojko ŠušakJanko BobetkoMate Boban, Jadranko Prlić, Bruno Stojić, Slobodan Praljak, Milivoj Petković, Valentin Ćorić i Berislav Pušić, postigla je međusobni dogovor. Iz svih činjeničnih i pravnih zaključaka koje je Vijeće izvelo, proizilazi da su se organi, strukture i ljudstvo HVO-a koristili radi ostvarivanja različitih aspekata zajedničkog zločinačkog cilja".

U sjajnom intervjuu nedavno objavljenom u NovostimaŠtefica Galić, urednica mostarskog portala Tačno.net, ističe da je njezina zemlja napadnuta od dva agresora, Hrvatske i Srbije, koji su kao nagradu za to dobili svoje teritorije – Republiku Srpsku i Herceg-Bosnu "u pokušaju". "Nije li to sveopći poraz pravde i ljudskosti", pita ona. Svejedno, posljednju haašku presudu Galić vidi kao šansu za Hrvatsku da se "radikalno razračuna sa zločinačkim aspektima službene Tuđmanove politike devedesetih", i da dio društva koji odbija to prihvatiti, konačno prihvati, i usput počne ozdravljati.

"Prihvaćanje" bi, rekli bismo nakon jučerašnjeg govora Kolinde Grabar-Kitarović pred Vijećem sigurnosti UN-a i zadnjih vrludanja Andreja Plenkovića, moglo nastupiti samo u smislu oportunističkog taktiziranja pred međunarodnom zajednicom. Dok istinsko odricanje od tuđmanovske prošlosti ne prevlada, Zagreb će biti jedan od vrlo rijetkih glavnih gradova čijim javnim prostorima dominira ličnost koja se presudom međunarodnog suda dovodi u vezu s najtežim ratnim zločinima. Dizajn glavnog hrvatskog grada ubrzano se mijenja po želji ekstremne desnice, a ostale stranke gradskog političkog mainstreama ne pružaju otpor već, kao u slučaju Tuđmanova spomenika, drže lopovske ljestve takvom razvoju događaja. 

(srpskohrvatski / italiano)
 
Con il Venezuela democratico e sovrano
 
Gli Stati Uniti non hanno ritenuto sufficiente per l'America Latina la presa del potere da parte del nazista Bolsonaro in Brasile ed hanno perciò deciso di promuovere un colpo di Stato in Venezuela.
La giusta risposta del Venezuela democratico di Maduro non si è fatta attendere ( 
https://www.facebook.com/296334033272/posts/10157751071878273/ ).
Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia Onlus, coerentemente con la propria vocazione alla amicizia e solidarietà tra i popoli, si schiera a fianco del Venezuela bolivariano, aderisce alle manifestazioni indette in Italia e specialmente a quelle di BOLOGNA e MILANO (vedi sotto) ed invita tutti/e a partecipare ed esprimere la propria solidarietà alle scelte democratiche di quel popolo.

(english / français / srpskohrvatski / italiano)
 
Grande Albania come laboratorio islamista radicale
 
1) La ‘Grande Albania’, un rifugio sicuro per il jihadismo internazionale (M. Furlan)
... l’organizzazione islamica cosiddetta dei Mujaheddin e-Khalq (Mujaheddin del Popolo, MEK) dispone ora di una grande base in territorio albanese ...
2) FLASHBACKS 2017
Links / Croci spezzate e loculi profanati in Kosovo / Kosovo, così nei villaggi reclutano i ragazzi / Sgominata cellula jihadista a Venezia, tutti del Kosovo / Kosovo Albanian Terror Threatens Venice 
3) FLASHBACKS 2016

Links / Roma, arrestato Karlito Brigande, ex criminale UCK macedone arruolato nell'IS

 
 
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La ‘Grande Albania’, un rifugio sicuro per il jihadismo internazionale

di Margherita Furlan, 22 gennaio 2019

Il governo albanese ha espulso due diplomatici iraniani, l’ambasciatore Gholamhossein Mohammadnia e Mohammed Roodaki, funzionario presso l’ambasciata a Tirana, accusati di essere membri sotto copertura dell’intelligence iraniana. Secondo quanto riferisce il quotidiano The Independent, i due sarebbero stati parte di una cellula il cui compito era di organizzare “un complotto per colpire l’opposizione iraniana rifugiatasi in Albania”. La mossa sarebbe stata messa in atto in seguito a colloqui con Paesi “interessati”, tra cui Israele e Stati Uniti. Non a caso l’amministrazione di Washington si è immediatamente congratulata con l’esecutivo albanese per il provvedimento intrapreso.

La notizia diffusa dall’Independent ha però sollevato l’attenzione su uno scenario fino ad ora poco studiato e rimasto comunque fuori dal raggio di attenzione internazionale. Scenario in cui gli Stati Uniti hanno affidato all’Albania un ruolo centrale, e il cui fine (uno dei fini) appare quello di incrementare la destabilizzazione dell’intera area balcanica.  

Protagonista di tutta l’operazione è l’organizzazione islamica cosiddetta dei Mujaheddin e-Khalq (Mujaheddin del Popolo, MEK) che dispone ora di una grande base in territorio albanese. L’arrivo in Albania del comando del MEK è preceduto da una storia oltremodo lunga e tortuosa che merita di essere raccontata in dettaglio. 

I Mujaheddin e-Khalq nacquero nel 1963, in Iran, con l’obiettivo di opporsi all’influenza occidentale nel Paese e come acerrimi avversari del regime dello Shah. Nel 1979 il Mek partecipa alla rivoluzione guidata da Khomeini ma l’ideologia che lo caratterizzava all’epoca era un singolare incrocio di marxismo, femminismo e islamismo. Come tale del tutto incompatibile con quella degli ayatollah sciiti e il Mek è costretto a disperdersi, mentre il suo quartier generale si trasferisce a Parigi nel 1981. In questo lasso di tempo il MEK “cambia pelle”, oltre che ideologi e finanziatori e, cinque anni dopo, riappare in Iraq, precisamente a Camp Ashraf, a nord di Baghdad. Si distingue come formazione armata autonoma — alcune migliaia di combattenti bene addestrati, con le famiglie al seguito — che supporta Saddam Hussein contro l’Iran e appare attivamente in numerosi episodi della repressione dei curdi iracheni. Il MEK sopravvive stranamente alla caduta di Saddam Hussein e, nel 2003 viene trasferito, dagli americani vincitori, letteralmente “armi e bagagli”, in un altro grande accampamento militare che prenderà, non a caso, il nome di Camp Liberty.. Da quell’avamposto si diramano numerosi attentati terroristici e azioni di diversione e boicottaggio contro l’Iran. Formalmente “disarmato” dall’esercito statunitense, inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, il MEK continua a svolgere una intensa azione bellica e propagandistica contro Teheran. Sempre sotto la guida del Quartier Generale di Parigi e sempre lasciato libero di agire dai servizi segreti americani, israeliani, francesi. L’ambiguità della sua collocazione non gl’impedisce — anzi lo aiuta — di incassare il supporto più o meno esplicito di esponenti politici occidentali. Ad esempio quello dell’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, insieme a quello di John Bolton, ex rappresentante USA alle Nazioni Unite e attuale consigliere per la sicurezza nazionale. Perfino l’ex commissaria europea Emma Bonino si affaccia ad alcune delle sue iniziative “umanitarie”. Sul New York Times,nel 2012, apparirà un elenco di sostenitori, tra cui diversi esponenti del Congresso americano, ma anche R. James Woolsey e Porter J.. Goss, ex direttori della Cia, Louis J. Freeh, ex direttore dell’Fbi, Tom Ridge, ex segretario della Homeland Security sotto la presidenza George W. Bush, l’ex procuratore generale Michael B. Mukasey e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, il generale James L. Jones, ai tempi di Obama. Il quotidiano statunitense illustrò anche come l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, “sdoganò il Mek, rimuovendolo dalla “black list” (l’organizzazione era considerata terrorista non solo da Iran e Iraq, ma anche da Unione europea, Gran Bretagna, Usa e Canada). E così ritroviamo il MEK in Albania. 

Di nuovo con “armi e bagagli”. Impresa molto costosa, che ha certamente richiesto un consistente ponte aereo e grandi spese di insediamento per migliaia di persone. Organizzatori di un tale esodo sono stati, senza alcun dubbio, i servizi segreti americani. Ma perché proprio in Albania? E con quali compiti? 

Qualcuno è andato a chiederlo a diversi politici albanesi e si è sentito rispondere, senza alcun imbarazzo, qualcosa del tipo:“l’America ci ha dato il Kosovo, ora dobbiamo dare qualcosa in cambio”.

Interessante l’intervista recentemente rilasciata al Balkans Post da Olsi Jazexhi, storico canadese-albanese specializzato nella storia dell’Islam nell’Europa sud orientale: “l’America sta trasformando l’Albania in un rifugio sicuro per il jihadismo internazionale”.

I “Mojahedeen del popolo” sono una presenza senza precedenti in Albania, che pure ha ospitato non pochi combattenti islamici prima e durante la guerra contro la Jugoslavia. Quando gli USA portarono il primo gruppo di jihadisti iraniani in Albania, il governo iraniano protestò pubblicamente e vigorosamente. All’epoca, il primo ministro Sali Berisha assicurò agli iraniani che il Mek sarebbe stato ospitato in Albania solo per ragioni umanitarie e nessuna azione contro l’Iran sarebbe stata permessa dal governo albanese. “Tuttavia, il tempo ha dimostrato, — spiega Jazexhi — che i mojahedeen iraniani vennero in Albania non solo per chiedere asilo, ma con l’intenzione di trasformare l’Albania in un secondo Afghanistan, nel cuore dell’Europa”. Il meccanismo sarebbe in sostanza, lo stesso con cui, negli anni ’80, i mojahedeen afghani furono sostenuti e finanziati dagli americani per combattere l’URSS. 

E non si tratta di indiscrezioni. Nel 2016 la stessa Voice of Americaha annunciato che l’Albania avrebbe accettato 2mila mojahedeen in cambio di 20 milioni di dollari. Sempre con i dollari USA si starebbe costruendo un nuovo campo situato tra Tirana e Durazzo dove, secondo il premier di Bulgaria, Bojko Borisov, andrebbero a dislocarsi gruppi di combattenti dell’ISIS in fuga dalla Siria, colà trasportati con aerei della US Airforce. Il premier albanese Edi Rama ha subito smentito. 

Nel campo di Manza sarebbero oggi “ospitati” circa 4.400 membri del MEK, che vivono in quasi completo isolamento, impossibilitati a uscire, anche ad avere contatti con le loro famiglie, evidentemente accampate nelle vicinanze. Qualcosa di simile a una setta, con rigide norme morali e religiose da rispettare. Cosa succeda da quelle parti non è facilmente verificabile data la strettissima sorveglianza che circonda il campo. Ma non si perde tempo. Un recente documentario di Al-Jazeera ha rivelato l’esistenza di un vasto gruppo di militanti che è stato istruito nelle tecniche della diversione informatico-comunicativa: qualcosa che potrebbe essere definita come “cyber-jihad”, ovvero notizie false e attacchi informatici, sia rivolti contro l’Iran, sia destinati al pubblico europeo per far crescere la paura dell’Iran, per influenzare i media europei in vista di una rottura dei rapporti con Teheran.  

Nell’ultimo anno diverse sono state le prese di posizione a favore del Mek anche da parte di esponenti del panorama politico italiano. Una delegazione ufficiale del Partito Radicale Italiano e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” ha visitato il quartier generale albanese dei mujaheddin, a sostegno della lotta per i diritti umani contro il governo iraniano. Si è distinto in questa direzione l’ex ministro degli esteri del governo Monti, Giulio Terzi, volando in una delle basi del MEK in Albania per annunciare “appoggio incondizionato”, per definire i suoi militanti come “combattenti per la libertà”, assicurandoli che “un’ampia parte della società italiana è convinta che stare dalla vostra parte significa stare dalla parte giusta della storia”. Infine — sono sempre le parole che Giulio Terzi avrebbe pronunciato in quella occasione, secondo il Guardian—: “I mullah se ne devono andare, gli ayatollah se ne devono andare e devono essere rimpiazzati da un governo democratico sotto la guida della signora Rajavi, leader del Mek”. Un disegno da manuale di “regime change”: rovesciamento di un governo e susseguente “esportazione di democrazia”. Film già visto in abbondanza. 

Intanto però, mentre il confine tra l’Albania e il Kosovo sta scomparendo ed Edi Rama, in nome degli standard europei, e con il plauso di Bruxelles (quella della Ue e quella della NATO), lavora perché lo “sportello unico” venga adottato anche al confine con la Macedonia, il Montenegro e la Grecia. La Serbia dev’essere isolata ed esclusa, in attesa di essere sottomessa definitivamente. La Grande Albania si appresta a diventare un’arma puntata su ciò che resterà dell’Europa. 

 
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FLASHBACKS 2017
 
LINKS:
 
KOSOVO: CHI FINANZIA LA RADICALIZZAZIONE? (PresaDiretta, trasmissione di RAI3, 11 settembre 2017)
VIDEO: https://www.facebook.com/PresaDiretta.Rai/videos/10159386810630523/
 
NATO SLEP NA RAST VELIKE ALBANIJE, A DŽIHADISTI DIVLJAJU NA JUGU KOSOVA (20. Jun 2017.)
... Nakon što je potvrđeno da je u redovima tzv. Islamske države poginuo džihadista Lavdrim Muhadžeri iz Kačanika, na Kosovu i Metohiji, Radio Slobodna Evropa ovaj grad opisuje kao “džihadističku prestonicu Evrope”...
 
