Informazione

(srpskohrvatski / italiano)
 
Cento anni di Jugoslavia
 
1) Cent’anni di Jugoslavia (Giorgio Fruscione)
2) 100 Godina od osnivanja Jugoslavije (Komunisti Srbije)
 
 
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Cent’anni di Jugoslavia

di Giorgio Fruscione – East Journal, 30 novembre 2018

Da BELGRADO – Domani ricorre il centenario della proclamazione dell’unione di serbi, croati e sloveni in un unico regno, ovvero la Jugoslavia, come verrà ufficialmente rinominato il paese nel 1929.
 

La nascita del Regno di Serbi, Croati e Sloveni può considerarsi l’esito più politicamente rilevante della Prima guerra mondiale per la regione balcanica. Uno degli artefici della realizzazione dell’unione, re Aleksandar Karadjordjevic – che si guadagnerà l’epiteto di “unificatore” – sostenne personalmente che l’obiettivo principale dell’esercito serbo nella Grande Guerra fosse quello di arrivare a una liberazione degli slavi nel sud e alla costruzione della Jugoslavia.

D’altronde, la Jugoslavia viene spesso erroneamente fatta coincidere quasi esclusivamente con la successiva federazione di Tito, che invece non è che una delle realizzazioni di quell’ideale – lo jugoslavismo, appunto – nato circa un secolo prima la stessa Jugoslavia socialista.
Un errore che si accompagna a quello di ritenere la Jugoslavia come un ideale e uno strumento a servizio della politica “granserba”. Lo dimostrano l’attività letteraria e artistica di molti croati che fondarono il movimento culturale jugoslavo, che vide una moltitudine di collaborazioni sull’asse Belgrado-Zagabria. Ne è esempio Ljudevit Gaj, che nella seconda metà dell’Ottocento collaborò con Vuk Karadzic, padre della riforma della lingua serba, arrivando insieme a gettare le basi della futura lingua serbo-croata. E ancora lo scultore Ivan Mestrovic, amico personale di re Aleksandar, a cui corse in aiuto con le sue sculture per plasmare un’identità jugoslava attraverso monumenti in ricordo di quell’epopea che fosse interpretabile in chiave unificatrice – come la tomba del milite ignoto costruita sul monte Avala nel primo dopoguerra, ornata da cariatidi che indossano abiti tradizionali di tutte le regioni del nuovo regno. Sia Gaj che Mestrovic furono, a loro modo e in due distinti periodi storici, sia croati che jugoslavi, ovvero promotori di un’identità trasversale.

Da quel primo dicembre 1918 passarono quasi venticinque anni quando si arrivò alla seconda Jugoslavia. Ieri è infatti ricorso anche il settantacinquesimo anniversario dalla seconda seduta dell’AVNOJ, il consiglio antifascista jugoslavo, che nel 1943 a Jajce (Bosnia-Erzegovina) in piena Seconda guerra mondiale diede vita alla federazione jugoslava guidata dai partigiani di Tito.

Il sottile filo rosso che collega re Aleksandar al maresciallo Tito è a malapena percettibile. Un serbo e un croato; un monarca e un comunista; uno per lo stato centralizzato e l’altro per la federazione. Eppure Aleksandar e Tito furono due autentici interpreti della Jugoslavia. Entrambi imposero una dittatura personale nel nome del bene comune, ponendo insomma la propria autorità a ruolo di arbitri e garanti dell’ordine multinazionale, affinché non prevalesse un gruppo nazionale sugli altri. Non fu facile, soprattutto per Aleksandar.

Il cambio del nome in Regno di Jugoslavia del 1929 fu solo l’inizio della cosiddetta “Dittatura del 6 gennaio”, quando il re sciolse il parlamento, dichiarò illegali tutti i partiti politici e impose un rigoroso jugoslavismo. Fu l’estrema risposta all’attentato nel parlamento di Belgrado che pochi mesi prima portò alla morte di Stjepan Radic, leader del movimento contadino croato, in seguito alle ferite da arma da fuoco per mano del deputato nazionalista serbo Punisa Racic.
La dittatura finì con l’aumentare la rabbia nazionalista.. Il 9 ottobre del 1934, durante una visita a Marsiglia, re Aleksandar fu vittima di un attentato mortale ochestrato da nazionalisti croati (poi conosciuti col nome di “ustascia”) e macedoni del VMRO, organizzazione politico-militare che ambiva alla grande Bulgaria. Le sue ultime parole, negli istanti successivi all’attentato, furono: “Prendetevi cura della mia Jugoslavia”.

Gli errori di Aleksandar facilitarono in parte Tito, che impostò la Jugoslavia socialista su una maggiore uguaglianza tra i popoli – riassunta dal motto Unione e Fratellanza – e che spesso viene interpretata, anche in questo caso erroneamente, come l’applicazione della formula “una Serbia debole, per una Jugoslavia potente”. Fu vero il contrario, non solo per la Serbia, ma per tutte le repubbliche. E forse è per questo che vollero, così violentemente, emanciparsi da Belgrado a partire dal 1990, quando dieci anni dopo la morte del maresciallo finì il potere della Lega dei Comunisti Jugoslavi.

Per la Jugoslavia, quindi, non funzionò il centralismo e nemmeno il decentramento dei poteri, la monarchia e neanche il comunismo. Eppure, furono due entità che a modo proprio funsero da contenitore a un insieme di autentiche attività artistiche e culturali – per non parlare della crescita economica raggiunta con il socialismo dell’autogestione tra gli anni Cinquanta e Settanta – di cui tutt’oggi abbiamo traccia.

La Jugoslavia e lo jugoslavismo, oggi, sono una sorta di sopravvivenza contro la storia. E non si tratta solo di jugonostalgia, identificabile come un rammarico più o meno politico per il periodo di Tito; o di “jugosfera”, apparato di legami culturali e commerciali che, come sostiene l’esperto Tim Judah, tiene ancora in vita i rapporti tra gli ex della Jugoslavia. Si tratta anche e soprattutto di un’identità che resiste. Nell’instancabile rock jugoslavo che ancora riempie gli stadi a Zagabria e Belgrado; nel successo di quel cemento “brutalista” contro la ghettizzazione urbana; o, più semplicemente, nei discorsi da bar di quegli appassionati di sport che, puntualmente ad ogni mondiale, iniziano sempre con la frase “che squadra che avrebbe oggi la Jugoslavia…”

 
 
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100 GODINA OD OSNIVANJA JUGOSLAVIJE

U organizaciji Udruženja Jugoslovena iz Lajkovca održana je proslava 100 godina od formiranja Kraljevine SHS, na kojoj je prisustvovala i naša delegacija.
 

REFERAT PARTIJE “KOMUNISTI SRBIJE”

Drugarice i drugovi u ime partije KOMUNISTI SRBIJE pozdravljam sve prisutne i zahvaljujemo se udruženju JUGOSLOVENA iz Lajkovca i predsedniku istog Vlastimiru Jevtiću koji je ujedno i član CENTRALNOG KOMITETA naše partije na organizaciji ove jubilarne manifestacije i gostoprimstvu.

Komunisti Srbije su revolucionarna marksističko-lenjinistička partija čvrste jugoslovenske orijentacije. Mi ne priznajemo razbijanje Jugoslavije  i borimo se za njenu reintegraciju u AVNOJEVSKIM granicama. Mi nismo jugo-nostalgičari mi smo jugo-futuristi. Svedoci smo danas da se falsifikuje istorija i da se rehabilituju ratni zločinci i saradnici fašističkog okupatora od razbijanja SFRJ. U Srbiji je preko 2000 ratnih zločinaca i kvinslinga rehabilitovano što predstavlja sramotu za našu državu. Pre 100 godina osnovana je zajednička država južnih slovena, ali obzirom da je bila monarhija i da je na vlasti bila reakcionarna buržoazija kojoj nije bilo u interesu da reši ni nacionalno ni socijalno pitanje nije ispunila velika očekivanja naroda i narodnosti. Kraljevina Jugoslavija je posle Albanije bila najsiromašnija država u Evropi što važi i za Srbiju danas koja se vratila 100 godina unazad. Tek je pobedom u NOB-u i socijalističkoj revoluciji predvođena slavnom KPJ i maršalom Josipom Brozom Titom na čelu ostvarila vekovni san jugoslovenskih naroda i narodnosti u okviru SFRJ da žive slobodno i ravnopravno u najhumanijioj državi na svetu. Socijalistička Jugoslavija je bila uvažavana i respektovana u čitavom svetu a njenog lidera druga Tita konsultovali su najzačajniji svetski lideri za rešavanje brojnih međunarodnih konflikata i kriza u Svetu. Današnje državice na prostoru eks Jugoslavije ne predstavljaju nikakav faktor na međunarodnoj političkoj sceni a njihovi lideri su obični politički šarlatani. Primer za to je najnovije poniženje koje je doživeo predsednik Srbije u Parizu na proslavi 100 godina od pobede saveznika u Prvom svetskom ratu.

Samo u socijalističkoj Jugoslaviji,naši narodi i narodnosti mogu povratiti slobodu, ravnopravnost i socijalnu sigurnost.

SMRT FAŠIZMU – SLOBODA NARODU !

 



I veri Bush

Proponiamo un commento di Pino Cabras, parlamentare M5S, su George Bush. Nel fiume di retorica totalmente acritica, se non addirittura agiografica, questo è uno dei pochi commenti che merita di essere letto.

3 Dicembre 2018

di Pino Cabras

In morte dell’ex presidente USA George Herbert Walker Bush (1924-2018), si stanno già sprecando i commenti giornalistici e istituzionali che ne esaltano la figura. Preparatevi a una scorpacciata di buone parole e santificazioni postume. Molti commentatori che quando parlano di Putin aggiungono sempre in automatico, quasi fosse un secondo cognome, la formula «ex-spia-del-Kgb», trascureranno, altrettanto in automatico, un dettaglio biografico che riguarda Bush, l’essere stato direttore della Cia.
Trascureranno cioè una qualificazione più accurata di uno dei quadri dirigenti della guerra fredda, un personaggio emblematico di un sistema che ha plasmato l’infrastruttura imperiale americana. L’appartenenza di Bush ai settori più opachi delle classi dirigenti statunitensi non è insomma una nota a margine della Storia, un incidente di percorso, una piccolezza, bensì la chiave per capire il suo ruolo con sufficiente respiro storico. Ho letto anni fa il documentatissimo saggio di Russ Baker “Family of Secrets” (Bloomsbury, 2008), che ripercorre l’incredibile galleria di azioni sporche collegabili in episodi decisivi della storia USA a quel gruppo patrizio di cui i Bush sono una componente centrale.

Poiché nei fatti quella dei Bush è una dinastia, come per tutte le dinastie ci si deve muovere dai patriarchi, a partire dal nonno del defunto, ossia Samuel Prescott Bush, tra il 1914 e il 1918 un fedelissimo di Percy A. Rockfeller (padrone della City Bank e della Remington Arms Co.), amministratore della War Industries Board (industria a produzione militare che si espanse moltissimo grazie alla prima guerra mondiale), socio del magnate della finanza Bernard Baruch e del ‘banchiere nero’ Clarence Dillon , habitué dei circoli esclusivi dell’alta finanza che originarono il CFR (Council of Foreign Relations).

Si deve poi passare a suo figlio (e padre del defunto), Prescott Sheldon Bush, amministratore e socio della Union Banking Corporation (UBC) [Ben Aris, Duncan Campbell, “How Bush’s grandfather helped Hitler’s rise to power,” «The Guardian», 25 settembre 2004. http://www.guardian.co.uk/usa/story/0,12271,1312540,00.html.] Il suo partner più importante in Germania era l’industriale nazista Fritz Thyssen: la banca fu fondata per finanziare la riorganizzazione dell’industria tedesca. Investiva ad esempio nell’Overby Development Company e nella Silesian-American Corporation (diretta dallo stesso Bush), da cui l’industria bellica di Hitler si approvvigionava di carbone anche dopo l’entrata in guerra degli USA. Investiva inoltre nella compagnia di navigazione Hamburg-Amerika Line (poi denominata Hapag-Lloyd dopo la fusione con un’altra società), le cui navi, negli anni trenta, fornivano le milizie naziste di armi provenienti dagli Stati Uniti. L’attivismo del senatore Prescott Sh. Bush fu premiato: venne insignito dal regime nazista dell’‘Aquila tedesca’. Il certificato di attribuzione di questa onorificenza in data 7 marzo 1938 fu firmato da Adolf Hitler e dal segretario di Stato Otto Meissner, come risulta dagli archivi del Dipartimento della Giustizia statunitense. Nel corso del 2001 sono venuti a galla dei documenti impressionanti sui traffici di Prescott Sh. Bush. Queste recenti ricerche dimostrano che quel Bush installò una fabbrica nei pressi di Auschwitz, dove lavorarono, ridotti in schiavitù, i prigionieri dei vicini campi di concentramento [Gli archivi vennero compulsati da John Loftus, presidente del Florida Holocaust Museum. Si veda Toby Rodgers, “Heir to the Holocaust, How the Bush Family Wealth is Linked to the Jewish Holocaust”, in «Clamor Magazine», maggio-giugno 2002.]

La nostra attenzione a questo punto può finalmente spostarsi su George Herbert Walker Bush, vicepresidente nell’amministrazione Reagan (1981-1989) e poi 41° presidente degli Stati Uniti (1989-1993). I suoi vasti interessi in zone oscure della morale politica hanno spaziato dalla copertura di certi traffici di droga a quelli di armi e petrolio, solo a stare alla vicenda Iran-Contra.

Citiamo alcuni passaggi di questa sfolgorante e spregiudicata carriera. Seguendo le orme dei suoi familiari, George debutta molto presto nei circoli anticomunisti dell’alta finanza nordamericana. Oltre ad aver occupato le massime cariche alla Casa Bianca, il suo cursus honorum lo vede fra i coordinatori del fallito sbarco nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961, poi punto di riferimento del narco-dittatore panamense Noriega, infine superconsulente di Carlyle Group , ossia uno dei principali azionisti di molti fornitori delle forze armate americane. Ma fu anche direttore della CIA tra il 1976 e il 1977. Tra il 1981 e il 1986 – da vicepresidente degli Stati Uniti – Bush selezionò decine di figure chiave dell’amministrazione coinvolte in colossali traffici nel mercato internazionale della droga.

Nello stesso periodo, e anche questa è cosa ben nota, furono molto fitti e costanti i rapporti tra la famiglia Bush e quella bin Lāden (tanto che entrambe hanno ricoperto posizioni rilevanti nel Carlyle Group). Khalifa, Bin Mafouz, Salem bin Lāden (fratellastro di Osāma) erano nel consiglio di amministrazione della BCCI quando scorrevano immensi flussi di denaro per l’affare Iran-Contra. Quando, alla fine del 1980, alcuni emissari repubblicani s’incontrarono in segreto a Parigi con i khomeinisti moderati per far rimandare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e sconfiggere così Jimmy Carter alle elezioni, George padre arrivò in tutta fretta al vertice a bordo dell’aereo di Salem bin Lāden. I bin Lāden investirono nel Carlyle Group circa 1,3 miliardi di dollari e James Baker, a capo dello staff di Bush Senior, ha ammesso ufficialmente che Bush ha incontrato i bin Lāden anche nel novembre 1998 e nel gennaio del 2000.

Possiamo dunque cogliere già con pochi cenni che questo pezzo di “patriziato americano” rappresentato dalla dinastia dei Bush si tramanda una grande spregiudicatezza nei rapporti di potere con presunti nemici. Dentro le guerre, dentro i grandi affari dell’industria a produzione militare, dentro le consorterie di petrolieri che brindano all’uccisione dei Kennedy e al trionfo delle petromonarchie.

Sono strutture di potere che durano al di là delle singole persone, al punto che perfino una persona di ridottissime capacità come George W. Bush, figlio di George Herbert Walker Bush, è riuscito poi a diventare anche lui presidente, orgogliosamente dichiaratosi «a president of war» e dunque corresponsabile dei grandi disastri bellici di cui oggi ereditiamo le conseguenze.

Non uniamoci perciò alle canonizzazioni di Bush. Misuriamo semmai la serietà dei giornali dalla capacità di farne il vero ritratto.



(english / italiano)

Nebojša Slijepčević: Srbenka

1) Srbenka, un documentario sugli aspetti più intimi della xenofobia (Tatjana Đorđević)
2) «Srbenka», come guarire dai traumi? (Gianfranco Miksa)

Nota del curatore: l'uso della categoria della "xenofobia" per indicare il disprezzo vigente in Croazia verso i concittadini di cultura serba è fondamentalmente inappropriato, poiché assume che i serbi di Croazia siano stranieri nella loro stessa terra. (I.S.)

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SRBENKA, documentary, DIR: Nebojša Slijepčević, 2018, 75 min

TRAILER (DAFilms, 3 mag 2018): In the winter of 1991 a 12-year old Serbian girl was murdered in Zagreb. Quarter of century later director Oliver Frljić is working on a theatre play about the case. Rehearsals become a collective psychotherapy, and the 12-year old actress Nina feels as if the war had never ended...