ÉTAT ISLAMIQUE : LE DJIHADISTE KOSOVAR LAVDIM MUHAXHERI AURAIT ÉTÉ TUÉ EN SYRIE (CdB, jeudi 8 juin 2017)
Lavdim Muhaxheri, plus connu sous le nom de Abu Abdullah al Kosova, aurait été tué par un drone américain en Syrie. Originaire du Kosovo, Lavdim Muhaxheri était l’un des chefs des combattants balkaniques de l’État islamique...
https://www.courrierdesbalkans.fr/Etat-islamique-l-Albanais-Lavdim-Muhaxheri-tue-par-un-drone-en-Syrie
 
KOSOVO, STATO FALLITO RIFUGIO DELL'ISIS (di Barbar Ciolli, 30 marzo 2017)
Il veto all'indipendenza. La minoranza serba, da persecutrice a perseguitata. I traffici di armi e uomini. La povertà, la corruzione e l'Islam radicale. Ecco da dove arrivano i jihadisti arrestati a Venezia... [SI VEDANO ANCHE I SIGNIFICATIVI COMMENTI IN CALCE]
 
KOSOVO: "NON PENSAVAMO CHE TORNASSERO TERRORISTI..." (Rassegna JUGOINFO 7/3/2017)
 
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Croci spezzate: Kosovo in balia del radicalismo
Croci spezzate e loculi profanati. In Kosovo la furia iconoclasta degli islamisti si è abattuta su un cimitero cristiano ortodosso.

Elena Barlozzari - Lun, 05/06/2017
 
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Kosovo, imam radicali e disoccupazione: così nei villaggi reclutano i ragazzi
Fra Mitrovica e i borghi rurali l'Isis arruola i foreign fighters. E su YouTube un predicatore incita all'odio: "Il sangue degli infedeli è la nostra bevanda preferita" 

dal nostro inviato PIETRO DEL RE, 31 marzo 2017
 
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Terrorismo, sgominata cellula jihadista a Venezia: "Bomba a Rialto e guadagni il paradiso"
 
Arrestati tre uomini, sotto i trent'anni, e fermato un minore. Tutti del Kosovo, uno di loro era tornato dalla Siria dove aveva combattuto. Nelle perquisizioni, anche a Mestre e a Treviso, trovate alcune pistole. Progettavano un attentato per fare centinaia di morti. Attivi su internet, avevano contatti con tutto il mondo

dal nostro inviato FABIO TONACCI, 30 marzo 2017
 
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Kosovo Albanian Terror Threatens Venice 
 
by Grey Carter, April 7, 2017 

Here’s the analysis of the  Kosovo Albanian Terror Plot to Blow up Rialto Bridge in Venice, made by Andrew Korybko, analyst at the Moscow-based Geopolitika..Ru  think tank
 
Italian officials stopped Kosovo Albanian Daesh terrorists from blowing up the world-famous Rialto Bridge in Venice last week.Although the event is somewhat dated by news cycle standards, it’s still worth reflecting on for everything that it signifies. The paramount concern for everyone who heard the story is that Daesh is now actively targeting Italy, though this isn’t exactly news because the group had earlier threatened the country a few years ago in its “Black Flag Over Rome” manifesto. What’s changed since then, however, is that we see that they managed to inspire operatives within the country to organize an attack, which was thankfully averted by the security services before anyone got hurt.
Italy’s an important target for Daesh for a few reasons, namely the fact that the Pope’s home of Vatican City is in Rome, the country is historically associated with Christianity, and Italy was involved in the War on Libya and reportedly has some special forces on the ground there. Moreover, because of its location right across the Mediterranean from that war-torn country, it’s a prime destination for all sorts of migrants, some of which could easily be terrorists which are posing as “refugees”. In addition, Italy is known for its famous tourist sites which attract millions of visitors from across the world, thereby presenting terrorists with a multitude of soft targets to carry out high-profile attacks against.
Extrapolating more broadly from what we know about this foiled plot, there’s the fact that all four of the suspects are Kosovo Albanians who were legally living in Venice. This draws awareness to the Albanian migrant crisis, which preceded the Mideast one though receives barely any attention to this day. Tens, if not hundreds, of thousands of Albanians have left their home country and the NATO-occupied Serbian Province of Kosovo for the EU, a massive movement of people which proves that those two areas are failed entities. Albania has always had a slew of problems, but Kosovo never used to be this bad, though it began to resemble its dysfunctional neighbor after the 1999 NATO War on Yugoslavia and ethnic cleansing of the Serbs succeeded in turning it into one of Europe’s drug mafia headquarters.
It’s not only narcotics and crime, but also radical Islam which is contributing to the province’s many problems, as is painfully evidenced by the arrest of the four Kosovo Albanian Daesh terrorists. They’re not outliers, either, as many reports have come out over the past couple of years about how fertile of a recruiting ground Kosovo has become for terrorists. This is mostly attributable to its socio-economic devastation brought about by the NATO conflict there, which in turn created space for Wahhabis and other fundamentalists to prosper. Albanians have a history of migrating to and working in Italy, so in hindsight it’s predictable that the country would eventually become threatened by these sorts of terrorists. 
Still, I doubt that Italy can do anything about it because there are just too many Albanians living there and nobody has any idea how many are radicalized, so they’ll probably keep responding on a case-by-case basis unless they get brave and take systemic immigration measures to preemptively deal with this threat. ”
 
 
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FLASHBACKS 2016
 
LINKS:
 
L'ISIS CHE ABBIAMO FORAGGIATO IN KOSOVO (Rassegna JUGOINFO 30/11/2016)
 
JIHAD DAL KOSOVO, LA SCOPERTA DELL'ACQUA CALDA CONTINUA (Rassegna JUGOINFO 30/7/2016)
 
L'ISIS "VENDICHERÀ SREBRENICA" ? (Rassegna JUGOINFO 21/1/2016)
 
KOSOVO, IL PICCOLO ISIS D'EUROPA (Rassegna JUGOINFO 2/12/2015)
 
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Roma, arrestato Karlito Brigande, ex criminale macedone arruolato nell'Is: cellula pronta a attentato in Iraq
 
I carabineri del Ros hanno documentato il suo tentativo di scappare in Iraq per compiere un attentato con autobomba. Ordinanza di custodia cautelare anche per l'uomo che l'ha arruolato, un tunisino transitato in Italia prima del trasferimento nelle file del Califfato. Manette per un terzo straniero in contatto con Brigande

di FABIO TONACCI, 12 marzo 2016
 
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VIDEO: "Prendo una macchina con l'esplosivo contro il miscredente"

 

(srpskohrvatski / italiano)
 
"Foibe" parola in codice per la revanche
 
0) INIZIATIVE E LINK SEGNALATI
– Elenco aggiornato dei premiati per il "Giorno del ricordo"
– Cologno Monzese (MI) 7/2: Le foibe nelle complesse vicende del confine orientale (1920-1947)
– Parma 10/2: Foibe e fascismo 2019
– Sulle figure degli “infoibati” Ernesto Mari ed Angelo Bigazzi (Claudia Cernigoi, gennaio 2018)
1) Strascichi del convegno promosso da Jugocoord Onlus e Historia Magistra nel 2018
– Odgovor predsedniku Republike Serdjo Matareli (učesniki i organizatori susreta "Dan sećanja - jedan bilans", održan u Torinu 10. februara 2018.god.)
– Un Ricordo da aggiustare (Fabrizio Salmoni, 12/2/2018)
– „Dan Sjećanja“ 2018. (Vladimir Kapuralin)
– Il trionfo della menzogna: le foibe (di Angelo d’Orsi, 20/2/2018)
2) Ancora sul film “Red Land”: Una ricostruzione sgangherata per un’operazione culturalmente grave (di Alberto Fazolo)
3) Quanti furono gli infoibati in Istria nel 1943? (di C. Cernigoi, 15/12/2018)
4) Flaskback sulla fake news della "foiba di Rosazzo": Foibe inventate e scuse mancanti (L. Marcolini Provenza, 17/2/2017)
 
 
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Ricordiamo che nel 2018 è stato pubblicato sul sito diecifebbraio.info un aggiornamento dell'Elenco dei premiati per il "Giorno del ricordo", che ammonta così attualmente a 354 riconoscimenti:
http://www.diecifebbraio.info/elenco-dei-premiati-per-il-giorno-del-ricordo/
 
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Cologno Monzese (MI), giovedì 7 febbraio 2019 
dalle ore 20:45 presso l'Auditorium di via Petrarca 9 
 
La Rete antifascista di Cologno Monzese, con l'adesione di Osservatorio Democratico Sulle Nuove Destre e Comitato Lombardo Antifascista, invita alla conferenza 
 

LE FOIBE NELLE COMPLESSE VICENDE DEL CONFINE ORIENTALE (1920-1947)  

 
Da alcuni anni si parla molto di questi temi, specie intorno al 10 febbraio, "Giorno del ricordo". Ma quanto ne sappiamo davvero?
Che ruolo gioca la propaganda politica? Cosa può dirci la ricerca storica? Perché serve conoscere la storia di quei fatti?

Ne parliamo con Claudia Cernigoi, ricercatrice e giornalista, direttrice del periodico triestino La Nuova Alabarda, autrice di numerosi saggi tra cui “Operazione foibe tra storia e mito” (ed. Kappa Vu, Udine, 2005), redattrice del sito web www.diecifebbraio.info

Ingresso libero
evento FB: https://www.facebook.com/events/689979444811445/
 
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Parma, domenica 10 febbraio 2019
alle ore 10:30 presso il Cinema Astra, Piazzale Volta 3
 
FOIBE E FASCISMO 2019
 
Quattordicesima edizione della contromanifestazione cittadina in occasione del "Giorno del Ricordo"  
– Conferenza di Sandi Volk
– Testimonianze
– Video su "foiba di Basovizza" e "caso Norma Cossetto"
 
a cura del Comitato Antifascista Antimperialista e per la Memoria Storica con l'adesione di ANPI e ANPPIA
 
 
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MEMORIA: LE FIGURE DEGLI “INFOIBATI” ERNESTO MARI ED ANGELO BIGAZZI (Claudia Cernigoi, gennaio 2018)
Chi furono Ernesto Mari ed Angelo Bigazzi, “infoibati” nell’abisso Plutone, ai quali sono state recentemente intitolate le case circondariali rispettivamente di Trieste e Gorizia? Quando la memoria condivisa fa ricordare sia il deportato nei lager che il collaborazionista del Reich che lo fece deportare…
SCARICA IL TESTO IN FORMATO PDF: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2018/01/LE-FIGURE-DI-ERNESTO-MARI-ED-ANGELO-BIGAZZI..pdf
 
 
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La documentazione sul Convegno da noi organizzato a Torino il 10/2/2018 "Giorno del Ricordo, un bilancio" è accessibile dalla pagina: https://www.cnj.it/home/it/informazione/confine-orientale/8732-torino-10-2-2018-giorno-del-ricordo,-un-bilancio.html
 
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ORIG.: In risposta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (relatori e organizzatori del Convegno "Giorno del Ricordo. Un bilancio" tenuto a Torino il 10 febbraio 2018)
 
 
 

Odgovor predsedniku Republike Serdjo Matareli od strane učesnika i organizatora susreta 'Dani sećanja' - jedan bilans', održan u Torinu 10. februara 2018.god.

 

Izjava odgovora predsedniku Republike, gospodinu Serdjo Matareli

Učesnici i organizatori susreta 'Dan sećanja' - jedan bilans', koji se danas održava u Torinu, primili su postupak Predsednika Republike povodom obeležavanja godišnjice 10. februara, utemeljene Zakonom u Parlamentu, marta 2004. godine, i upisane  u kalendar javnog praznovanja u Republici. Reči najvišeg predstavnika Države plaše nas, ukoliko nisu samo obećanje  vodećim ‘elementima’ revanšističke, pa čak i neofašističke propagande.Osim glasnog priznavanja ‘najteže nacifašističke  okupacije ovih zemalja’ predsednik Matarela još jedanput upire prstom - kao prema javnoj sramoti – na ‘titinski komunizam’, pokazujući neprihvatljivo nepoznavanje istorijskih činjenica (zadovoljićemo se, na primer, ako samo podsetimo da su uz  jedinice jugoslovenskih partizana,  još pre Italijana ili nemačkih nacista stajali i borci svih nacionalnosti, takođe neprijatelji; bili su to pre svega Hrvati, ‘ustaše’, slovenački ‘domobrani’,  Srbi, ‘četnici’, Albanci, ‘balisti’). Zašto i danas sledimo pogrešan trag,  običaj političke upotrebe istorije: one istorije koja je manipulisana, nanovo pisana i ‘prilagođena’ ad usum – prema potrebi..

Rezultati našeg skupa, međutim, potvrđuju još jedanput, da je ona priča o fojbama samo dosledna i prava političko-kulturna operacija potekla uspostavljanjem zakona br. 92/ 2004, koji je doprineo da nastane opšte antikomunističko i antifašističko mišljenje, uverenje okrenuto sećanju na suprotne vrednosti.  U toj operaciji, umesto potrebe, iako zakasnele, da odgovornost preuzme Zemlja, ponvo se razglasila samovoljna misao o nevinosti ‘dobrih ljudi Italijana’. Od šefa Države očekivali smo sasvim drugo jemstvo, šta više, istorijsko-politički stavu koji sve više prepoznaje osvajački  i opasan povratak fašizma  (više nego li – ‘nacionalizma’, kako obazrivo piše Matarela).

Na kraju ovog pisma-apela Predsdniku Države, učesnici velikog torinskog skupa obavezuju se da će nastaviti sa svojim radom, ozbiljnošću, iskrenim svedočenjem i objavljivanjem – razglašavanjem otkrivenog u vrletima istorije.  Da bi se na način pravih boraca i poštovalaca tradicije – Resistenze - zarekli, zaključivši da njihovo delo podrazumeva – i borbu:

Sebbene emarginati, e spesso impediti di parlare, ostacolati nella stessa attività di ricerca, gli studiosi e le studiose, oggi presenti a Torino, assieme agli organizzatori e a coloro che ci hanno testimoniato la loro vicinanza e solidarietà si impegnano a continuare il proprio lavoro, con lo studio, la testimonianza, la divulgazione. E la lotta.  

Torino, 10 februar 2018.god.


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Izjava predsednika Matarele (izvor):

«Giorno del Ricordo ustanovljen je od Parlamenta da bismo se setili jedne stranice pune zebnje koju je naša Zemlja proživela u Dvadesetom veku. Tragedija je planirana i izazvana željom za očišćenjem na etničkoj i nacionalističkoj osnovi. 