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Srbenka, un documentario sugli aspetti più intimi della xenofobia

Quando Nina scopre di essere serba ha 7 anni e vive in Croazia. La sua vita si trasforma in un incubo

TATJANA ĐORĐEVIĆ
Giornalista freelance e corrispondente dall'Italia per vari media serbi

Diretto dal regista croato Nebojsa Sljepcevic, Srbenka (miglior documentario a Cannes 2018) indaga con una inaudita profondità il modo in cui le minoranze, e in particolare i suoi membri più giovani, vivono il presente e come interpretano il passato. Sullo sfondo, una Croazia che non ha mai chiuso i conti con la guerra.

“Una volta ho chiesto a mia madre: Mamma, sono Srbenka? All’epoca, non sapevo esattamente come si dicesse ‘serba’. Ho iniziato a piangere, perché fino all’età di sette anni pensavo di essere croata”. Inizia cosi la storia di Nina, la protagonista del documentario Srbenka. Il titolo nasce proprio dall’errore di pronuncia della piccola Nina.

Premiato come miglior documentario al Festival di Cannes, il film segue le prove dello spettacolo teatrale “Aleksandra Zec”, diretto dal famoso e controverso regista croato Oliver Frljic, che cerca di esaminare l’omicidio della dodicenne serba Aleksandra (interpretata da Nina), uccisa insieme ai suoi genitori nel dicembre del’91. L’episodio è altamente discusso in Croazia, visto che gli autori di questo crimine ad oggi non sono stati perseguite penalmente. E quando lo spettacolo esordì in scena nel 2014 a Rijeka subì pesanti condanne da parte di media, associazioni, politici e veterani di guerra.

Il regista Nebojša Sljepčević conobbe Nina durante le prove dello spettacolo di Frljic, quando la ragazza casualmente rivelò come avesse scoperto di essere serba. Così nacque l’idea di portare in pellicola Srbenka, un ritratto amaro della società croata contemporanea. Frontiere News ha avuto l’occasione di intervistare Nebojša Sljepčević, che sarà in Italia il 4 novembre per il Festival dei Popoli, a Firenze.

Srbenka descrive le condizioni della minoranza serba in Croazia; quello che emerge sui serbi è applicabile per tutte le minoranze che oggi provano disagio in Europa?

Non è facile generalizzare. Ad ogni modo la crescita dell’intolleranza in Europa è evidente e certamente le minoranze la percepiscono maggiormente. Il documentario Srbenka parla di tutte le minoranze, non solo quelle etniche, ma anche quelle sessuali e politiche.

Il registra Frljic riesamina il passato; lei invece racconta il presente e quindi la situazione attuale della società croata?

Sì, esatto. Non ho pensato neanche un minuto di fare un film che raccontasse il passato, anche se noi che veniamo dai Balcani non possiamo fuggire da quello che c’è stato qui. Anche quando fai un film che racconta il presente, allo stesso tempo parli del passato. Purtroppo il passato influenza le nostre vite e viene usato per manipolare il popolo. Sebbene siano passati venti anni dalla guerra, il ricordo è ancora fresco. In certi ambienti è preferibile che le ferite non guariscano e che i traumi rimangano aperti.

Xenofobia e intolleranza sono parte evidente della società croata. Di chi è la colpa?

Dei politici. Negli ultimi venti anni, in Croazia ha governato l’HDZ (Unione democratica croata), un partito di centrodestra che ha impoverito il Paese e che cerca di nascondere la sua incompetenza facendo emergere nemici fittizi, esterni ed interni. E’ possibile indicare il momento preciso in cui, all’improvviso, l’estremsimo ha iniziato a crescere. E’ successo quando la Croazia è entrata nell’Unione Europea; in quel momento l’HDZ smise di interpretare la parte del partito europeista.

Dall’altra parte, l’SDP (il Partito socialdemocratico di Croazia) non sa dare risposte alla domande importanti. Sempre a causa dell’incompetenza. Ciò apre le porte ai movimenti populisti, che molto spesso usano parole d’odio per mobilitare i propri seguaci. Ma non solo, anche la Chiesa fa la sua parte. Non è molto raro sentire preti che dall’altare diffondono messaggi d’intolleranza oppure riabilitino i criminali di guerra. In Croazia al momento ci sono diversi movimenti conservatori che cercano di ridurre i diritti delle donne e delle minoranze nazionali attraverso il referendum.

Come Nina, altre persone nel documntario raccontano della loro vita nella Croazia del dopoguerra. Da quello che dicono sembra che la guerra non sia mai finita. A chi conviene questa situazione?

A molti. La guerra è una grande vetrina per il futuro, come abbiamo visto in Croazia. Parallelamente alla guerra, c’è stata una forte privatizzazione, di cui ancora oggi sentiamo le conseguenze. Stimolare la paura e l’odio è un modo perfetto per sviare l’attenzione dai problemi reali e dai veri colpevoli.

Del resto anche dalla Serbia arrivano messaggi radicali che alimentano le ostilità. L’estremismo si nutre di estremismo. Proprio in questo momento alcuni media stanno cercando di usare il mio film per diffondere odio. A loro la verità non interessa.

Se da un lato il suo documentario ritrae la società croata attuale, dall’altro fa emergere concetti come democrazia, riconcilazione e tolleranza. Pensa che il suo film potrebbe contribuire a migliorare il clima sociale?

Penso che la pace e la tolleranza non sono valori garantiti, per essi è necessario combattere, sempre. Un film non può cambiare il mondo o fare miracoli, ma penso che ogni contributo a questa lotta sia importante.

Srbenka ha vinto il premio Doc Alliance al Festival di Cannes, il premio per il miglior documentario al Sarajevo Film festival, mentre l’Accademia Europea del Cinema l’ha inserito tra i migliori quindici documentari europei del 2018. Si aspettava questo successo?

Ho girato il film pensando solo al pubblico locale. Eppure già dall’anno scorso, quando abbiamo proitettato la versione incompleta del fim al Sarajevo Film Festival, ho capito che mi ero sbagliato. Le reazioni degli spettatori stranieri sono state molto emozionanti. Mi hanno dato varie motivazioni per spiegarmi perché il film era stato gradito. Quella che mi ha colpito di più è quella secondo la quale gli spettatori stranieri nel film riconoscono la stessa situazione nei loro paesi.


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«Srbenka», come guarire dai traumi?

di Gianfranco Miksa, 21 settembre 2018

FIUME | I retroscena, l’evolversi dei fatti assieme a tutta la fortissima carica emotiva che hanno portato alla realizzazione del pluripremiato spettacolo “Aleksandra Zec” – progetto d’autore del regista Oliver Frljić, allestito dal Teatro HKD di Zagabria, che debuttò nel 2014 –, sul controverso omicidio di una dodicenne, appunto Aleksandra Zec. È questo il fil rouge del documentario “Srbenka” di Nebojša Slijepčević, trasmesso in prima visione giovedì scorso nell’Art cinema “Croatia” di Fiume, quale primo appuntamento della stagione 2018/2019.

La pellicola inizia con la toccante testimonianza di una ragazza di 18 anni, l’età che avrebbe oggi Aleksandra Zec se fosse ancora viva, la quale descrive in lacrime i diversi maltrattamenti subiti nel corso della propria vita soltanto per il fatto di essere serba e di vivere come tale in Croazia. Sta seduta al buio in mezzo al palco, vestita di nero, e difficilmente tira fuori le parole. La sua devastante testimonianza accompagna la proiezione del film come voce fuori campo. Subito dopo viene descritto il processo d’allestimento dello spettacolo diretto da Frljić. 

Un caso terribile

Il lavoro teatrale narra il terribile e vergognoso caso della dodicenne assassinata nel 1992, assieme ai propri genitori, dalla Polizia militare croata e di come gli esecutori, per un errore processuale, si trovino ancora oggi a piede libero, e pertanto del tutto impuniti. Nel raccontarlo, il regista lavora con un gruppo di attrici e attori e con quattro dodicenni, una delle quali – lo spiega nella pellicola – è di nazionalità serba. Ciascun attore del cast racconta nel documentario l’emozione provata nel rapportarsi con la storia della piccola Aleksandra, ed evoca alcuni traumi della sua infanzia legati alla guerra nell’ex Jugoslavia e di che cosa comporti e quanto influisca semplicemente il fatto di essere di nazionalità diversa in seno alla società croata. Da qui il titolo del documentario, “Srbenka”, che vuole essere una storpiatura del termine “serba”, poiché la bambina nel chiedere ai genitori di quale nazionalità fossero, non riusciva a ripeterla correttamente.
Oltre a documentare la messa in scena e le emozioni degli attori, il cortometraggio riporta anche le reazioni di una parte della società croata – quella di estrema destra di stampo xenofobo – con tutta la sua avversione verso la scelta di affrontare la storia di una sola ragazzina serba assassinata, mentre furono circa 400 i bambini morti nella Guerra patriottica in Croazia. A tale proposito, nel documentario di Slijepčević, il regista Oliver Frljić annuncia la sua intenzione di confrontarsi anche con queste terribili vicende, ma non certamente nei Teatri della Croazia, in quanto sostiene che la società croata non abbia bisogno di questo processo catartico e di questo tipo di confronto con il passato. “Di ciò hanno bisogno ben altri”, dice nel film. Quello che il documentario trasmette è lo stato di cose di una società profondamente traumatizzta, che non ha fatto ancora i conti con il passato e dove la percezione della minoranza serba non è del tutto cambiata. È ancora sempre un elemento estraneo che in molti suscita odio e di cui non bisogna fidarsi.
Alla première fiumana, oltre a un nutrito pubblico, erano presenti anche il regista Nebojša Slijepčević assieme alla troupe cinematografica del documentario interamente girato a Fiume. Il regista ha spiegato i meccanismi e le difficoltà incontrate durante la realizzazione del cortometraggio, ma ha parlato pure della sua grande soddisfazione per il successo internazionale avuto dall’opera. “Srbenka” si è imposta l’anno scorso vincendo nella sezione Docu Rough Cut Boutique del Festival cinematografico di Sarajevo. Più recentemente si è aggiudicata il premio Doc Alliance al Film Festival di Cannes, mentre l’Accademia filmica europea l’ha inserita tra i migliori 15 documentari europei del 2018. Tra gli spettatori nel “Croatia”, anche diversi esponenti del mondo culturale fiumano, tra cui gli stessi attori che hanno partecipato alla realizzazione dello spettacolo teatrale..

“Novine” alla seconda stagione

L’Art cinema fiumano prosegue intanto la sua ricca programmazione. Uno dei prossimi appuntamenti è per domani, alle ore 20.30, con la proiezione dei primi due episodi della seconda stagione della fiction “Novine” (“Il Giornale”), di Dalibor Matanić, l’unica serie televisiva croata acquistata dalla Netflix – e disponibile pertanto in oltre 190 Paesi –, prodotta dall’emittente televisiva croata (HRT).




(english / deutsch / italiano)

Il Tribunale penale internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia (ICTY) ha chiuso da un anno... ma fa ancora danno

0) PRO-MEMORIA: Milano 1 Dic. 2018: "G. Torre" Award Ceremony / Premiazione del concorso "G. Torre"
1) Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto (Italo Slavo / Jacopo Zanchini, marzo 2018)
2) La giustizia che punisce solo i vinti (Paolo Mieli, dicembre 2017)
3) FLASHBACK: Provoking nuclear war by media (John Pilger on ICTY' de facto exoneration of Slobodan Milosevic, 2016)


Altri link / À lire aussi / Weiter lesen / Also recommended:

TPIY : L’ENQUÊTE SUR LE SUICIDE DE SLOBODAN PRALJAK EST CLOSE (Klix.ba | Traduit par Eléonore Loué-Feichter | lundi 5 novembre 2018)
L’enquête sur le suicide de Slobodan Praljak en pleine audience du TPIY, le 29 novembre 2017, n’a pas réussi à établir de quelle manière ni à quel moment l’ancien chef croate d’Herzégovine s’était procuré du cyanure de potassium. Aucune infraction pénale n’a donc pu être établie....

Al link seguente un "articolo" sulla nuova sentenza per Seselj, nel quale però non si parla per niente di quello che avrebbe fatto Seselj per essere processato all'Aia ma in compenso il nome "Milosevic" è menzionato ben sette volte a mo' di insulto... e giù "soldataglia miloseviciana", "centinaia di migliaia di civili" assassinati, Vucic "oggetto di attentati" che si sposterebbe "solo in veicoli blindati", Mira Markovic che con "molti leader del clan panserbo-filorusso vivono oggi a Mosca, con ampi mezzi finanziari", Milosevic "morto suicida in carcere all'Aja", ed altre (come definirle?) invenzioni letterarie per le quali la NATO bombarda, saluta, ringrazia e paga lo stipendio (a cura di Italo Slavo):
SERBIA, LEADER ULTRANAZIONALISTA CONDANNATO IN APPELLO MA EVITA IL CARCERE (di Andrea Tarquini, 12 aprile 2018)
http://www.repubblica.it/esteri/2018/04/12/news/serbia_leader_ultranazionalista_serbo_condannato_in_appello_ma_evita_il_carcere-193652881/

JUSTIFIED GRIEVANCES? A QUANTITATIVE EXAMINATION OF CASE OUTCOMES AT THE INTERNATIONAL TRIBUNAL FOR THE FORMER YUGOSLAVIA (ICTY)
by Jovan Milojevich, February 2018 (Journal of Balkan and Near Eastern Studies, DOI: 10.1080/19448953.2017.1421414 )
Abstract: Scholars have long debated the impartiality of the ICTY. Some argue that the Tribunal is biased while others argue that it fairly and impartially seeks justice for all the victims of the war. The present study offers a narrower approach to the question of possible bias by examining whether certain case variables were associated with case outcomes. The results show strong evidence of an association between the ethnicity of the accused (and of the victims) and the verdict and years sentenced, which calls into question the Tribunal’s impartiality. Nonetheless, the main goal of this study was not to question or dispute its decisions but to assess the validity of certain grievances against the Tribunal. For instance, the Serbs feel the Tribunal has not delivered justice for their victims and—as a result—their ‘collective suffering’ has been disavowed by the other communities in the region as well as by the West. Western political elites have largely rejected the validity of the Serbs’ claim and have attributed their belief to a denial by the Serbs of their role in the war. Unfortunately, the contentious nature of this debate has contributed to the lack of peacebuilding and reconciliation efforts in the region.

Die Webseite www.free-slobo.de, nach fünfjährigem Unterbruch, wird wieder topp-aktuell nachgeführt.. Die sie tragende deutsche Sektion des ICDSM (International Committee to Defend Slobodan Milosevic) hat schon zu Beginn des Jugoslawien Krieges (neben jungewelt.de) dezidiert und fundiert gegen die kriminellen Machenschaften der NATO, insbesondere auch der Dämonisierung von Slobodan Milosevic, Stellung bezogen. (Kaspar Trümpy, ICSM Schweiz)


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Milano 1 Dic. 2018: "G. Torre" Award Ceremony / Premiazione del concorso "G. Torre"



La Commissione per l’attribuzione dei premi “Giuseppe Torre” per elaborati critici sul Tribunale per la ex Jugoslavia, ed. 2018, ha deciso di non attribuire il primo premio e di attribuire due secondi premi ex-aequo a Stefan Karganović e Jovan Milojevich – si veda il comunicato integrale della Giuria: https://www.cnj.it/home/it/diritto-internazionale/8917-i-vincitori-del-concorso-g-torre.html

La PREMIAZIONE dei vincitori si terrà a Milano sabato 1 dicembre p.v., dalle ore 10:30 presso la Galleria Milano, Via Turati 14. Per ragioni organizzative gli interessati a partecipare [ad eccezione dei membri di Jugocoord ed invitati] devono inviare richiesta di iscrizione all'indirizzo jugocoord @ tiscali.it specificando: nome, cognome, telefono di ciascun partecipante. Solo in caso di raggiungimento del massimo della capienza sarà inviata risposta negativa entro 1-2 giorni dalla sottomissione della richiesta.

Programma:

ORE 10:30: Accoglienza

ORE 11:00: Saluti e introduzione del segretario della associazione promotrice Jugocoord Onlus: Andrea Martocchia.

ORE 11:15: Dichiarazione della Giuria del Concorso a cura del membro delegato: Jean Toschi Marazzani Visconti.

ORE 11:30: Premiazioni ed interventi dei vincitori

Stefan Karganović: "ICTY and Srebrenica" [Il TPIY e Srebrenica]

Jovan Milojevich: "When justice fails: Re-raising the Question of Ethnic Bias at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY)” [Quando la giustizia fallisce: riprendendo la questione del pregiudizio etnico al Tribunale penale Internazionale sulla ex Jugoslavia (TPIY)]

ORE 12:00: Proiezione di stralci dal documentario "De Zaak Milosevic" ("Il caso Milosevic", di Jos de Putter / VPRO, Olanda 2003, V.O. sottotitolata).