Foibe, sa njihovim tovarima smrti, nečuvene surovosti, neopravdane i nepravednog nasilja, to su tragični simboli jednog poglavlja još uvek malo poznatog i stoga doista još nerazjašnjenog koje govori o velikoj patnji stanovništva Istrana, Riječana, Dalmatinaca i prostora dogranične Julije.

Posle vremena najsurovije naci-fašističke okupacije ovih zemalja u kojima su nekada u saživotu dobro opstajali i živeli različiti narodi, kulture, religije, usledilo je nasilje titinovog komunizma, koji se okomio na Italijane koji su tokom dugog vremena, od 1943. do 1945.  trpeli strašne represalije.

Takođe su i foibe i prisiljeno iseljavanje postali  budućnost zatrovana ogorčenim nastupima, do krajnosti razdraženom ideologijom totalitarizma, koji su obeležili mnoge decenije prošlog stoleća.

Štete prouzrokovane ekstremnim nacionalizmom, etničkom, rasnom ili religioznom mržnjom, ponavljale  seu se i u nama mnogo bližim godinama, na Balkanu, uzrokujući bratoubilačke ratove stradanja i nehumano nasilje. 

Evropska unija je nastala kako bi se suprotstavila totalitarizmu i nacizmu Dvadesetog veka, perspektiva koja obećava mir, zajednički napredak, u demokratiji i slobodi. 
Danas, takođe zahvaljujući Evropskoj uniji u tim ugnjetavanim krajevima razvija se dijalog, saradnja, prijateljstvo među narodima i državama.

Stradanja i nasilja, patnje izbeglica - esula - iz Julije, Istrana, Riječana i Dalmatinaca ne mogu da budu zaboravljeni, umanjeni ili odbačeni. One čine deo, u punom značenju reči, nacionalne isorije i predstavljaju neizbrisivo poglavlje koje nas opominje najtežih iskušenja krajnjeg nacionalizma, etničke mržnje, političke surovosti privržene sistemu vlasti. ».

U Rimu, 9 februara 2018.god.

 
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Un Ricordo da aggiustare

12 FEBBRAIO 2018
 
Mentre nel Paese si scatena la retorica nazionalista sulle foibe ed è in pieno sviluppo il ritorno alla superficie delle organizzazioni nazifasciste,  un Convegno di studi a Torino cerca di ristabilire la verità storica e si impegna a contrastare la contraffazione della memoria. Il “comunicato di replica” a Mattarella.
di Fabrizio Salmoni
E’ il momento di reagire alla disinformazione storica e di andare all’attacco!” Questa l’esortazione che chiude il convegno sul Giorno del Ricordo, tenutosi al Caffè Basaglia di Torino, sabato 10 febbraio. Organizzato dal Coordinamento nazionale per la Jugoslavia Onlus e dalla rivista Historia Magistra con l’adesione  dell’Anppia (Ass. Naz. perseguitati Politici Italiani antifascisti ) nazionale e sezioni di Torino, Genova e Cuneo, delle sezioni Anpi di Grugliasco (To), Chivasso (To), Montebelluna (Tv), Casale Monferrato (Al), Avigliana (To), Bassi Viganò (Mi), Valle Elvo e Serra (Bl); dell’Aicvas (Ass. Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna), del Cvig (Centro Iniziative Verità e Giustizia), del Centro Studi Italia-Cuba, del Comitato di lotta antifascista per la memoria storica di Parma, della redazione di Marx.21.it, di Casa Rossa Milano, del Comitato contro la guerra di Milano.
Tra gli altri, hanno inviato messaggi di saluto i partigiani Bruno Segre, Lidia Menapace, Italo Poma e il vicesindaco di Torino Guido Montanari.
Nella lunga lista di adesioni, spicca l’assenza dell’Anpi provinciale, un segnale inquietante che si spiega con le esitazioni espresse a livello nazionale dopo i fatti di Macerata. Sala piccola ma strapiena con gente fuori.
Sotto accusa la legge 92/2004 che istituisce il Giorno del Ricordo su basi storiche molto discutibili e su pressione degli ambienti dei profughi istriani e neofascisti.  Una pressione facilitata dalle tendenze revisioniste maturate fin dagli anni Novanta all’interno della sinistra istituzionale. Vengono infatti ricordate le incursioni degli ex Pci Luciano Violante (a Trieste nel 1991 con Fini per sdoganare “i ragazzi di Salò) e le  successive dichiarazioni di Fassino e di Napolitano nella stessa direzione.
Perchè è necessario secondo gli organizzatori un chiarimento sulla verità delle foibe e sul vergognoso cover up istituzionale che “rovescia” i termini della “questione del confine orientale” a favore delle destre? Sostanzialmente perchè quella che è diventata in brevissimo tempo una vulgata nazionalista, vittimistica e “politicamente corretta” sui cosiddetti “martiri delle foibe” cancella i tanti elementi discordanti dalla verità ufficiale: In particolare, il contesto e le cause:
  1. L’aggressione contro Jugoslavia, Grecia e Albania scatenata dal regime fascista, che vide atrocità e stragi contro la popolazione civile;
  2. La complicità dei collaborazionisti italiani di Istria e Dalmazia nella repressione della Resistenza jugoslava;
  3. La vittoriosa controffensiva finale del 1945 dei partigiani jugoslavi (nei cui ranghi erano confluiti dopo l’8 settembre 1943, 40.000 soldati italiani) contro i fascisti croati, serbi e albanesi che coinvolse direttamente nella “resa dei conti” l’Istria e i tanti collaborazionisti italiani (e quanti rimasero indifferenti alla repressione contro i patrioti jugoslavi) i quali furono colpiti duramente e cacciati (un esodo che andrebbe spiegato all’interno della logica dei Trattati di pace, imposti a una nazione sconfitta).
Tre elementi di una verità storica che quella istituzionale tende a cancellare insieme alle responsabilità italiane nelle vicende che segnarono gli ultimi mesi e l’immediato dopoguerra con la ridefinizione dei confini: l’Italia perdeva l’Istria perchè aveva perso la guerra da essa stessa scatenata.Sulle foibe, gli interventi al convegno hanno contestato i numeri accreditati delle vittime, “cifre iperboliche, inventate dagli ambienti neofascisti” come risulta dalla ricerca dell‘Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione condotta negli anni 1987-1992 su tutti gli archivi civili e militari e alleati disponibili,  pubblicata dall’Anpi regionale: su 71 foibe esplorate sul territorio di Gorizia e Trieste, le salme recuperate furono 464, identificate e suddivise tra civili, partigiani, militi della Rsi, forze varie di polizia, militari italiani e tedeschi. Cifre che troverebbero conferma nel numero delle decorazioni (341) riconosciute alle vittime in base alla legge 92/2004, “la gran parte appartenenti alle forze armate dell’Italia fascista, che per di più avevano giurato fedeltà a Hitler, o a personale politico fascista, molti dei quali veri e propri criminali di guerra” come riferisce Umberto Lorenzoni, presidente Anpi di Treviso. Solo alcuni dei tanti che sfuggirono alla meritata punizione – ha sottolineato Davide Conti, autore de Gli uomini di Mussolini (Einaudi 2017) – perchè alla fine del conflitto, “nessuno di quelli denunciati da Jugoslavia, Grecia, Albania, Francia e dagli angloamericani venne mai processato in Italia o epurato o estradato o giudicato da tribunali internazionali, ma tutti furono reinseriti negli apparati dello stato postfascista con ruoli di primo piano” con conseguenze nefaste per gli equilibri democratici dell’Italia negli annni a venire. Alcuni di quei personaggi ebbero ancora un ruolo nei tentativi autoritari e nella strategia della tensione.
Lo storico Angelo D’Orsi ha relazionato sulle tappe della “lunga marcia del revisionismo” storico, un processo favorito dai politici di destra e di sinistra, dagli spazi concessi ad una ristretta cerchia culturale di destra, da un Pci (e successivi derivati) sempre voglioso di riciclarsi come Partito della Nazione. I risultati (e i danni alla memoria storica) nel tempo sono stati, sempre secondo D’Orsi, “il giudizio riduttivo sulla Resistenza, essenzialmente quella comunista, la sua banalizzazzione,…l’equiparazione tra repubblichini e combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa....”, tutti elementi di un “rovesciamento dei fatti” che portano alla legge suddetta voluta e firmata da Napolitano e alla successiva conseguente strumentalizzazione fascista. Una versione accettata e diffusa da tutti i media e poco contrastata in sede politica e culturale da chi dovrebbe farlo, che fa anche danni collaterali, per esempio nell’istruzione dove – secondo Alessandra Kersevan, insegnante e ricercatrice – “insegnanti e storici sono indotti a un’autocensura che costringe a non parlare, a non approfondire, a un silenzioso ‘lasciar fare’ accettando le versioni imposte“.Una denuncia, quella della Kersevan che porta alla proposta di una lettera al Ministro dell’Istruzione in cui si chiede che “rievocazioni e iniziative nella scuola non siano lasciate in modo esclusivo alle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati…; che vengano fatti conoscere i crimini dell’Italia fascista nei Balcani…; che vengano ricordate e commemorate le migliaia di soldati italiani…che scelsero di combattere…con la Resistenza jugoslava… e in 20.000 morirono riscattando l’Italia dall’onta in cui il fascismo l’aveva gettata“.
Il Convegno ha avuto luogo in una giornata difficile ma esemplare per le tante manifestazioni nel Paese a cominciare da quella di Macerata ove la pressione dei partecipanti ha fatto annullare il divieto del il ministro Minniti e costretto il suo partito a convocarne un altra in differita per non infastidire troppo l’elettorato “moderato”. Una retromarcia che ha coinvolto l’apparato Cgil e il corpaccio istituzionale dell’Anpi nazionale, ancora dominato dal Pd. Incertezze e contraddizioni interne da tempo latenti che la virulenza attuale dell’offensiva delle destre sta facendo emergere in tutta la sua forza, tra una pratica antifascista attiva e popolare e un antifascismo commemorativo istituzionale sempre più simbolico, compromissivo e inefficace. Contraddizioni forse rivelatrici di un duro confronto politico interno tra le due anime. Non a caso, il gradito messaggio al Convegno della Presidente Carla Nespolo esorta a riportare in superficie la verità storica sulle foibe e sul contesto che ne fu causa e fa il paio con le sue dure parole di condanna della deriva fascista della Lega e conseguente richiesta al ministro Minniti di “sciogliere le forze politiche dichiaratamente fasciste…perchè la Costituzione parla chiaro” (La Stampa).  Un messaggio che tutti gli antifascisti aspettavano da tempo.
Come atto finale, il Convegno ha indirizzato un “Comunicato di replica” al Presidente Mattarella in cui si critica il Comunicato del Quirinale (entrambi riportati integralmente in calce) sulla ricorrenza del 10 febbraio e si contesta la contraffazione della memoria. Un segnale incoraggiante da una comunità di studiosi e docenti che si affianca organicamente alle proteste popolari di questi giorni. Nel complesso, un segnale allarmante per tutta la classe politica.(F.S. 12.2.2018)
 
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„DAN SJEĆANJA“ 2018.

U talijanskom parlamentu je 30. III. 2004. godine, pod pritiskom desničarskih i podrškom partija lijevog centra, izglasan i time ustanovljen „Dan sjećanja“ 10. februara. Tim činom se u Italiji ustoličila nova praksa, kojom se pristup iseljavanju u Italiju većeg broja Talijana, ali i Slavena, sa oslobođenih područja Istre, Dalmacije i otoka nakon II. svjetskog. rata i pripajanja tih dijelova Jugoslaviji izdvaja od dotadašnje percepcije i daje mu drugu dimenziju. U prošlosti bi se na  talijanskoj strani problem aktualizirao kada bi se pojavila politička potreba za njim. Određivanjem 10. februara „Danom sjećanja“ povod je institucionaliziran i on više nije prepušten političkoj potrebi trenutka, već se on permanentno nudi kao argument, čime si je institut vlasti zadao obavezu i ona vlast koja ne bude posegnula za njim riskira da bude doživljena kao nepatriotska.

U ovogodišnjoj izjavi talijanski predsjednik Sergio Mattarella, odaslao je poruke u kojima je neizazvano, nepoticano, često i opstruirano iseljavanje iz tog razdoblja, okarakterizirao kao planirano etničko i nacionalno čišćenje.

Razdoblje od 1943. do 1945. na ovim prostorima Mattarella vidi kao nasilje nad nemoćnim talijanima od strane „titinovog komunizma“.

http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=3539

Tim povodom, nevladina neprofitna organizacija Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (CNJ) organizirala je 10. februara u Torinu konferenciju na kojoj je nastupilo veći broj povjesničara i politologa.

https://www.cnj.it/home/it/iniziative/8732-torino-10-2-2018-giorno-del-ricordo,-un-bilancio.html

Učesnici tribine ocijenili su riječi šefa države kao izvlačenje argumenata revanšističke pa čak i neofašističke propagande. Osim nejasnog priznanja „oštre okupacije tih krajeva“, učesnici tribine zamjeraju Mattarelli izraz „titinov komunizam“ kao neprihvatljivo ignoriranje povijesnih činjenica u funkciji dnevno-političke upotrebe.

Rezultati tribine, ističu učesnici, da je slučaj „fojbi“ sadržan u zakonu no. 92/2004 doprinesao stvaranju i konsolidaciji općeg dojma usmjerenog ka antikomunizmu i anti-antifašizmu čiji je cilj favoriziranje krivotvorene memorije umjesto neophodne, iako zakašnjele, preuzete odgovornosti.

Od čelnika države očekujemo mnogo više opreza, osobito u povijesno-političkoj fazi u kojoj je povratak fašizma sve izvjesniji i opasniji od „nacionalizma“, kako Mattarella oprezno piše, stoji u izjavi.

Suočeni s problemom otežanih mogućnosti istraživanja i nastupanja, znanstvenici prisutni na tribini u Torinu, zajedno s organizatorima i onima koji ih podržavaju, obavezali su se nastaviti sa započetim radom, istraživanjem, svjedočenjem, otkrićima i borbom.