ORE 12:15: Interventi degli invitati:
Gen. Giorgio Blais, già responsabile di missioni militari all'estero, esperto di Diritto internazionale ed umanitario e protezione dei Beni Culturali
Tiphaine Dickson, già avvocato difensore in casi di crimine internazionale, capo consulente al Tribunale Penale Internazionale sul Ruanda, ex consigliere legale nel processo Milosevic e ora docente alla Scuola di Amministrazione Mark O. Hatfield della Portland State University (Stati Uniti)
Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera, autore di saggi sulle questioni jugoslave tra cui "Imputato Milosevic. Il processo ai vinti e l'etica della guerra"
Slobodan Lazarević, giornalista, presidente del Consiglio Direttivo della Associazione Sloboda–Libertà, Belgrado

ORE 12:45: Discussione e conclusioni.

ORE 13:15: Aperitivo.

I lavori si terranno nelle lingue INGLESE ed ITALIANO


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Slobodan Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto

L'articolo di Jacopo Zanchini, che linkiamo di seguito (1), è una difesa d'ufficio dell'operato del "Tribunale ad hoc" dell'Aia: un bel compitino che non convince più nessuno. Se persino Paolo Mieli la interpreta oramai diversamente (2), "Internazionale", tempio in cui officiano i sacerdoti del mainstream, preferisce andare dritta a testa bassa e con robusti paraocchi.

La sua ricostruzione della guerra fratricida in Bosnia e Jugoslavia è assai carente e faziosa, tutta piegata a dimostrare la vulgata della "aggressione serba"; però già la sintesi dell'operato del "Tribunale ad hoc" è inaccettabile, poiché non solo i numeri degli imputati e dei condannati palesano il pesantissimo squilibrio "etnico" delle accuse, ma soprattutto il loro trattamento prima, durante e dopo le sentenze andrebbe analizzato. Milosevic dal carcere è uscito con i piedi davanti, e non per cause naturali, e non è stato il solo. Come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS abbiamo promosso un concorso (premi "Giuseppe Torre") su questi temi, che non possono essere liquidati come fa Zanchini.

Sulla questione specifica, Zanchini trascura che la assoluzione de facto di Milosevic è stata persino reiterata negli incartamenti della sentenza contro Ratko Mladić a fine 2017 – vedasi il link (3) per tutti i dettagli. Ma non c'è peggior sordo di chi pensa che le fake news siano solo le fake news degli altri.

(1) Slobodan Milošević è pericoloso anche da morto - Jacopo Zanchini - Internazionale 28.3.2018.
https://www.internazionale.it/opinione/jacopo-zanchini/2018/03/28/amp/slobodan-milosevic-assoluzione-notizia-falsa

(2) La giustizia che punisce solo i vinti (di Paolo Mieli, 13 dicembre 2017 – riportato anche di seguito, al punto 2.)

(3) Hague Tribunal Exonerates Slobodan Milosevic Again

(a cura di Italo Slavo)


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La giustizia che punisce solo i vinti

Dopo ventiquattro anni sta per smobilitare il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia

di Paolo Mieli, 13 dicembre 2017

In punta di piedi, se ne andrà, tra quindici giorni, il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Ha operato — la Corte dell’Aia — per ventiquattro anni, nel corso dei quali sono stati portati alla sbarra 161 imputati: 90 hanno poi ricevuto una sentenza di condanna. L’ultima immagine di questo dibattimento giudiziario destinata a rimanere impressa è quella di fine novembre: il settantaduenne generale croato-bosniaco Slobodan Praljak che, appreso di dover stare in prigione vent’anni (due terzi dei quali, già scontati), si è suicidato ingerendo, davanti alle telecamere, una fiala di veleno. Per la cronaca, Praljak in un primo tempo era stato accusato di aver ordinato, nel 1993, la distruzione dello Stari Most. Si trattava del Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico realizzato tra il 1557 e il 1566 sulla Neretva dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar per consentire alle comunità cristiana e musulmana di integrarsi tra loro. I giudici dell’Aia, però, avevano assolto Praljak per quell’ordine stabilendo che quel ponte era un «obiettivo legittimo» in quanto costituiva una «linea di rifornimento del nemico». E si erano limitati a condannarlo per altri crimini. Ma anche questo, evidentemente, era per lui intollerabile pur se gli anni da trascorrere in cella sarebbero stati davvero pochi. Del tutto diverso il suo dal caso di Hermann Göring a Norimberga, al quale pure era stato il generale croato impropriamente paragonato. Göring si era sì dato la morte nell’ottobre del 1946 con il cianuro, ma dopo essere stato condannato a morte. Sarebbe morto comunque. Prima di Praljak si erano suicidati altri imputati di questo interminabile processo: l’ex ministro dell’Interno serbo Vlajko Stojiljkovic, l’ex sindaco di Vukovar Slavko Dokmanovic e, nel marzo del 2006, il quarantottenne presidente della Repubblica serba di Krajina, Milan Babic, impiccatosi in cella mentre stava scontando una pena di tredici anni. Tutti casi di condanne relativamente lievi, ben diversi da quelli del numero due di Adolf Hitler.
Nel corso del tempo trascorso dal 1993, anno in cui il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito, ci sono stati altri decessi in cattività. Sei giorni dopo Babic, morì in cella il grande imputato di questo processo, Slobodan Milosevic. Un infarto, si disse, per giunta alla vigilia della condanna. L’ex presidente serbo aveva più volte avanzato il sospetto che i suoi carcerieri lo stessero avvelenando. Sospetti, non suffragati però da evidenze di alcun tipo. Come, peraltro, di dubbi non sorretti da prove ce ne sono stati più d’uno per le morti improvvise di alcuni dei reduci di quella guerra, rinchiusi nella prigione di Scheveningen. In ogni caso, restando a Milosevic, pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aja lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milosevic di aver cercato di convincere Karadzic che «la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra» e che «l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia». Ed è così potuto accadere che (sempre nel 2016) Prokuplje, una cittadina di trentamila abitanti nel Sud della Serbia, annunciasse l’intenzione di costruire un monumento a Milosevic. E che il capo dello Stato, Tomislav Nikolic, un ex leader del dissenso serbo, non ritenesse di dirsi «contrario» mettendo in imbarazzo l’uomo destinato a succedergli, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic (il quale, nel merito del giudizio da dare sull’iniziativa di Prokuplje, se l’è cavata dicendosi «combattuto»).
Morale: il pur scrupoloso lavoro dei giudici dell’Aja ha avuto l’effetto di produrre addirittura una iniziale riabilitazione di Milosevic. Senza peraltro dare soddisfazione alle vittime di quella guerra degli anni Novanta. Come dimostra un effetto del già citato «caso Karadzic»: il 24 marzo 2016 la Corte dell’Aja ha condannato Radovan Karadzic — l’uomo che si vantò della «pulizia etnica» — a quarant’anni di carcere per dieci capi di imputazione su undici (quanti ne aveva individuato dall’accusa). Ripetiamo, dieci su undici: Karadzic è stato ritenuto responsabile del massacro di Srebrenica (1995), di altri cinque misfatti contro l’umanità e quattro di guerra. Ma è stato assolto dall’accusa di genocidio in sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sarebbero macchiate di esecuzioni, stupri di massa e avrebbero gestito campi di concentramento con l’intenzione di uccidere quanti più musulmani possibile. I giudici hanno sentenziato che di ciò non esisteva prova certa, ed è bastato questo perché il senso della loro decisione fosse capovolto. Un superstite di quelle stragi, Amir Kulagiv, ha dichiarato: «La condanna appare come un premio per quello che Karadzic ha fatto, non una punizione... Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Dopodiché nella Republika Srpska, uno staterello bosniaco controllato dalla Serbia, la casa dello studente di Pale, (cittadina da cui fu lanciato l’assedio a Sarajevo), è stata battezzata con il nome di Karadzic e alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato la moglie del condannato nonché il Presidente Milorad Dodik. Ecco: chi è curioso di sapere come possa accadere che dei criminali di guerra possano, dopo qualche tempo, diventare oggetto di venerazione potrà d’ora in poi studiare con profitto il caso jugoslavo.
Quanto a noi, resta il dilemma che ci perseguita dai processi di Norimberga e Tokio, i quali sanzionarono le colpe di tedeschi e giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si può considerare «giusto» un Tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti? Possibile che non si riesca a trovare neanche una macchiolina sull’abito dei vincitori? Siamo proprio sicuri — ad esempio — che i musulmani bosniaci di Alija Izetbegovic non abbiano qualche morto sulla coscienza? E c’è qualcosa da dire anche a proposito di noi europei, delle Nazioni Unite, dell’Occidente nel suo insieme. Il generale serbo Ratko Mladic il 4 giugno del 1995 incontrò il generale francese Bernard Janvier che comandava le forze Onu nella ex Jugoslavia ed era disposto a qualsiasi concessione pur di ottenere la liberazione dei suoi caschi blu, in gran parte francesi, trasformati dai serbi in scudi umani. Mladic, in cambio del loro «rilascio», chiese la fine dei raid aerei della Nato; la ottenne e marciò su Srebrenica da cui il colonnello Thom Karremans, al comando del battaglione di caschi blu olandesi, l’11 luglio si ritirò chiudendo un occhio, anzi tutti e due, su quel che stava per accadere. Risultato una carneficina con un bilancio finale di ottomila morti. Per quella strage, pochi giorni fa, a fine novembre, Mladic è stato, giustamente, condannato all’ergastolo. Ma forse avrebbe dovuto essere sanzionato con un simbolico giorno di prigione anche qualcuno di coloro che consapevolmente gli consentirono di uccidere quelle migliaia di persone. Non tutti. Almeno uno.


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Provoking nuclear war by media

by John Pilger, 23 August 2016

The exoneration of a man accused of the worst of crimes, genocide, made no headlines. Neither the BBC nor CNN covered it. The Guardian allowed a brief commentary. Such a rare official admission was buried or suppressed, understandably. It would explain too much about how the rulers of the world rule.
The International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) in The Hague has quietly cleared the late Serbian president, Slobodan Milosevic, of war crimes committed during the 1992-95 Bosnian war, including the massacre at Srebrenica.
Far from conspiring with the convicted Bosnian-Serb leader Radovan Karadzic, Milosevic actually "condemned ethnic cleansing", opposed Karadzic and tried to stop the war that dismembered Yugoslavia. Buried near the end of a 2,590 page judgement on Karadzic last February, this truth further demolishes the propaganda that justified Nato's illegal onslaught on Serbia in 1999.
Milosevic died of a heart attack in 2006, alone in his cell in The Hague, during what amounted to a bogus trial by an American-invented "international tribunal". Denied heart surgery that might have saved his life, his condition worsened and was monitored and kept secret by US officials, as WikiLeaks has since revealed.
Milosevic was the victim of war propaganda that today runs like a torrent across our screens and newspapers and beckons great danger for us all. He was the prototype demon, vilified by the western media as the "butcher of the Balkans" who was responsible for "genocide", especially in the secessionist Yugoslav province of Kosovo. Prime Minister Tony Blair said so, invoked the Holocaust and demanded action against "this new Hitler". David Scheffer, the US ambassador-at-large for war crimes [sic], declared that as many as "225,000 ethnic Albanian men aged between 14 and 59" may have been murdered by Milosevic's forces.
This was the justification for Nato's bombing, led by Bill Clinton and Blair, that killed hundreds of civilians in hospitals, schools, churches, parks and television studios and destroyed Serbia's economic infrastructure.  It was blatantly ideological; at a notorious "peace conference" in Rambouillet in France, Milosevic was confronted by Madeleine Albright, the US secretary of state, who was to achieve infamy with her remark that the deaths of half a million Iraqi children were "worth it".
Albright delivered an "offer" to Milosevic that no national leader could accept. Unless he agreed to the foreign military occupation of his country, with the occupying forces "outside the legal process", and to the imposition of a neo-liberal "free market", Serbia would be bombed. This was contained in an "Appendix B", which the media failed to read or suppressed.. The aim was to crush Europe's last independent "socialist" state.
Once Nato began bombing, there was a stampede of Kosovar refugees "fleeing a holocaust". When it was over, international police teams descended on Kosovo to exhume the victims of the "holocaust". The FBI failed to find a single mass grave and went home. The Spanish forensic team did the same, its leader angrily denouncing "a semantic pirouette by the war propaganda machines". The final count of the dead in Kosovo was 2,788. This included combatants on both sides and Serbs and Roma murdered by the pro-Nato Kosovo Liberation Front. There was no genocide. The Nato attack was both a fraud and a war crime.
All but a fraction of America's vaunted "precision guided" missiles hit not military but civilian targets, including the news studios of Radio Television Serbia in Belgrade. Sixteen people were killed, including cameramen, producers and a make-up artist. Blair described the dead, profanely, as part of Serbia's "command and control". In 2008, the prosecutor of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, Carla Del Ponte, revealed that she had been pressured not to investigate Nato's crimes.
This was the model for Washington's subsequent invasions of Afghanistan, Iraq, Libya and, by stealth, Syria. All qualify as "paramount crimes" under the Nuremberg standard; all depended on media propaganda. While tabloid journalism played its traditional part, it was serious, credible, often liberal journalism that was the most effective - the evangelical promotion of Blair and his wars by the Guardian, the incessant lies about Saddam Hussein's non-existent weapons of mass destruction in the Observer and the New York Times, and the unerring drumbeat of government propaganda by the BBC in the silence of its omissions.
At the height of the bombing, the BBC's Kirsty Wark interviewed General Wesley Clark, the Nato commander. The Serbian city of Nis had just been sprayed with American cluster bombs, killing women, old people and children in an open market and a hospital. Wark asked not a single question about this, or about any other civilian deaths. Others were more brazen. In February 2003, the day after Blair and Bush had set fire to Iraq, the BBC's political editor, Andrew Marr, stood in Downing Street and made what amounted to a victory speech.. He excitedly told his viewers that Blair had "said they would be able to take Baghdad without a bloodbath, and that in the end the Iraqis would be celebrating. And on both of those points he has been proved conclusively right." Today, with a million dead and a society in ruins, Marr's BBC interviews are recommended by the US embassy in London.
Marr's colleagues lined up to pronounce Blair "vindicated". The BBC's Washington correspondent, Matt Frei, said, "There's no doubt that the desire to bring good, to bring American values to the rest of the world, and especially to the Middle East ... is now increasingly tied up with military power." 
This obeisance to the United States and its collaborators as a benign force "bringing good" runs deep in western establishment journalism. It ensures that the present-day catastrophe in Syria is blamed exclusively on Bashar al-Assad, whom the West and Israel have long conspired to overthrow, not for any humanitarian concerns, but to consolidate Israel's aggressive power in the region. The jihadist forces unleashed and armed by the US, Britain, France, Turkey and their "coalition" proxies serve this end. It is they who dispense the propaganda and videos that becomes news in the US and Europe, and provide access to journalists and guarantee a one-sided "coverage" of Syria.
The city of Aleppo is in the news. Most readers and viewers will be unaware that the majority of the population of Aleppo lives in the government-controlled western part of the city. That they suffer daily artillery bombardment from western-sponsored al-Qaida is not news. On 21 July, French and American bombers attacked a government village in Aleppo province, killing up to 125 civilians. This was reported on page 22 of the Guardian; there were no photographs.
Having created and underwritten jihadism in Afghanistan in the 1980s as Operation Cyclone - a weapon to destroy the Soviet Union - the US is doing something similar in Syria. Like the Afghan Mujahideen, the Syrian "rebels" are America's and Britain's foot soldiers. Many fight for al-Qaida and its variants; some, like the Nusra Front, have rebranded themselves to comply with American sensitivities over 9/11. The CIA runs them, with difficulty, as it runs jihadists all over the world.
The immediate aim is to destroy the government in Damascus, which, according to the most credible poll (YouGov Siraj), the majority of Syrians support, or at least look to for protection, regardless of the barbarism in its shadows. The long-term aim is to deny Russia a key Middle Eastern ally as part of a Nato war of attrition against the Russian Federation that eventually destroys it.
The nuclear risk is obvious, though suppressed by the media across "the free world". The editorial writers of the Washington Post, having promoted the fiction of WMD in Iraq, demand that Obama attack Syria. Hillary Clinton, who publicly rejoiced at her executioner's role during the destruction of Libya, has repeatedly indicated that, as president, she will "go further" than Obama.
Gareth Porter, a samidzat journalist reporting from Washington, recently revealed the names of those likely to make up a Clinton cabinet, who plan an attack on Syria. All have belligerent cold war histories; the former CIA director, Leon Panetta, says that "the next president is gonna have to consider adding additional special forces on the ground".
What is most remarkable about the war propaganda now in floodtide is its patent absurdity and familiarity. I have been looking through archive film from Washington in the 1950s when diplomats, civil servants and journalists were witch-hunted and ruined by Senator Joe McCarthy for challenging the lies and paranoia about the Soviet Union and China.  Like a resurgent tumour, the anti-Russia cult has returned.
In Britain, the Guardian's Luke Harding leads his newspaper's Russia-haters in a stream of journalistic parodies that assign to Vladimir Putin every earthly iniquity.  When the Panama Papers leak was published, the front page said Putin, and there was a picture of Putin; never mind that Putin was not mentioned anywhere in the leaks.
Like Milosevic, Putin is Demon Number One. It was Putin who shot down a Malaysian airliner over Ukraine. Headline: "As far as I'm concerned, Putin killed my son." No evidence required. It was Putin who was responsible for Washington's documented (and paid for) overthrow of the elected government in Kiev in 2014. The subsequent terror campaign by fascist militias against the Russian-speaking population of Ukraine was the result of Putin's "aggression". Preventing Crimea from becoming a Nato missile base and protecting the mostly Russian population who had voted in a referendum to rejoin Russia - from which Crimea had been  annexed - were more examples of Putin's "aggression".  Smear by media inevitably becomes war by media. If war with Russia breaks out, by design or by accident, journalists will bear much of the responsibility.
In the US, the anti-Russia campaign has been elevated to virtual reality. The New York Times columnist Paul Krugman, an economist with a Nobel Prize, has called Donald Trump the "Siberian Candidate" because Trump is Putin's man, he says. Trump had dared to suggest, in a rare lucid moment, that war with Russia might be a bad idea. In fact, he has gone further and removed American arms shipments to Ukraine from the Republican platform. "Wouldn't it be great if we got along with Russia," he said.
This is why America's warmongering liberal establishment hates him. Trump's racism and ranting demagoguery have nothing to do with it. Bill and Hillary Clinton's record of racism and extremism can out-trump Trump's any day. (This week is the 20th anniversary of the Clinton welfare "reform" that launched a war on African-Americans). As for Obama: while American police gun down his fellow African-Americans the great hope in the White House has done nothing to protect them, nothing to relieve their impoverishment, while running four rapacious wars and an assassination campaign without precedent.
The CIA has demanded Trump is not elected. Pentagon generals have demanded he is not elected. The pro-war New York Times - taking a breather from its relentless low-rent Putin smears - demands that he is not elected. Something is up. These tribunes of "perpetual war" are terrified that the multi-billion-dollar business of war by which the United States maintains its dominance will be undermined if Trump does a deal with Putin, then with China's Xi Jinping. Their panic at the possibility of the world's great power talking peace - however unlikely - would be the blackest farce were the issues not so dire.
"Trump would have loved Stalin!" bellowed Vice-President Joe Biden at a rally for Hillary Clinton. With Clinton nodding, he shouted, "We never bow. We never bend. We never kneel. We never yield. We own the finish line. That's who we are. We are America!"
In Britain, Jeremy Corbyn has also excited hysteria from the war-makers in the Labour Party and from a media devoted to trashing him. Lord West, a former admiral and Labour minister, put it well. Corbyn was taking an "outrageous" anti-war position "because it gets the unthinking masses to vote for him".
In a debate with leadership challenger Owen Smith, Corbyn was asked by the moderator: "How would you act on a violation by Vladimir Putin of a fellow Nato state?" Corbyn replied: "You would want to avoid that happening in the first place. You would build up a good dialogue with Russia... We would try to introduce a de-militarisation of the borders between Russia, the Ukraine and the other countries on the border between Russia and Eastern Europe. What we cannot allow is a series of calamitous build-ups of troops on both sides which can only lead to great danger."
Pressed to say if he would authorise war against Russia "if you had to", Corbyn replied: "I don't wish to go to war - what I want to do is achieve a world that we don't need to go to war."
The line of questioning owes much to the rise of Britain's liberal war-makers. The Labour Party and the media have long offered them career opportunities.. For a while the moral tsunami of the great crime of Iraq left them floundering, their inversions of the truth a temporary embarrassment. Regardless of Chilcot and the mountain of incriminating facts, Blair remains their inspiration, because he was a "winner".
Dissenting journalism and scholarship have since been systematically banished or appropriated, and democratic ideas emptied and refilled with "identity politics" that confuse gender with feminism and public angst with liberation and wilfully ignore the state violence and weapons profiteering that destroys countless lives in faraway places, like Yemen and Syria, and beckon nuclear war in Europe and across the world.
The stirring of people of all ages around the spectacular rise of Jeremy Corbyn counters this to some extent. His life has been spent illuminating the horror of war. The problem for Corbyn and his supporters is the Labour Party. In America, the problem for the thousands of followers of Bernie Sanders was the Democratic Party, not to mention their ultimate betrayal by their great white hope. In the US, home of the great civil rights and anti-war movements, it is Black Lives Matter and the likes of Codepink that lay the roots of a modern version.
For only a movement that swells into every street and across borders and does not give up can stop the warmongers. Next year, it will be a century since Wilfred Owen wrote the following. Every journalist should read it and remember it...