 

11. II. 2018.

Vladimir Kapuralin

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Il trionfo della menzogna: le foibe

 
di Angelo d’Orsi, 20 febbraio 2018

Se il comunismo è finito, perché l’anticomunismo prospera? A Kiev come a Roma, a Budapest come a Varsavia, a Washington come a Berlino, in Brasile come in Cile, governanti, magistrati, politici, giornalisti, professori emanano leggi, accendono polemiche, aprono processi, creano norme amministrative, o si spingono a riscrivere la storia in un senso diligentemente revisionistico, e rovescistico. 

Lo scopo è uno: mandare alla sbarra, in senso proprio o figurato (culturalmente), il comunismo, i suoi teorici, i suoi esponenti storici, i suoi dirigenti e militanti. Non solo cancellare il passato, in cui il comunismo (in qualche sua forma) ha prosperato, ma punire chi ammette di avervi aderito. “Sorvegliare e punire”, ecco la ricetta: sorvegliare e punire quei reprobi. Molti dei quali, in vero, tra coloro che rivestirono ruoli dirigenti, hanno gareggiato nel negare il proprio passato, presentandosi come esempi viventi di nicodemismo: comunisti in pubblico, per necessità (!?), acomunisti o anticomunisti nel segreto del cuore. 

Per gli altri, invece, ecco scattare la sanzione sociale. Escludere, ostracizzare, ridicolizzare chi prova a resistere sul piano culturale, chi, magari citando Bobbio, invita, semplicemente, a non rallegrarsi davanti alla caduta del comunismo storico, ma a prendere atto che anche se larga parte di quell’esperimento è fallito, rimane intatta l’ansia di liberazione di centinaia di milioni di esseri umani, schiacciati dai grandi potentati economici, vilipesi da una ingiustizia mostruosa, offesi dall’essere esclusi dal proscenio, dopo che, un secolo fa la Rivoluzione Bolscevica li aveva fatto uscire dall’ombra dando loro la parola, e addirittura portandoli al potere. Quell’ansia di liberazione dei subalterni è stata moltiplicata dagli svolgimenti del turbocapitalismo nel senso della disuguaglianza, dell’oppressione, dell’ingiustizia. Delle nuove povertà per le classi medie, delle accresciute povertà per i poveri, delle accresciute ricchezze per i ricchi. 

Il quotidiano Il Tempo, pochi giorni fa, si è spinto a proporre un’anagrafe dei comunisti: quale dovrebbe essere il passo successivo? L’esilio? Il confino di polizia? La galera? Leader politici forse destinati ad andare al governo, a dispetto della loro pochezza, come Berlusconi, Salvini, Meloni e loro adepti, non esitano a richiamare lo spauracchio comunista, convinti che quel richiamo porterà voti. Un giornalista di lungo corso come Bruno Vespa, tradendo ogni deontologia professionale, negli stessi giorni, in una puntata dedicata all’annoso tema “foibe”, scatena il proprio demone anticomunista, contro ogni verità accertata, procedendo incontrastato o quasi in vergognose filippiche prive di sostanza storica. 

E che dire del presidente della Repubblica? Il quale precisamente in relazione al “Giorno del ricordo” ultimo ha emesso un comunicato che fa accapponar la pelle, tra ignoranza e propagandismo (lo abbiamo denunciato nel recente convegno “Giorno del ricordo. Un bilancio”, svolto a Torino, il 10 febbraio 2018). 

Vespa come Mattarella in fondo colpiscono nel “comunismo titino” qualsiasi idealità comunista, ossia ogni esigenza di giustizia; e che per farlo offendano la verità storica, poco importa. Poco importa che centri di ricerca accreditati abbiano prodotto monografie, saggi, articoli, in grado di smontare le balle spaziali sulle foibe; poco importa che la menzogna delle decine (centinaia?!) di migliaia di infoibati sia smentita dalla stessa configurazione geologica del territorio; poco importa che gli italiani occupanti abbiano seminato morte e distruzione nella Jugoslavia; poco importa che quando si parla di italiani “vittime” ci si riferisca essenzialmente a quegli italiani, ossia fascisti occupanti; poco importa che l’Europa tutta debba proprio all’esercito partigiano jugoslavo guidato da Tito un tributo di gratitudine eterna; poco importa che a quella Jugoslavia l’Italia del Centrosinistra abbia dato il colpo di grazia nel 1999 con la guerra del Kosovo… 

Poco importa che la verità, insomma, venga violentata dai Bruno Vespa, e dai suoi ospiti scodinzolanti (salvo eccezioni, come l’ottima Alessandra Kersevan maltrattata con villania da Vespa), che venga sottaciuta o rovesciata da politici in cerca di consenso (ricordo solo l’orribile figurina di Maurizio Gasparri, che della questione foibe ha fatto un caso personale, che lo manda in agitazione da ictus ogni volta che ne parla, anzi, che ne strilla); la menzogna viene propalata, ripetuta, ribadita, fino a che diventa senso comune. I telegiornali, i talk show, i “programmi di approfondimenti”, i docufilm, le pseudomemorie di pseudoreduci o pseudoesiliati, stanno realizzando una sorta di cortina fumogena, dietro la quale si erge come un totem (e insieme un tabù), “la foiba”: una sorta di gigantesco monumento alla menzogna. 

Grazie a tutto ciò, a codesto apparato propagandistico, è facile che chiunque, in un’aula universitaria o in uno studio radio-tv, in un vagone ferroviario o in una vettura di tram, d’improvviso se ne esca con la fatidica domanda: “E allora, le foibe?!”. E se si prova a opporre ragionamenti argomentati alle più truci invettive, dati reali e certificati ai dati inventati, vicende storiche accertate alla propaganda becera, allora si viene sommersi dall’ingiuria e additati, una volta di più, con la stentorea accusa: “Comunista!”. Parola che vorrebbe essere il culmine dell’infamia, ma forse, a maggior ragione se si guarda a chi la proferisce, diventa un titolo di merito. 
 
 
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Sul film “Red Land” si vedano anche le recensioni alla pagina:
 
 
 
“Red Land”, una ricostruzione sgangherata per un’operazione culturalmente grave
di Alberto Fazolo, 16 gennaio 2019
 
Red Land è un film che narra (a modo proprio) di Norma Cossetto e della Resistenza in Istria. Quella della Cossetto è la vicenda più nota legata alle foibe, ma è anche una delle più controverse. Altrettanto delicata e ancora più controversa è la più generale questione delle foibe. Non si può parlare di foibe senza contestualizzare, si tratta di eventi drammatici, sicuramente caratterizzati anche da errori, su cui la propaganda nazionalista italiana non perde occasione per speculare. Ma si tratta di eventi che per essere capiti vanno inseriti almeno nel contesto della Seconda Guerra Mondiale, cioè quando si scatenò l’orrore nazi-fascista. Ancor meglio sarebbe allargare l’orizzonte fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando l’Italia annesse ampi territori abitati da non italiani (in Tirolo del Sud e in parte della Venezia Giulia) e che furono teatro di violenti scontri, nonché di ampie distruzioni. Dopo l’annessione, l’Istria venne colonizzata e fu avviato un processo di italianizzazione forzata, il nazionalismo italiano fece di quelle terre una bandiera. Con l’affermazione del fascismo, i crimini contro le popolazioni slave divennero più sistematici e crudeli. Gli eventi peggiorarono ulteriormente nel 1941 con l’invasione della Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse. Fu una delle pagine più drammatiche della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto per quel che riguarda le vittime e i crimini commessi dai nazi-fascisti. Quindi, contro gli invasori e i loro collaborazionisti, in Jugoslavia si organizzò una Resistenza che fu egemonizzata dai comunisti.

In una vicenda tanto complessa e delicata, caratterizzata anche dalla difficoltà di trovare delle fonti storiche attendibili, il film non lascia alcun margine per il dubbio, sposa con determinazione una sola versione dei fatti. Peccato però che tra le tante versioni disponibili, quella narrata nel film sia una delle più improbabili. La ricostruzione storica è sgangherata. Ci sono tante contraddizioni, alcune eclatanti anche per chi non conosca a fondo i fatti. Al netto di tutte le fandonie che si susseguono nel film, si opta per una narrazione parziale, cioè solo di un episodio sradicato dal contesto, rimuovendo o negando le cause. Decontestualizzare i fatti e ignorare le responsabilità italiane è un preciso gesto politico. Spudoratamente il film vaneggia di una fantomatica pace che in Istria sarebbe durata da secoli, il concetto di pace lo si confonde con quello di dominio: si fa passare un messaggio aberrante.

Si tratta di un film che semina odio, infarcito di stereotipi, in cui i fascisti (di cui viene esaltato l’eroismo) sono tutti buoni, quasi delle vittime degli eventi, al più sono i tedeschi ad abbandonarsi a qualche eccesso. Ancora più buoni sono tutti gli altri italiani, ad eccezione dei comunisti. Quest’ultimi vengono descritti come dei mentecatti, esaltati, infami, traditori e menomati. In un tripudio lombrosiano, è ancora più grottesco il ritratto dei partigiani jugoslavi: criminali, sadici, stupratori, alcolisti, pazzi e soprattutto brutti (aspetto su cui il regista insiste ossessivamente). In sostanza sui comunisti e gli slavi viene riproposta tutta la peggiore retorica della propaganda del ventennio fascista.

Durante la visione si fa fatica a prestare attenzione al problema del revisionismo, si è distratti dalla morbosità della narrazione: il film vuole suscitare indignazione e disgusto e non far riflettere su degli eventi.

Il regista è l’argentino Maximiliano Hernando Bruno, che non può vantare grandi esperienze dietro alla macchina da presa, infatti mostra tutti i propri limiti. Il film scade spesso nel ridicolo e nel grottesco, sembra quasi di stare a vedere una telenovella horror.

Generalmente imbarazzanti le interpretazioni degli attori. Tra i messaggi che il film vuole lanciare c’è anche quello (ovvio) che “le colpe dei padri non ricadono sui figli”, però involontariamente si riafferma pure che “i meriti dei padri non ricadono sui figli”. Infatti nel cast troviamo Geraldine Chaplin (figlia del grande Charlie), che se non avesse accettato quella parte, si sarebbe risparmiata una figuraccia.

Tra i vari che ragliano, si discosta la buona interpretazione di Franco Nero, tanto per le capacità artistiche, quanto per via del fatto che il ruolo gli s’addice alla perfezione: un anziano molto stimato che si suicida. Infatti, con questo film Franco Nero si suicida come artista, andando a seppellire sotto l’immondizia una bella carriera.. La delusione verso Franco Nero è anche umana e politica, lui aveva già recitato nel capolavoro “La Battaglia della Neretva”, il film jugoslavo del 1969 che meglio di tutti racconta le gesta eroiche della Resistenza guidata da Tito: ritrovarlo in un film del genere è sconfortante.

Il film fomenta la slavofobia, è pericoloso. Pertanto un pensiero va anche a tutti quei cittadini italiani slavofoni che ancora oggi devono subire un attacco del genere, per loro oltre al danno c’è la beffa e di sicuro se ne ricorderanno la prossima volta che dovranno pagare le tasse o votare: il film è realizzato anche grazie alla RAI e ad alcune amministrazioni locali. Ciò riconferma che le campagne revisioniste godono di ampio supporto istituzionale. Inoltre, assurdamente Red Land ha ottenuto il riconoscimento della qualifica di film d’essai e quindi godrà di agevolazioni fiscali. Tuttavia la cosa che maggiormente preoccupa è che questo film possa essere proiettato nelle scuole, con il rischio d’inculcare l’odio anche tra i giovani: una prospettiva da scongiurare.

In definitiva si tratta di un film fatto male, ma le lacune tecniche sono nulla rispetto all’abominio dell’operazione politica che c’è dietro.


=== 3 ===
 
QUANTI FURONO GLI INFOIBATI IN ISTRIA NEL 1943?
 
di Claudia Cernigoi, dalla pagina FB de La nuova Alabarda, 15/12/2018
 
Dato che a seguito del (brutto anche dal punto di vista artistico) film Red Land si è ripreso a sparare le cifre più disparate rispetto agli "infoibati" dai partigiani nel settembre-ottobre 1943, abbiamo pensato di pubblicare questo documento, che non è tratto da fonti "slavocomuniste" ma è stato pubblicato in un libro scritto da Luigi Papo, sedicente "de Montona", nonostante sia nato a Grado, uno dei "foibologi" legati all'associazionismo degli esuli giuliano dalmati, nonché denunciato per crimini di guerra dalla Jugoslavia, avendo comandato il presidio della Milizia a Montona.
Papo ha pubblicato questa lettera, inviata nell'aprile 1945 (la data riporta 24 aprile "XXIII", cioè ventitreesimo anno dell'era fascista, quindi 1945) dal federale del fascio repubblicano dell'Istria Luigi Bilucaglia al capitano Ercole Miani, rappresentante del Partito d'Azione all'interno del CLN triestino (già qui ci si domanda quali rapporti intercorressero tra i due se Bilucaglia ritenne di rivolgersi a Miani per questo).
La lettera è l'accompagnatoria, come si legge nella prima pagina, di "circa cinquecento pratiche per l'ottenimento della pensione alle famiglie dei Caduti delle foibe".
Dunque alla data del 24 aprile 1945 la federazione fascista di Pola aveva istruito 500 pratiche relative ad infoibamenti. Anche volendo ritenere che ogni pratica si riferisse al deceduto e non ad ogni parente, risulta che dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 (nel computo venivano considerati anche i caduti per mano partigiana nel corso del conflitto) furono "circa 500" gli "infoibati". Non migliaia, quindi, come i propagandisti disinformatori pretendono. 
(Il libro di Papo è "L'Istria e le sue foibe", pubblicato nel 1999 dalla Settimo Sigillo, casa editrice fondata da Enzo Cipriano assieme ai rautiani Enzo Erra e Rutilio Sermonti, nel cui catalogo troviamo testi di Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie, Pierluigi Concutelli e di altri esponenti della destra radicale. Tanto per la cronaca, Cipriano si è candidato per CasaPound alle ultime elezioni politiche, assieme all'ex avvocato di Gelli, Augusto Sinagra, uno dei promotori del cosiddetto "processo per le foibe").
 
 
I DOCUMENTI: 
 
  
 
 
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Sulla fake news della "foiba di Rosazzo" abbiamo pubblicato in passato ricca documentazione. Si veda anche:
 
Proposta una commissione parlamentare d'inchiesta sulle fosse comuni tra Udine e Gorizia e non solo (di Marco Barone – 1 agosto 2016)
 
 
 
Foibe inventate e scuse mancanti

Luciano Marcolini Provenza
PUBBLICATO VENERDÌ 17 FEBBRAIO 2017 – La sconcertante vicenda di Corno di Rosazzo (Gorizia): la notizia di una strage rivelatasi inesistente e la pervicace diffamazione del movimento di Resistenza friulano
 
È passato un anno dal 10 febbraio 2016, giornata nella quale ogni anno viene commemorato il Giorno del ricordo, istituito con una legge dal 2004. Una delle tante manifestazioni si svolge anche a Gorizia, in Friuli Venezia-Giulia. In quella occasione presenziano autorità civili e militari: il Sindaco della città di Gorizia, Ettore Romoli, forzista con trascorsi missini; il Presidente della Provincia di Gorizia, Enrico Ghergetta, PD con militanza nel PCI; gli assessori regionali PD Sara Vito e Gianni Torrenti. Nel corso della manifestazione Luca Urizio, Presidente provinciale della Lega Nazionale, rivela un fatto sconvolgente: “l’archivio del Ministero degli Esteri ha celato per oltre 70 anni un documento sconosciuto (1) che confermerebbe l’esistenza di una foiba a Corno di Rosazzo. Nella cavità carsica naturale, situata nel cuore dei Colli orientali a cavallo tra le provincie di Udine e Gorizia, sarebbero state gettate nel 1945 tra le 200 e le 800 persone” (il Messaggero Veneto 11.02.2016). Urizio, riporta ancora quel giornale, ha poi “espressamente citato il partigiano Sasso (il gradiscano Mario Fantini) e il partigiano Vanni (al secolo Giovanni Padoan di Cormons), coinvolti anche nell’eccidio di Porzus”.
Si tratta di una notizia che, oltre ad avere pesante rilevanza penale per gli ipotetici attori della strage, li ha anche nei confronti di chi ha fatto i loro nomi, che incorrono nell’ipotesi di reato di diffamazione. La stampa locale, e non solo essa, approfitta della sensazionale notizia per scatenare nei mesi successivi una campagna stampa di cui si riportano solo alcuni indicativi titoli:
«La fossa comune di Rosazzo. Ci sono i testimoni» (il Messaggero Veneto 19.02.2016);
«Il figlio del testimone: “Così venivano uccisi nella vecchia cjasate”» (2). (il Messaggero Veneto 26.02.2016);
«Il caso della fossa comune: a Rosazzo sono due i luoghi degli eccidi» (il Messaggero Veneto 02.03.2016);
«Il caso della fossa comune: ecco la casa di Truda, il secondo mattatoio» (il Messaggero Veneto 03.03.2016);
«Friuli, spunta una nuova ‘foiba’: lì dentro almeno duecento morti» (il Primato Nazionale 04.03.2016);
«Questa zona? È un cimitero: Nuove rivelazioni su fosse comuni» (il Gazzettino14.03.2016);
«Le carte di Premariacco: ecco i nomi dei morti» (il Messaggero Veneto 03.05.2016).
Sono avviate le indagini e la ricerca del sito in cui trovare i resti umani dell’eccidio. Il territorio individuato per l’ubicazione della “foiba”, in un primo tempo circoscritto a una singola frazione, si estende nei due comuni di Manzano e Corno di Rosazzo e nei mesi successivi alla rivelazione è battuto in lungo e in largo, ispezionando ogni possibile anfratto, anche con l’ausilio di gruppi di speleologi. Nel frattempo spuntano “testimoni” che hanno sentito dire…
Le indagini però non si limitano a questo. Si tratta di fatti di rilevanza penale, quindi la Magistratura estende il suo lavoro anche a Roma, negli archivi dei Ministeri agli Esteri e alla Difesa, dello Stato Maggiore dell’Esercito e dei Servizi Segreti, ma nulla emerge da tali ricerche, tant’è che, dopo dieci mesi di infruttuose ricerche, il fascicolo sulla “Foiba di Rosazzo” viene archiviato.
C’è da sottolineare il fatto che il Comune di Gorizia ha finanziato l’operazione di ricerca del signor Urizio con fondi pubblici, spesi, in questi tempi di “vacche magre”, per una “bufala”. Il sensazionale documento prodotto da Urizio non è affatto un documento sconosciuto e di ciò dobbiamo gratitudine al gruppo di “Resistenza Storica” (3), che ha dimostrato come questo fosse già stato vagliato dalla Magistratura in occasione del cosiddetto “processo sulle foibe” promosso avanti la Corte d’Assise di Roma nei confronti di Oskar Piskulic e altri (il processo, dopo essersi dimostrato insostenibile, finì annullato per incompetenza territoriale). Il documento – una semplice informativa, come si può ben vedere dall’allegato – non è allora ritenuto attendibile ed è quindi privo di valore. Eliminata quindi la possibile rilevanza penale nei confronti di “Sasso” e di “Vanni”, resterebbe un’ipotesi di rilevanza penale nei confronti del Sig. Luca Urizio, Presidente della Lega Nazionale.
Questo esempio, che per la pubblica opinione nel resto d’Italia potrebbe apparire come un caso sporadico, è all’ordine del giorno qui, al confine orientale, dove in prima linea si sono vissute le terribili vicende non solo della “Grande guerra” e della Seconda guerra mondiale, ma anche il lungo periodo della “Guerra fredda”, che per decenni ha condizionato e, come appare evidente in questa vicenda, condiziona tuttora lo sviluppo socio-politico, con pesanti ripercussioni, in particolare, sui diritti della minoranza slovena presente in regione. Un territorio nel quale genti di lingue diverse hanno convissuto per secoli senza tensioni nazionalistiche è stato oggetto della violenza ideologica, politica, sociale dettata dall’assunto dell’«italianità», cardine del fascismo di frontiera. Un territorio sottoposto a servitù militari per quasi la metà della superficie regionale, che hanno condizionato e penalizzato con vincoli, divieti e restrizioni lo sviluppo economico. Un territorio che ha subito una vera sclerotizzazione sul piano politico per la presenza delle strutture della organizzazione segreta Gladio, fino alla nuova stagione delle frontiere aperte tra paesi comunitari.
Nel clima sopra descritto i partigiani, quelli appartenenti alle Brigate Garibaldi, hanno subito pesantissime discriminazioni, ingiurie, processi. Alcuni hanno dovuto fuggire all’estero, altri sono dovuti sparire dalla vita sociale e pubblica nella speranza, vana, che rendendosi invisibili non sarebbero stati perseguitati. Con un’opera di diffamazione perseguita con sistematica pervicacia, si tenta, ancora oggi, di trascinare nel fango l’intero movimento resistenziale friulano che, a fronte di qualche ombra, ha invece espresso momenti memorabili di lotte unitarie tra le diverse anime della resistenza e con il movimento di liberazione jugoslavo. Un movimento che, quando la lotta si era fatta più dura, si mostrava capace di avviare esperienze di amministrazione civile e democratica, come quelle delle Zone Libere della Carnia e del Friuli Orientale in un territorio, annesso al Terzo Reich, nel quale si consumavano le brutali repressioni naziste e dei repubblichini: in prima fila la Decima MAS del golpista Valerio Borghese, i cui reduci vengono ricevuti ogni anno, in forma solenne, nella Residenza municipale di Gorizia dal Sindaco Ettore Romoli.
Ora, di fronte alla verità oggettiva della non esistenza della fossa e degli eccidi (notizia riportata sulla stampa in secondo piano), ci si aspetta, da coloro che presenziarono a quella manifestazione e che, pur appartenendo al PD, non sentirono un moto di repulsione di fronte alle affermazioni denigratorie nei confronti di due noti ed eroici capi partigiani, una dichiarazione di scuse e di disappunto. Nei confronti degli autori delle affermazioni diffamatorie ci si aspetta invece un’azione penale d’ufficio, per essere state formulate in presenza del viceprefetto di Gorizia Antonino Gulletta.
Luciano Marcolini Provenza, dell’ANPI Cividale del Friuli
 
Note
1)    Il documento citato proviene dall’Ufficio Informazioni Nucleo Stralcio, I sezione – gruppo speciale (ex I Gruppo della Calderini) dei Servizi segreti;
2)    Cjasate in lingua friulana sta per casa brutta, fatiscente;
3)    Resistenza storica: rimandiamo per maggiori informazioni e approfondimenti al sito www.diecifebbraio.info
 
 
 
(srpskohrvatski / english / francais / italiano)
 
Kosovo: Stato fallito ma con esercito a disposizione
 
0.1) PUBBLICAZIONI / PUBLIKACIJE:
Jacques Hogard: L’EUROPA È MORTA A PRIŠTINA
Сандра Давидовић: EULEX KOSOVO
Живадин Јовановић: 1244 - КЉУЧ МИРА У ЕВРОПИ
0.2) ALTRI COLLEGAMENTI / LINKOVI

1) NON È UN PAESE PER ROM (di Edoardo Corradi, 14/1/2019)

2) Cresce la tensione tra Serbia e Kosovo albanese (di Enrico Vigna, 10/1/2019)
3) DISCONOSCIMENTO DEL KOSOVO: gli Stati Uniti cercano di arginare la marea (Wayne Madsen, 02.12.2018)
4) 300 MILIONI DI EURO U.S.A. PER TRASFORMARE LA BANDA UCK IN UN ESERCITO REGOLARE / SAD kosovskim Albancima dozvolile stvaranje vojske i kupnju oružja za 300 milijuna eura (28/10/2018) 

 

 
 
=== 0.1: PUBBLICAZIONI ===
 
Jacques Hogard

L’Europa è morta a Priština
Guerra nel Kosovo, primavera-estate 1999
 
Frankfurt: Zambon, 2017
ISBN.: 9788898582365 prezzo: 10.00 EUR

Quando hanno luogo gli eventi del Kosovo che conquistano le prime pagine nell’autunno 1998, Jacques Hogard è ufficiale superiore in servizio presso il Comando Operazioni Speciali (COS). Avviene così che all’inizio del 1999 assuma il comando del Gruppo congiunto delle forze speciali che verrà schierato dalla Francia in Macedonia e quindi in Kosovo, al fianco degli alleati americani, britannici, tedeschi e italiani.
Dopo vari mesi di incertezza, il 23 marzo 1999 la NATO scatena effettivamente la guerra contro la Serbia, dopo il fallimento dei negoziati di Rambouillet. Ciò che Jacques Hogard e i suoi uomini scoprono allora sul terreno non coincide affatto con quanto affermano i media occidentali.
Uomo di carattere, dai solidi principi, il colonello Hogard vivrà intensamente questa ultima operazione in Kosovo. Essa lascerà in lui l’amarezza della partecipazione irresponsabile a un conflitto ingiusto, emblema di tutti i fallimenti e i tradimenti francesi ed europeo.
Hogard offre qui la sua testimonianza per mezzo di un saggio breve, circostanziato e incisivo.
 
 
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Ново Издање Беофорума
 
У 2018. години у којој је проблем Косова и Метохије био вишеструко разматран, не само у земљи, већ и у оквирима Европске уније, било је мало расправа о учинцима Европске мисије владавине права на Косову - EULEX. Не само да ове године мисија EULEX KOSOVO обележава десет година од почетка свог деловања на територији КиМ, већ као таква, она представља део укупног приступа Уније у решавању косовске кризе који обележава године иза нас.
Тим поводом је у протеклој години, у оквиру још једног истраживачког пројекта Београдског форума под покровитељством Канцеларије за Косово и Метохију Владе Републике Србије, спроведено и објављено истраживање мисије EULEX KOSOVO. Пројектом је руководила чланица Управног одбора Форума и докторанткиња Факултета политичких наука у Београду Сандра Давидовић.
Ауторско дело ,,Деценија рада Европске мисије владавине права на Косову и Метохији EULEX KOSOVO: преглед, оцене и закључци'' представља осврт ауторке на деценију деловања највеће мисије ЕБОП/ЗБОП и обухвата преглед правног и политичког контекста оснивања EULEX-a, структуре и мандата мисије, као и општи приказ њених достигнућа.

Београд, јануар 2019.
 
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O knjizi Zivadina Jovanovića pogledaj isto:
 
 
 
RTS: Представљена књига "1244 - кључ мира у Европи" Живадина Јовановића

У свечаној сали Дома војске у Београду промовисана је књига "1244 - кључ мира у Европи" аутора Живадина Јовановића, председника Форума за свет равноправних.
Књигу 1244 кључ мира у Европи, аутор Живадин Јовановић посветио је решавању питања Косова и Метохије. Она саржи збирку његових текстова и интервјуа објављених у страним и домаћим медијима у распону од три протекле деценије.
 
Подељена у пет поглавља под називима: Време тероризма, Време агресије, Време илузија, Време за отрежњење и Прилози, обухвата хронологију и континуитет кључних догађаја пре и после доношења историјског документа - Резолуције 1244.
Професор др Мило Ломпар истакао је документарни карактер књиге, исказан у приказу дугогодишње дипломатске активности Јовановића као политичког чиниоца и сведока догађаја, што уз документе у склопу прилога у књизи потврђује историјску заснованост тврдњи самог аутора.
„Показује се стална експанизија сепаратизма заснованог на теророзму на једној страни, а на другој континуитет политичке и сваке друге подршке и помоћи водећих земаља Запада том расту сепаратизма и тероризма на Космету. Показује се такође да се методе мењају, а да циљеви остају исти, јер Запад третира Косово и Метохију искључиво у оквиру своје геополитике", каже за РТС Живорад Јовановић.
Јовановић наглашава да се само у глобалном геополитичком контексту ширења НАТО према границама Русије, које је почело још од педесетогодишњег јубилеја алијансе 1999. године у Вашингтону, могу разумети дешавања у вези са Косовом и Метохијом.
„Упркос свим притисцима којима је Србија и данас изложена, не треба губити визију и оптимизам. Потребно је интензивирати све путеве борбе за очување Космета у статусу који је предвиђен Резолуцијом 1244. У том смислу треба искористити и овај тренутак који представља покушај окончања етничког чишћења Срба са Косова и Метохије и упозорити међународну заједницу на катастрофалне последице које се неће ограничити ни на Србију ни на Балкан, које могу имати катастрофалне последице и за саму Европу", каже Јовановић.
Његова светост патријарх српски Иринеј, примио је аутора књиге Живадина Јовановића и издавача Драгана Лакићевића, испред Српске књижевне задруге, кјоји су поклонили патријарху примерак књиге.