 

If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues,
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
The old lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.

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Suđenje Draži Mihailoviću i ostalim kolaboracionistima za izdaju i ratne zločine trajalo je od 10. 6. do 15. 7. 1946. godine. Proces je vođen pred Vrhovnim sudom Federativne Narodne Republike Jugoslavije u Beogradu. Glavni dokazi protiv Mihailovića bili su originalni dokumenti iz zapljenjene četničke arhive, kao i iz okupatorskih arhiva. Tokom suđenja, Mihailović je priznao da su njegovi komandanti sarađivali sa okupatorom, ali se branio da su to činili na svoju ruku... (Izvor)

(français /srpskohrvatski / english / italiano)

La Prima Guerra Mondiale non finisce mai

1) Ж. Јовановић: На маргинама обележавања великог светског јубилеја
2) Malagurski: Francuska ponizila Srbiju, odgovorimo istinom! / France insulted Serbia, let's replay by telling the truth!
3) G. Fruscione: Se l’Europa umilia le vittime serbe della Grande Guerra


À lire aussi:

KOSOVO-FRANCE: LA PÈGRE INVITÉE PAR MACRON POUR COMMÉMORER LA "GRANDE GUERRE" ? (3 NOV. 2018, PAR STANTOR /  BLOG : INO-RADIO)
Les réseaux sociaux s'enflamment. Le drapeau de la République fantoche du Kosovo (abbr RFK) a été officiellement arboré à la cathédrale Notre-Dame de Paris peu avant les célébrations de la fin de la Grande Guerre. Macron a officiellement invité Hashim Thaçi, président de la RFK, à assister aux commémorations. Mais qui est donc Monsieur Thaçi ?

CÉRÉMONIES DU 11 NOVEMBRE : LA GROSSE COLÈRE DE LA SERBIE (CdB, 13 novembre 2018)
Cela ressemble fort à une erreur du protocole. Lors des cérémonies du 11 novembre à Paris, Aleksandar Vučić s’est retrouvé fort mal placé... Un « outrage » selon la Serbie, qui rappelle sa contribution essentielle à la Première Guerre mondiale et les très lourdes pertes alors subies...


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НА МАРГИНАМА ОБЕЛЕЖАВАЊА ВЕЛИКОГ СВЕТСКОГ ЈУБИЛЕЈА

понедељак, 05 новембар 2018

Сад је бар јасно да у Француској нема никакве разлике између државног и црквеног третмана гостију и њихових симбола током обележавања 100. годишњице победе у Великом рату. Црквене власти и «Нотр Дам» су потврдили да су само следили званичну листу позваних  страних гостију и протокол Јелисејске палате. «Лоптање» у међувремену, око тога ко је одлучио да се, поред српске и застава савезничких земаља, у Нотр Даму постави и застава илегалне, насилничке творевине на делу државне територије Србије, испало је као исказивање пријатељских обзира званичног Париза према Србији.
Француски председник Емануел Макрон, наравно, има права да позива у госте кога жели. На Србији је да сама оцени да ли је његов позив Председнику Србије израз истинског уважавања, с обзиром на чињенице и околности, или позив - из намере или непажње - садржи и дозу цинизма, лицемерја па чак и понижавања.

Присуство српског Председника на свечаности поводом 100-те годишњице победе у Првом светском рату у Паризу, уз исти третман српске и заставе тзв. „Републике Косово“, српског Председника и назови председника једне криминалне творевине, може се јавности представљати овако или онако, зависно од оријентације политичара или медија. Суштински посматрано, то би било пристајање на понижавање Србије и српске нације, непоштовање преко 1,200.000 српских жртава палих током одбране од агресора и окупатора Србије укључујући Косово и Метохију. 
Позивање и истоветан третман Председника Србије и њених вековних државних симбола као и назови председника једне незаконите, криминалне творевине и њених симбола на свечаности поводом 100 година од победе у Великом рату, представља ругање историји. Прихватање позива, у тим условима, и евентуални разговори Председника Србије и представника Приштине, значили би да Председник Србије, у име српског народа, потврђује исправност тезе домаћина да је представнику Приштине место управо међу 80  шефова држава и влада у тој јединственој прилици којом се обележава јубилеј једног од најважнијих догађаја у историји Европе. Да ли то српски народ, заиста, жели и није ли то саучествовање у покушају ревизије историје?
Покушаји релативизације указивањем на то да се застава и представници криминалне творевине појављују и на другим скуповима по Европи усмерени су да скрену пажњу са суштине и крајње неумесни. Политичке акробате европске елите производе масу догађања, али то не умањује изузетан историјски значај обележавања 100-годишњег јубилеја победе у Великом рату какав ових дана предстоји у Паризу. Ако о ичему, такви покушаји говоре о непрекидном снижавању нивоа поштовања јавности, здравог разума као и националног и државног достојанства.   