IZVOR: RTS
 
 
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Altri link e brevi segnalate, in ordine cronologico inverso:
 
KOSOVO, SOGNANDO UNA VITA ALL'ESTERO (di Majlinda Aliu, 19/12/2018)
Nonostante il Kosovo sia ancora sulla "lista nera" di Schengen, molti suoi cittadini sognano di un futuro all'estero. Tra le categorie professionali più qualificate, come i medici, si può già parlare di fuga di cervelli...
 
KOSOVO-SERBIA, SCONTRO SUI DAZI (di Majlinda Aliu, 29/11/2018)
Il governo del Kosovo ha deciso di imporre dazi doganali al 100% contro Serbia e Bosnia Erzegovina. Una decisione fortemente criticata da Bruxelles, e che rischia di danneggiare ulteriormente il fragile dialogo con Belgrado...
 
KOSOVO : ARRESTATIONS À GRAND SPECTACLE ET MANIFESTATION À MITROVICA (CdB, 23 novembre 2018)
Vendredi matin, les unités spéciales de la police du Kosovo ont arrêté quatre suspects dans le meurtre d’Oliver Ivanović, le 16 janvier dernier à Mitrovica. Elles ont aussi perquisitionné le domicile de Milan Radojčić, le véritable « boss » du Nord du Kosovo. Belgrade a dénoncé l’opération, tandis que les Serbes manifestaient dans tout le Kosovo contre la hausse des taxes...
 
KOSOVO: LE POUVOIR DE PRISHTINA AUX ABOIS (23 NOV. 2018, PAR STANTOR / BLOG : MIROIR DE NOTRE TEMPS)
Sur fond de guerre commerciale décidée par Prishtina contre les produits Serbes dont les taxes d'importation ont été augmentées de 100%, une vague d'arrestations menée par la force de sécurité du Kosovo vise des serbes et le représentant de l'organe représentatif des serbes du Kosovo Milos Dimitrijevic. La partie serbe de Kosovska Mitrovica est en alerte et dénonce la duplicité de la KFOR...
 
DRŽAVNI VRH ZASEDAO ZBOG DEŠAVANJA NA KOSOVU, VUČIĆ PORUČIO POSLE SASTANKA: MORAMO SE PRIPREMITI NA DUGOTRAJNU POMOĆ NAŠEM NARODU (FOTO) (VIDEO) (23. novembar 2018)
 
LISTE NON EXHAUSTIVE DES PAYS AYANT VOTÉ CONTRE L'ADHÉSION DU KOSOVO À INTERPOL (21 NOV. 2018, PAR STANTOR / BLOG : MIROIR DE NOTRE TEMPS)
Liste partielle et non exhaustive des pays ayant pris part au vote de l'assemblée générale d'Interpol sur la demande d'adhésion de la République autoproclamée du Kosovo à cette agence...
 
KOSOVO: RESPINTA LA DOMANDA DI ADESIONE ALL’INTERPOL (Riccardo Celeghini, 20.11.2018)
... Nella votazione finale, difatti, 68 paesi hanno votato a favore, 51 hanno votato contro, e 16 si sono astenuti... Il Kosovo aveva fatto richiesta di adesione all’INTERPOL nell’aprile del 2015, ma da allora non è mai riuscito ad assicurarsi il supporto di due terzi degli stati membri. La volta precedente, in occasione dell’assemblea tenutasi in Cina nel settembre 2017, il primo ministro Ramush Haradinajaveva addirittura deciso di ritirare la candidatura... Il Kosovo ad oggi risulta membro di dieci organizzazioni intergovernative internazionali come stato indipendente e di altre sei sotto il cappello di UNMIK, la missione ONU che ha governato l’ex-provincia della Serbia dalla fine della guerra nel 1999 alla dichiarazione d’indipendenza del 2008. In due casi, inoltre, il Kosovo ha assunto lo status di osservatore. Tra le membership più importanti vi sono certamente quelle presso il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale e la Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS). Diverse sono però le organizzazioni internazionali in cui l’ingresso del Kosovo pare ancora lontano: oltre all’INTERPOL, ci sono anche il Consiglio d’Europa, l’OSCE, l’UNESCO e, su tutte, l’ONU...
 
L'ASSEMBLÉE GÉNÉRALE D'INTERPOL REJÈTE POUR LA 3ÈME FOIS L'ADHÉSION DU KOSOVO (20 NOV. 2018, PAR STANTOR / BLOG : INO-RADIO)
Après d'âpres manoeuvres des USA, de la Grande Bretagne et de la Turquie pour infléchir la position de nombreuses délégations de pays membres d'Interpol lors de l'assemblée Générale de l'organisation qui se tient à Dubaï aujourd'hui, et malgré l'échec de cinq pays à obtenir le changement de l'ordre du jour, l'adhésion du Kosovo a été finalement rejetée par l'assemblée générale d'Interpol...
 
KOSOVO: DAZI VERSO LE MERCI SERBE E BOSNIACHE “PER PUNIRE LA LORO OSTILITÀ” (A. Massaro, 15.11.2018)
Dopo una riunione del suo esecutivo, il primo ministro Ramush Haradinaj ha annunciato lo scorso 6 novembre, la decisione di aumentare le tariffe doganali del 10% sui prodotti serbi e bosniaci. Haradinaj ha precisato che per la prima volta una simile decisione viene presa nella storia recente del paese. Secondo Pristina questo provvedimento giungerebbe in risposta al comportamente ostile adottato negli ultimi mesi dai governi di Serbia e della Bosnia-Erzegovina nei confronti del Kosovo...
 
VIA DAI BALCANI (Kosovo 2.0, 13.11.2018)
Centinaia di migliaia di persone lasciano i Balcani, dove non vedono un futuro. Le cause oltre che economiche sono anche sociali e politiche...
ORIG.: Hundreds of Thousands Leaving Balkan Region in Which They See No Future
 
UN ESERCITO PER IL KOSOVO (26/10/2018 -  Dragan Janjić)
Pristina ha ufficialmente avviato, con il sostegno degli Stati uniti, la trasformazione delle sue forze di sicurezza in forze armate. Un processo che durerà a lungo...
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Un-esercito-per-il-Kosovo-190853/
 
KOSOVO: LE PARTI AU POUVOIR VEUT INTERDIRE LE 1ER MAI FÉRIÉ, QU'EN PENSE LA CES ? (28 OCT. 2018, PAR STANTOR /  BLOG : INO-RADIO)
Le Parti Démocrate du Kosovo au pouvoir (PDK) a déposé une proposition de loi, avec le soutien d'un syndicat membre de la CSI, visant la suppression du 1er mai comme jour férié en raison de sa connotation "communiste" et "yougoslave"...
 
KOSOVO: MIGLIAIA DI FINTI VETERANI DI GUERRA, INDAGATI I VERTICI DELLA POLITICA (Marco Siragusa, 27 Settembre 2018)
... A rendere la situazione interna ancora più turbolenta è stato lo scandalo legato alla falsificazione delle liste dei veterani di guerra appartenenti all’UCK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, protagonista del conflitto contro le forze di Slobodan Milosevic nel 1998-99...
 
KOSOVO : À QUOI SERVENT LES LOBBYISTES AUX ÉTATS-UNIS ? (Radio Slobodna Evropa | Traduit par Persa Aligrudić | mardi 12 juin 2018)
Ils connaissent les arcanes du pouvoir et les gens qui comptent à Washington. Le Kosovo, tout comme ses voisins, dépense des fortunes en conseils, communicants et autres lobbyistes auprès de l’administration américaine. Dans les années 1990, il s’agissait de faire connaître au monde la situation politique de la région, mais aujourd’hui, les lobbyistes servent les intérêts privés des politiciens qui veulent afficher leurs bonnes relations avec la Maison Blanche...
 
KOSOVO : EULEX RÉDUIT LA VOILURE ET PRÉPARE SON DÉPART (Courrier des Balkans | lundi 11 juin 2018)
La mission européenne Eulex n’aura plus de responsabilité exécutive à compter du 14 juin. Son mandat, prolongé de deux ans, se limitera à un rôle de « conseil » pour la justice du Kosovo. Eulex s’en va sur un maigre bilan, marqué par des scandales de corruption à répétition...
 
L’IDENTITÀ CULTURALE SERBA IN KOSOVO MINACCIATA NEI SUOI MONUMENTI (rem [Ennio Remondino], 4 giugno 2018)
... Durante i bombardamenti in Kosovo del 1999 non ci sono state distruzioni di chiese e monasteri. È nei cinque mesi successivi all’inizio cioè della ‘pace’ in Kosovo, tra il giugno e l’ottobre del ’99, che più di ottanta tra chiese e monasteri sono stati danneggiati e abbattuti. Oggi si calcolano 110 demolizioni. Molte di queste costruzioni risalivano ai secoli XIV-XVI...
 
I KOSOVARI ALBANESI CHE VOGLIONO IL PASSAPORTO SERBO (Remocontro [Ennio Remondino], 25 maggio 2018)
Un consistente numero di cittadino kosovari albanesi presentano i documenti per ottenere il passaporto della Repubblica serba. Nessun ritorno al passato, ma le facilitazioni di quel passaporto per espatriare in Europa in cerca di lavoro...
https://www.remocontro.it/2018/05/25/i-kosovari-albanesi-che-vogliono-il-passaporto-serbo/
 
 
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Su questo stesso tema si veda il testo di Adem Bejzak e Kristin Jenkins
 
UN NOMADISMO FORZATO
...di guerra in guerra... Racconti rom dal Kosovo all'Italia

Edizioni Archeoares, 2011
7 euro, 180 p., ISBN 978-88-96889-22-0
per ordinare il libro
 
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KOSOVO: Non è un paese per rom
di Edoardo Corradi, 14/1/2019
 

I rom sono una dellminoranze più discriminate al mondo. Ovunque si vada, razzismo e generalizzazioni colpiscono questa etnia, tanto peculiare e ricca di cultura quanto discriminata. Anche in Kosovo la discriminazione nei confronti dell’etnia rom è molto forte e i progetti volti alla loro inclusione sociale faticano a decollare.

Rom, ashkali ed egizi

Essere rom, in Kosovo, è una questione di identità. Il paese, diviso su linee etniche, ripercuote tale faglia anche nella comunità rom. I rom infatti si distinguono oggi tra rom, ashkali ed egiziani (RAE), differenziandosi prettamente da un punto di vista etnico e religioso. I rom propriamente detti, infatti, tendono ad essere cristiani ortodossi e parlano per lo più il serbo o il romanì, la loro lingua. Ashkali ed egizi, invece, sono prevalentemente musulmani e parlano in maggioranza l’albanese.

Rom, ashkali ed egizi vivono principalmente nel sud del paese e nella sua parte occidentale, in particolare nelle zone di Gjakovë/Đakovica, Pejë/Peć, Ferizaj/Uroševac e Prizren. Non è comunque raro incontrare rom, ashkali ed egizi anche in altre zone del paese, come nella municipalità di Fushë Kosovë/Kosovo Polje, dove rappresentano il 12,25% della popolazione, e nella capitale Pristina.

Le tutele sulla carta

Alla luce di ciò, la comunità rom in Kosovo gode di diverse tutele legislative, in campo linguistico, culturale e politico, tanto che una quota di seggi (4) all’interno del parlamento nazionale è assegnata a rappresentanti di questa comunità. Rom, ashkali ed egizi hanno dei propri partiti politici a livello nazionale e locale, e una delle sei stelle sulla bandiera nazionaledel Kosovo rappresenta proprio la comunità rom. Nel 2008, inoltre, il governo kosovaro ha approvato una Strategia per l’Integrazione delle comunità rom, ashkali ed egizi. Secondo questo piano, il governo si sarebbe impegnato a migliorare le condizioni dei rom in Kosovo entro il 2015

Tuttavia, la grave mancanza di personale e soprattutto di fondi hanno ridotto notevolmente gli interventi che sarebbero stati necessari per garantire una maggiore integrazione di rom, ashkali ed egizi nella società kosovara, rimanendo dunque ancora ai suoi margini. Di fatto, il divario tra i diritti garantiti sulla carta e quelli che, invece, sono effettivamente rispettati è enorme.

La realtà

Le condizioni di vita di rom, ashkali ed egizi in Kosovo, difatti, appaiono notevolmente diverse da quelle degli altri cittadini. Se già queste non sono ottimali, come ad esempio per quanto riguarda il sistema sanitario, la disoccupazione e l’impossibilità di viaggiare liberamente, la comunità rom si trova in condizioni addirittura peggiori. L’accesso all’istruzione, alla sanità e al mondo del lavoro appare notevolmente più complesso per rom, askhali ed egizi, come sottolineato anche dalle organizzazioni internazionali che operano nel paese. A questo si aggiunge il fattore abitativo, giacché i membri di questa comunità sono spesso costretti a vivere in abitazioni fatiscenti e dove le condizioni igieniche non sono minimamente rispettate.

Le enormi difficoltà che rom, ashkali ed egizi incontrano nel trovare un posto di lavoro certamente non aiutano nel processo di integrazione di queste comunità. Il paese si trova già ad affrontare dei drammatici tassi di disoccupazione che, secondo la Banca Mondiale, si attestano al 25,7% per quanto riguarda quella generale e al 52,4% per quella giovanile. In questo contesto, il tasso di disoccupazione di rom, ashkali ed egizi è notevolmente più alto. Infatti, tra i rom il tasso di disoccupazione si attesta al 43%, quello degli ashkali al 37,7%mentre quello degli egizi al 30%. Questo è anche dovuto ai tassi di abbandono scolastico, che nel caso dei componenti della comunità rom raggiungono livelli molto elevati. Ancora più preoccupante risulta la condizione delle donne, basti pensare che solo l’1,2% delle donne rom completa la scuola secondaria e solo lo 0,4% ottiene una laurea universitaria. La discriminazione certamente non aiuta a favorire l’ingresso di rom, ashkali ed egizi nei luoghi di lavoro, persino in quelli pubblici. La televisione di stato kosovara, inoltre, non trasmette nulla che possa interessare direttamente la comunità, e non vi sono membri nel consiglio direttivo che siano rom, ashkali o egizi.

I motivi di tali discriminazioni risalgono anche al periodo della guerra. Secondo quanto riportato dalla Rosa Luxemburg Foundationi rom – all’epoca non ancora ufficialmente divisi tra di loro in tre gruppi distinti – venivano spesso usati dalle truppe militari e paramilitare serbe in azioni contro i civili albanesi [*]. Questo li ha spesso resi oggetto di discriminazione da parte degli albanesi e li ha sottoposti a vere e proprie vendette al termine della guerra. Il caso del quartiere Mahalla di Mitrovica è esemplificativo: questa zona abitata da rom, stretta tra il fiume Ibar e i serbi a nord e gli albanesi a sud, è stata quasi interamente raso al suolo negli anni seguenti la guerra, obbligando la comunità rom di Mitrovica a vivere in campi di fortuna, con condizioni igenico-sanitarie lontane dagli standard minimi per vivere.

Nonostante ciò, negli ultimi anni sono partiti alcuni progetti di integrazione locali, come nel caso del progetto pilota, voluto dal sindaco di Pristina Shpend Ahmeti, che ha coinvolto il quartiere di Dardania della capitale per sviluppare un’efficiente raccolta differenziata affidata a lavoratori appartenenti alla comunità rom. Proprio da questi pochi esempi positivi bisogna ripartire. Superare i pregiudizi, la memoria della guerra e favorire la collaborazione interetnica è l’unico modo per dare un futuro solido al Kosovo. Rom, ashkali ed egizi sono costretti ad affrontare la prova più complessa: la politica deve trovare la volontà e i mezzi per far sì che la loro inclusione sociale possa realizzarsi nel più breve tempo possibile.

 
[*] Modo diffamatorio per intendere che i Rom erano particolarmente attaccati alla statualità jugoslava ed ai diritti che da essa derivavano, oggi annientati (n.d.Jugocoord).
 
 
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Kosovo, cresce la tensione tra Serbia e Kosovo albanese
 
di Enrico Vigna, 10 gennaio 2019

Negli ultimi mesi sono tornate a livelli preoccupanti e tese  le relazioni tra il governo serbo e le forze secessioniste del KosovoNATO  e di conseguenza le trattative relative alla situazione della provincia serba che si è auto separata, in particolare a causa della decisione di Pristina di aumentare provocatoriamente i dazi relativi alle importazioni di merci dalla Serbia, rendendoli di fatto impossibili da esortare. Questo sta causando una vera e propria situazione di indigenza dentro le enclavi del Kosmet, soprattutto per quanto riguarda alimenti e farmaci. Oltre a questo anche l’istituzione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo (a cui intendono aderire anche altre minoranze locali, dai Rom ai Goranci, dai turchi agli egizi, ecc…), non ha ancora trovato alcuna attuazione concreta, anzi è completamente ignorata da Pristina.
Questa imposizione di nuove  tariffe di importazione vessatorie e fuori anche dalle norme UE, della CEFTA, tanto che, anche il capo delegazione UE in Serbia Sam Fabrici, ha pubblicamente chiesto a Pristina di abolirle immediatamente. In un intervista al giornale serbo Blic, ha detto che per far avanzare costruttivamente il dialogo tra le parti in Kosovo, è necessario:“…tenere conto degli interessi e delle preoccupazioni di tutte le comunità del Kosovo, degli abitanti e delle parti in questione locali, enti e organizzazioni, tra cui la Comunità dei Comuni Serbi (ZSO)…”.
I rappresentanti dei serbo kosovari stanno premendo sul governo di Belgrado perché adotti misure “forti” e dure contro queste misure che stanno affamando le enclavi. Alcuni chiedono nuovamente il ritorno dell’esercito serbo a garanzia dei loro diritti minimi di sopravvivenza.  
Il rappresentante russo alle Nazioni Unite V. Nebenzya ha espresso la preoccupazione della Russia per la situazione nella provincia, invitando l’ONU e la comunità internazionale a trovare soluzioni urgenti e immediate per evitare l’insorgere di nuovi conflitti e violenze e fermare crisi che potrebbero coinvolgere tutti.
Così si è espresso Nebenzya  in un intervista con Sputnik: “…- Dobbiamo evidenziare che il dialogo tra Belgrado e Pristina con la mediazione dell'UE sta attraversando ancora una profonda crisi. La prova di ciò è la mancanza di risultati tangibili dopo i contatti tra le due parti...
Non vi è,  di fatto alcun progresso verso il raggiungimento dell'obiettivo ambizioso di redigere un accordo globale sulla normalizzazione delle relazioni. Il principale svantaggio è che l'accordo chiave raggiunto in precedenza sull'istituzione della Comunità dei Comuni serbi in Kosovo non è stato raggiunto, ha sottolineato.
Sono passati quasi sei anni da quando è stato firmato questo accordo, ma il processo è stato sabotato da  Pristina, mentre la parte serba è stata coerente nel rispettare i suoi obblighi…
…Va invece sottolineata la posizione costruttiva di Belgrado e il desiderio della parte serba di cercare soluzioni reciprocamente accettabili…Al contrario Pristina ha risposto con pretese inaccettabili dei leader albanesi del Kosovo su vasti territori della Serbia meridionale…”.  Ha dichiarato Nebenzja.
 Anche l’Ambasciatore russo in Serbia A. Chepurin ha sottolineato che Mosca opera per risolvere il problema del Kosovo con mezzi politici nel quadro del dialogo tra Belgrado e Pristina, senza imporre scadenze artificiali, in profonda cooperazione e sintonia con la dirigenza serba.
Chepurin in un intervista al giornale alla RTS ha ribadito che la posizione della Russia si basa su un concetto di base  ineludibile, cioè che “… La soluzione del problema del Kosovo è possibile solo a condizione che la Serbia e i serbi lo accettino. È importante che questo sia un compromesso, non una soluzione imposta dall'esterno. Il nostro atteggiamento era lo stesso prima, rimane così ora e sarà lo stesso in futuro …”.
Circa l’incontro casuale tra Putin e Thaci a Parigi nella cerimonia legata all’anniversario della Prima guerra mondiale, ha dichiarato che nelle cerimonie internazionali ci sono decine e anche centinaia di fugaci contatti, ma non sono quelle, le occasioni dove si trattano  questioni gravi o essenziali.
“…Putin è un uomo educato. Ha salutato centinaia di persone che ha incontrato scambiando alcune parole con loro. In secondo luogo, Putin era lì come ospite… quella cerimonia è stata organizzata dai francesi, e hanno chiamato quelli che pensavano di dover chiamare, compresi i rappresentanti di uno stato non riconosciuto come il Kosovo…in quelle situazioni c'è un problema, perché di solito si pensa che gli ospiti agiscano culturalmente, silenziosamente e modestamente, ma vediamo che alcuni ospiti non lo fanno....Abbiamo visto la stessa situazione a New York, dove nei corridoi delle Nazioni Unite hanno fermato tutte le persone che passavano, cercando di parlare con essi...Il problema è che i rappresentanti di stati non riconosciuti “lo fanno per stabiliti motivi" in tali eventi che coinvolgono ospiti di alto livello, e il loro comportamento a volte crea seri problemi…". Ha detto Chepurin a RTS
Ha poi aggiunto che è ridicolo pensare che questo fortuito incontro possa in alcun modo influenzare le relazioni tra Serbia e Russia o l'atteggiamento della Russia verso lo status del Kosovo, che resta di veto alle NU riguardo il riconoscimento dell’indipendenza. 
Chepurin ha anche parlato della visita del presidente russo in Serbia a gennaio ( il 17),, dicendo che la data esatta non è stata ancora ufficialmente annunciata per vari motivi, ma che sarà a metà gennaio, sottolineando che questo sarà il terzo incontro dei due presidenti negli ultimi 10 mesi e che la cooperazione politica è ad un così alto livello che non ha precedenti.
Riguardo al Kosovo, Chepurin ha sottolineato che la posizione della Russia è molto chiara e netta,   è stata confermata più volte, ma che qualcuno cerca continuamente di rimestarla.
“…La posizione della Russia non è cambiata, e si riduce a quanto segue: sosteniamo che il problema sia risolto politicamente nel quadro del dialogo tra Belgrado e Pristina. Questa è la prima cosa. In secondo luogo, ogni dialogo deve avere le sue basi giuridiche e in questo caso non esiste altra base legale oltre alla risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, come unico quadro giuridico.
La terza cosa, abbiamo cognizione della posizione della Serbia. Ad esempio, nel quadro del processo di Bruxelles, ed era stabilito sei anni fa, la Serbia ha adempiuto a tutti gli impegni assunti. Il problema è che Pristina non ha adempiuto alcun obbligo fondamentale come la formazione di uno ZSO (Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo). Abbiamo anche visto tentativi di creare un esercito del Kosovo, con soldati nel nord del Kosovo…non è possibile condurre trattative, se una delle parti non adempie ai propri obblighi e responsabilità, in questo caso è Pristina, ma anche l’atteggiamento dei mediatori, che noi riterremo coresponsabili per l'adempimento di quegli impegni presi… ".
 
 
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Su questo stesso argomento si vedano anche:
 
KOSOVO: MADAGASCAR EST LA 12E NATION À RETIRER SA RECONNAISSANCE (7 DÉC. 2018, PAR STANTOR / BLOG : MIROIR DE NOTRE TEMPS)
https://blogs.mediapart.fr/stantor/blog/071218/kosovo-madagascar-est-la-12e-nation-retirer-sa-reconnaissance
Madagascar, selon les informations extraites des médias serbes, a retiré ce jour sa reconnaissance à la république autoproclamée du Kosovo. C'est la 12ème nation à retirer sa reconnaissance octroyée initialement en 2008.
 
MADAGASKAR POVUKAO PRIZNANJE KOSOVA (TANJUG, 7.12.2018.)
Republika Madagaskar obavestila je Ministarstvo spoljnih poslova Srbije da je povukla odluku o priznanju Kosova... 
https://www.b92.net/info/vesti/index.php?yyyy=2018&mm=12&dd=07&nav_category=11&nav_id=1479021
 
KOSOVO: LE FIASCO DE LA RECONNAISSANCE, LES ILES SALOMON RETIRENT LEUR RECONNAISSANCE (2 DÉC. 2018, PAR STANTOR / BLOG : MIROIR DE NOTRE TEMPS)
Après les 10 pays membres de l'ONU ayant déjà annulé leur reconnaissance du Kosovo comme pays indépendant et souverain, originellement concédée en 2008, les Iles Salomon sont la 11ème nation à retirer leur reconnaissance. Un camouflet pour l'OTAN, et particulièrement pour la France, la Grande-Bretagne et les USA qui lorgnent avec envie sur les ressources minières de cette province de Serbie...
 
SOLOMONSKA OSTRVA POVUKLA PRIZNANJE KOSOVA (02. 12. 2018. )
Solomonska Ostrva povukla su priznanje nezavisnosti Kosova.Ta država u Okeaniji pisanim putem obavestila je kosovsko ministarstvo spoljnih poslova da povlači priznanje Kosova...
 
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ORIG.: De-Recognition of Kosovo: US Tries to Stem the Tide
 
 
 
Disconoscimento del Kosovo: gli Stati Uniti cercano di arginare la marea
Wayne Madsen SCF 02.12.2018
 

La comunità internazionale è abituata alla cosiddetta “diplomazia del libretto degli assegni” utilizzata da Cina e Taiwan per raccogliere i reciproci alleati diplomatici scambiandosi il riconoscimento diplomatico con generosi pacchetti di assistenza finanziaria. Tuttavia, questa stessa battaglia per il riconoscimento e il de-riconoscimento diplomatico si gioca tra la Serbia e la sua provincia separatista del Kosovo. Gli Stati Uniti e gran parte della NATO non solo hanno concesso il riconoscimento diplomatico del Kosovo contro l’obiezione della Serbia, ma hanno anche fatto pressioni su altri Paesi per riconoscerne l’indipendenza. Tale processo ha incontrato un grosso ostacolo nelle accuse delle varie parti che emettono false lettere e proclami diplomatici da parte di nazioni che dichiarano di de-riconoscere il Kosovo. Il mondo della diplomazia internazionale e quello delle “false notizie” si sono ora riuniti.
L’amministrazione di Donald Trump, che ogni giorno ha sempre più tonalità neoconservatrice, con John Bolton che dirige il Consiglio di sicurezza nazionale e Richard Grenell che erode il gradimento diplomatico a Berlino come ambasciatore degli Stati Uniti, monetizza il riconoscimento diplomatico in un modo che avrebbe messo in imbarazzo i diplomatici dei libretti degli assegni di Pechino e Taipei. Mentre il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dacic, fa il suo giro diplomatico, convincendo i ministeri degli esteri di tutto il mondo a disconoscere il Kosovo, il ministro degli Esteri del Kosovo, Behgjet Pacolli, faceva appelli nervosi alle capitali mondiali chiedendogli di chiarire o rovesciare il ritiro del riconoscimento. Se ciò non funziona, le autorità della capitale del Kosovo di Pristina si affideranno ai “fratelli maggiori” della NATO, Stati Uniti e Regno Unito, per intercedere a loro nome. Tale ping-pong diplomatico ha anche influito sul riconoscimento internazionale della Repubblica democratica araba sahariana, Sahara occidentale, con la sua potenza occupante il Marocco, disposto a costringere le nazioni a non riconoscere l’indipendenza del territorio che considera sua provincia. Ipocriticamente, mentre Washington e Londra insistono sul fatto che le nazioni che avevano riconosciuto il Kosovo mantengono tale politica, sono più che disponibili a permettere al Marocco di fare pressione sulle nazioni a tagliare i legami diplomatici col governo del Sahara occidentale, aderente a pieno titolo dell’Unione Africana. Ironia della sorte, mentre il Marocco cerca di convincere le nazioni a discconoscere la Repubblica Sahrawi, negava il riconoscimento del Kosovo perché non vuole dare credito al riconoscimento degli Stati separatisti. La differenza è che la Serbia considera il Kosovo una provincia ribelle che ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza in violazione del diritto internazionale, mentre il Sahara occidentale non è mai stata parte legale del Marocco. Prima del 1975, il Sahara Occidentale era una colonia della Spagna.
Il Kosovo non è membro delle Nazioni Unite e molte agenzie specializzate. L’opposizione di grandi nazioni come Russia e Cina ed influenti nell’Unione Europea come Spagna e Grecia l’hanno escluso dalle Nazioni Unite e organizzazioni come Organizzazione Mondiale della Sanità e Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO). Il Kosovo è riuscito a far parte della FIFA e del Comitato Olimpico Internazionale (IOC), grazie alle pesanti pressioni da parte di Washington, Londra e Berlino. Alla fine del 2017, la Serbia ebbe qualche successo iniziale nel convincere le nazioni a disconoscere il Kosovo. Tra le prime vi furono Suriname e Guinea-Bissau. All’inizio del 2018, il Burundi seguì l’esempio, raggiunto dalla Liberia. Questa notizia provocò duelli sui comunicati diplomatici da Belgrado, Pristina e diverse capitali mondiali. Nel giugno 2018, il ministro degli Esteri liberiano Gbehzohngar Milton Findley annunciava che il suo Paese ritirava il riconoscimento del Kosovo e dichiarava di aver riconosciuto il Kosovo come “provincia serba del Kosovo e Metohija”. Da Pristina, Pacolli rispose affermando di aver parlato con persone del governo liberiano che negavano il riconoscimento del Kosovo. Copiando Trump, Pacolli definiva l’annuncio di Belgrado “false notizie”. Ma il ministro degli Esteri Findley non era un finto ministro e sembrava parlare a nome del governo di Monrovia. Quello che successe dopo fu una scena da operetta di Gilbert e Sullivan. Pacolli volò a Monrovia incontrando il presidente George Weah, l’ex-calciatore che, secondo fonti del Kosovo, promise un’amichevole partita di calcio tra Liberia e Kosovo e promise di aprire un’ambasciata della Liberia a Pristina. Apparentemente, Washington e Londra, che continuano a sostenere il governo problematico del Kosovo, nazione che ospita diverse mafie, fece pressione su Monrovia per invertire la decisione sul riconoscimento del Kosovo. La confusione regna ancora sul fatto che la Liberia riconosca o meno il Kosovo. Una cosa è certa, alcuna ambasciata liberiana è stata aperta a Pristina. A prescindere da ciò che accadde nell’incontro tra Pacolli e Weah, all’inizio del novembre 2018, la Liberia, così come Papua Nuova Guinea, Dominica, São Tomé e Príncipe, Grenada, Lesotho, Comore e Guinea-Bissau ufficialmente ritiravano il riconoscimento del Kosovo. Il Kosovo affermò che anche il micro-Stato del Sovrano Militare Ordine di Malta (SMOM), che ha sede a Roma e aveva riconosciuto diplomaticamente il Kosovo. Tuttavia, lo SMOM lo negava.
Quando il Suriname disconobbe il Kosovo nel 2017, le autorità di Pristina dichiararono, sbagliando, che “nel diritto internazionale non esiste il concetto di revoca del riconoscimento”. Non è certo quale legge internazionale il Kosovo si riferisse, ma ritirare o negare il riconoscimento all’indipendenza di una nazione avviene in ogni momento. Taiwan l’ha subito, così come Repubblica Popolare Cinese, Repubblica Democratica Araba Saharawi, Israele, Palestina, Repubblica Popolare Democratica di Corea, Repubblica Turca di Cipro Nord, Abkhazia e Ossezia del Sud. Il crollo di alcuni Stati-nazione portava anche al ritiro del riconoscimento da parte di altre nazioni. Questo fu il caso di Repubblica del (Sud) Vietnam, Repubblica del Vietnam del Sud (Viet Cong), Repubblica Democratica Tedesca, Biafra, Sultanato di Zanzibar, Repubblica Popolare di Zanzibar e Pemba, Sikkim, Tibet, Canato di Kalat, Regno di Sarawak, Repubblica popolare di Kampuchea, Repubblica democratica dello Yemen, Repubblica popolare di Tannu Tuva, Transkei, Bophuthatswana, Venda, Ciskei, Gazankulu, Rhodesia, Repubblica democratica finlandese, Neutral Moresnet, Città libera di Danzica, Città libera di Trieste, Tangeri International Zone e Manchukuo. Nella categoria del limbo ci sono i riconoscimenti dell’indipendenza del Kosovo da parte della “Repubblica di Cina” di Taiwan e di due Stati associati alla Nuova Zelanda, Isole Cook e Niue. Il Kosovo non ricambiava il riconoscimento di Taiwan perché vuole essere anche riconosciuto dalla Cina. A quanto pare Niue e Isole Cook non sapevano di aver riconosciuto il Kosovo, poiché l’annuncio proveniva solo dalle autorità di Pristina. Oltre a Stati Uniti e Regno Unito, la Turchia opera per estendere il riconoscimento al Kosovo da nazioni che non l’hanno mai riconosciuto o l’hanno disconosciuto.
La battaglia diplomatica tra Serbia e Kosovo continua in tutto il mondo. Nel maggio 2018, il Kosovo fu allarmato da un annuncio a Belgrado del presidente del parlamento del Ghana Aaron Mike Oquaye, che raccomandava a presidente e ministro degli Esteri del Ghana di non riconoscere il Kosovo. Oquaye parlò con affetto dei legami storici tra Ghana ed ex-Jugoslavia animati dalla stretta cooperazione tra il Presidente Josip Tito e il primo Presidente del Ghana Kwame Nkrumah, nel Movimento dei Non Allineati. La Serbia afferma che il Kosovo sostiene falsamente che meno di una decina di nazioni riconosce Pristina. Belgrado afferma che il Kosovo si limita a creare rapporti diplomatici con altre nazioni.

Benvenuti nel mondo post-fattuale dove non solo “notizie false” ma “finte relazioni diplomatiche” sono il nuovo protocollo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 
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Su questo stesso argomento si vedano anche, in ordine cronologico inverso:
 
KOSOVO: IL PARLAMENTO APPROVA LA NASCITA DELL’ESERCITO, CRESCE LA TENSIONE CON BELGRADO (Riccardo Celeghini, 17.12.2018)
Venerdì 14 dicembre il parlamento di Pristina ha approvato tre disegni di legge che aprono la strada alla nascita dell’esercito del Kosovo. I documenti sottoposti al voto, difatti, ampliano sostanzialmente le competenze della Kosovo Security Force (KSF), l’attuale forza di sicurezza presente nel paese, ponendo le basi legali per la nascita di un vero e proprio esercito... Da questo momento, la KSF diventa una forza militare che ha il compito di difendere la sovranità e l’integrità territoriale del Kosovo, autorizzata all’uso della forza. La KSF sarà composta da 5.000 unità e 3.000 riservisti, e potrà operare all’estero nell’ambito di missioni internazionali... La comunità internazionale, dal canto suo, non si è espressa in modo unanime. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si sono schierati al fianco di Pristina, riconoscendo al Kosovo il diritto di dotarsi di un proprio esercito ed assicurando un pieno supporto, mentre alti paesi, come la Francia, si sono limitati a prendere atto della decisione...
 
OD OVOGA SRBI STRAHUJU! TAČI U UNIFORMI U KASARNI KOJA NOSI IME NAJPOZNATIJEG TERORISTE: OSTALO JE PAR SATI DO MNOGO OČEKIVANOG TRENUTKA (FOTO) (13. decembar 2018)
 
[Una colonna di 45 camion della KFOR è entrata sul territorio del nord di Kosovo e Metohia. Trasportano materiale per il blocco e la costruzione di barriere]
KOLONA OD 45 VOZILA KFOR-A UŠLA NA SEVER KOSOVA! NOSE OPREMU ZA BLOKADE I PRAVLJENJE BARIJERA (VIDEO) (13. decembar 2018)
 
ALLARME ROSSO IN KOSOVO. I GUERRIERI DI IERI COSTITUISCONO L’ESERCITO DI OGGI (di Alberto Tarozzi, 14/12/2018)
... La Nato non aveva sollevato obiezioni di principio. Si era però rifugiata in una formula che le permetteva di esprimere parere sfavorevole adducendo l’intempestività dell’operazione. E comunque gli Stati Uniti avevano mantenuto una posizione di sostegno agli oltranzisti di Pristina...
 
SERBIAN PM SAYS ARMED INTERVENTION AN OPTION IF KOSOVO FORMS ARMY (RT, 5 Dec, 2018)
Serbia’s Prime Minister Ana Brnabic has warned that the formation of a Kosovan army could trigger Serbia’s armed intervention, AP reported. In the bluntest warning so far, amid rising tensions between Serbia and Kosovo, Brnabic said on Wednesday that she hopes “we won’t ever have to use our army, but that is currently one of the options on the table.”Kosovo’s parliament is preparing to vote December 14 on transforming the security forces into a regular army. Serbian officials claim the army would be used to chase the Serb minority out of Kosovo – something repeatedly denied by officials in Pristina. Serbia does not recognize independence declared by Kosovo in 2008. NATO-led peacekeepers are stationed in Kosovo.
 
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[USA garantiscono al nascituro "Esercito del Kosovo" forniture di armi per 300 milioni di euro]
 
 
SAD kosovskim Albancima dozvolile stvaranje vojske i kupnju oružja za 300 milijuna eura
28/10/2018    SAŠA. F. 
 

U sljedeće tri godine će vlasti u Prištini, sjedištu samoproglašene “Republike Kosovo”, kupiti oružje vrijedno 300 milijuna eura za vlastitu vojsku.

Planovi za kupnju oružja su objavljeni su ubrzo nakon usvajanja zakona o uspostavi vojske Kosova koja će se sastojati od 5000 vojnika i navodno će biti “multinacionalna”.

Početkom listopada je američko veleposlanstvo u Prištini priopćilo kako  kosovski Albanci imaju podršku Washingtona u ideji stvaranja “multinacionalne profesionalne vojske prema standardima NATO pakta, ali s ograničenim mandatom”.

Nakon toga je 18. listopada parlament u Prištini podržao prethodnu odluku vlade o formiranju punopravne vojske, a temelj ovih oružanih snaga bit će postojeće Snage sigurnosti Kosova.

Od prisutna 102 zastupnika u parlamentu, 101 je glasao je za stvaranje Ministarstva obrane na Kosova, prenosi Gazeta Express, te dodaje kako su predstavnici manjinske stranke “Srpska lista”napustili dvoranu parlamenta u Prištini.

Prema postojećem ustavu Kosova,  vojska kosovskih Albanaca, koja će zbog formalnog “multinacionalnog” karaktera imati nekoliko pripadnika zajednice Srba, Roma, Bošnjaka i drugih manjina, može se stvoriti izmjenom ustava uz suglasnost najmanje dvije trećine od 120 zastupnika.

Kosovske vlasti su 2017. godine donošenjem zakona o proširenju ovlasti Sigurnosnih snaga iste pokušale transformirati u vojsku, ali su se suočile s otporom i zabranom ne samo međunarodne zajednice, nego i Sjedinjenih Država, koje iz baze “Bondsteel” i svog veleposlanstva u Prištini upravljaju Kosovom kao svojim protektoratom.

Kao što smo rekli, početkom listopada SAD odjednom mijenjaju stav i američko veleposlanstvo u Prištini vlastima Kosova daju “zeleno svjetlo” za uspostavu vojske i Ministarstva obrane.

Odobrenje Sjedinjenih Država dolazi neposredno nakon odluke u rujnu ove godine premijera Haradinaja i kabineta ministara samoproglašenog  Kosova da se odobri formiranje vojske i preustroj u oružane snage postojećih Snaga sigurnosti.

U sigurnosnom smislu ovo znači dodatno zaoštravanje odnosa na uzavrelom jugu Balkana, gdje se spore Makedonija i Grčka, Srbija i Kosovo, kojeg podržava susjedna Albanija, gdje Makedoniju i Crnu Goru razdiru etničke i druge odjele, a susjedna Bosna i Hercegovina je nakon nedavno održanih izbora ušla u razdoblje institucionalne krize, budući da Hrvati kao konstitutivni narod za svog člana Predsjedništva ne priznaju Željka Komšića, izabranog uglavnom glasovima Bošnjaka.

“Zeleno svjetlo” američke uprave Prištini da može stvoriti vlastitu vojsku, što je radikalan zaokret u odnosu na ranije politike, dodatno će zakomplicirati ionako složene odnose na jugu regije. Čini se da aktualna američka uprava želi zacementirati silom nametnuti okvir, koji dugoročno definitivno nije održiv.

Osim toga, kosovski presedan je u samo deset godina poslužio kao pravni temelj za slične odluke u Južnoj Osetiji, Abhaziji, Iračkom Kurdistanu, na Krimu i Kataloniji. Međutim, na drugim su mjestima barem provedeni referendumi o samoodređenju, neki uspješno, a neki ne. Koliko dugo Makedonija može izbjegavati sličan scenarij? Kojim će putom poći Bosna i Hercegovina, koja jedva preživljava u “luđačkoj košulji” Daytonskog sporazuma, ali je još uvijek država s dva entiteta i tri konstitutivna naroda?

Nije važno tko će se još pozvati na ovaj presedan, ali se već sada može pretpostaviti da će Amerikanci i Europljani, ako im ne ide u prilog, tada na sav glas grmjeti kako je to bijedno i jadno, ili će podržati taj proces, ako je u njihovom interesu.

Davanje legitimiteta sili i kršenje sporazuma i Rezolucije Vijeća sigurnosti Ujedinjenih naroda, prema kojoj Kosovo ne može imati vojsku, SAD ne da narušavaju krhki mir između Srba i Albanaca, nego stvaraju preduvjete za napetosti u cijeloj regiji koje lako mogu prerasti u otvorene sukobe.

 

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