Прихватање разговора о питању будућности Покрајине Косова и Метохије са представником Приштине на маргинама скупа у Паризу, био би додатни знак мирења са понижавањем. 
Поставља се питање када је српска дипломатија сазнала да ће српска и застава тзв. «Републике Косово» имати исти третман на свечаностима у Паризу и да ће тамо присуствовати и представник Приштине и шта је тим поводом предузето да Париз преиспита те елементе програма који су Србији неприхватљиви те, ако је то учињено, какав је био одговор званичног Париза?
«Један на један» у тзв.. преговорима у Брислу, уз комесара ЕУ, није исто што «један на један» у Паризу где су шефови универзално признатих држава или влада, односно, чланица УН. Ако састајања и разговори у формату који је једној страни испоручивао концесије без преседана а другој наметао само обавезе, одрицања од сопственог Устава и понижавања уопште  имају смисла, онда свакако не може бити оправдања нити логички и морално одрживог објашњења да се они везују за тако узвишену прилику која се дешава само једном у 100 година и чији је основни смисао одавање почасти борцима палим за слободу од агресије и цивилним жртвама.
Повеља УН, резолуција СБ 1244 и Устав су стубови формата преговора који, иако несавршен, једини даје прилику за уравнотежене преговоре и долажење до одрживог решења. Бриселски формат чија је искључива улога заштита геополитичких интереса Запада, односно НАТО-а, непогрешиво води гомилању конфликтног потенцијала, са несагледивим последицама.
Чини се да се креатори концепта обележавања овог великог јубилеја, укључивањем Приштине, њених симбола и представника, нису одмакли од  стереотипа 90-тих година прошлог века и само-наметнуте перцепције о вечитој „српској кривици“ због чега и данас верују да Срби, „по дефолту“, морају прихватати сва понижења и све диктате?  

Зашто би се изостајање највишег представника Србије са свечаности која садржи елементе најгрубљег вређања националног и државног достојанства карактерисало као пут ка самоизолацији Србије, а не знак јасне мере самопоштовања? Зашто би то уопште била грешка Србије а не знак озбиљне декаденције моралних, политичких и цивилизацијских критеријума, као и одсуства визије домаћина који је чак није узео у обзир да ни 5 чланица ЕУ не признаје самопроглашену творевину на територији Покрајине Косово и Метохија? 
Реч је о ароганцији и притиску не само према Србији и српском народу већ и према Русији, Кини, Индији и многи другим земљама и нацијама растуће моћи које поштују основне норме међународних односа и одлуке СБ УН и које не прихватају преседане, једностране одлуке и било чији ексклузивитет. 
Срби пали током Првог светског рата, бранили су слободу Србије са Косовом и Метохијом у свом саставу. Како би они, или њихови потомци, данас примили вест да се током прославе поводом 100-те годишњице њихове победе састају Председник Србије и бивши командант терориста и сецесиониста, који је, уз друго, индициран као један од одговорних за етничко чишћење и злочине против Срба?    
Исти третман државни симбола и представника Србије која је дала 1,2 милиона живота за победу савезника у Првом светском рату, с једне стране, и симбола сецесионистичке творевине и бившег вође терориста, с друге, срамота је и симптом цивилизацијског посрнућа.

Изостајање Председника Србије због немирења са вређањем националног и државног достојанства, као и из пијетета према 1.200.000 српских жртава је начин да се Европи пошаље досад најозбиљнији сигнал да се Србија не мири са понижавањем својих бивших савезника и да не прихвата трговину Косовом и Метохијом?
Ваља размислити и о томе колико је Срба било на Косову и Метохији пре јуна 1914, ко је вршио њихово етничко чишћење, као и коју су улогу имали Албанаци са Косова и Метохије у победи савезника у Првом светском рату? Јер, ипак, реч је о обележавању великог јубилеја победе у Првом светском рату, а не о спорту, или климатског загревању.
Европи је катарза потребнија него Србији. Зарад њене сопствене будућности. Катастрофалне грешке које је учинила злочиначком агресијом против Србије 1999. и признавањем криминалне сецесије 2008. не може се оправдати или гурнути под тепих данас – као што нешто слично недавно изјави чешки председник Милош Земан.

Живадин Јовановић


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Da: "Boris Malagurski" <boris  @weightofchains.com>
Oggetto: Malagurski: Francuska ponizila Srbiju, odgovorimo istinom!
Data: 12 novembre 2018 20:23:12 CET
A: Jugocoord

Dragi prijatelji,
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Francuska je najgnusnije ponizila Srbiju. Iako su u Prvom svetskom ratu kosovski Albanci mahom dočekali austrougarske i bugarske okupatore kao “oslobodioce”, na obeležavanju Dana primirja u Parizu je predsednik tzv. “Republike Kosovo” dobio mesto u drugom redu, a njihova kvazi-zastava se vijorila u katedrali Notr Dam. Predsednik Srbije nije dobio mesto ni na istom podijumu gde su bili lideri vodećih zemalja pobednica u ratu.
Bez obzira kojeg ste političkog opredeljenja, ovo je veliki šamar za Srbiju, poniženje bez opravdanja. Srbija je pobedila u Prvom svetskom ratu, izgubila je 28% stanovništva (veći procenat od svih drugih), preko 60% muške populacije i oslobodila svoju teritoriju od okupatora. Naši preci su ginuli za slobodu i vreme je da im se odužimo odbranom istine. Ovo je moj skroman doprinos borbi protiv falsifikovanja istorije:

Malagurski: Evo kako fabrikuju istoriju! (Sputnjik Srbija, 9 nov 2018)

Pozivam vas da date doprinos podrškom filma “Težina lanaca 3” (reklama), u kojem ćemo pokazati šta su NATO države Francuska, SAD, Nemačka i druge učinile Srbiji od 1999. na ovamo, tj. na koji način su nam se ‘zahvalili’ za sav doprinos koji smo dali u odbrani slobode na evropskom kontinentu. Na njihove laži, kroz film odgovaramo istinom! (...)

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Dear friends,
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France has insulted Serbia in the worst possible way. Despite the fact that in WWI Kosovo Albanians largely welcomed the Austro-Hungarian and Bulgarian occupiers as "liberators", the president of the so-called "Republic of Kosovo" was seated in the 2nd row at the commemoration ceremony in Paris, while their quasi-flag was flown at Notre-Dame cathedral. Serbia's president wasn't even seated at the same podium where the leaders of the main winning nations were seated.
No matter what your political views are, this is a huge slap in the face for Serbia, an insult without justification. Serbia won WWI, lost 28% of its population(the largest percentage of all nations), over 60% of its male population and liberated its territory from occupiers. Our ancestors died for freedom and it's time we give thanks by defending the truth! This is my humble contribution to the struggle against the fabrication of history:

Malagurski: Evo kako fabrikuju istoriju! (Sputnjik Srbija, 9 nov 2018)

I call on you to give your contribution by supporting the film "The Weight of Chains 3" (teaser), in which we'll present what NATO countries such as France, the US, Germany and others did to Serbia from 1999 until today, i.e. show how they've "thanked" us for defending freedom on the European continent. Our answer for their lies - is the truth! (...)


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Se l’Europa umilia le vittime serbe della Grande Guerra

di Giorgio Fruscione, 22.11.2018

Da BELGRADO – Lo scorso 11 novembre è ricorso il centenario della fine della Prima guerra mondiale. Oltre 80 capi di stato si sono recati a Parigi per celebrare la firma dell’armistizio che mise fine a quella nefandezza che uccise oltre quindici milioni di giovani europei. Eppure, anche questa volta, l’Europa si è dimenticata dei Balcani e quello che sembra un apparente errore di protocollo si è tradotto in un’offesa per la storia della Serbia e il suo sacrificio nella Grande Guerra.

Sul palco installato sotto il maestoso arco di trionfo parigino, il presidente della Serbia Aleksandar Vucic è stato relegato in una posizione marginale, in seconda fila, dirimpetto ad Emmanuel Macron, Donald Trump e Vladimir Putin, rappresentanti delle forze vincitrici della guerra. A indispettirlo davvero, però, il fatto che il presidente del Kosovo Hashim Thaci sedesse proprio dietro i presidenti di Russia e Francia. Nonché la posizione della presidente della Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic: in prima fila, spalla a spalla coi grandi del mondo.
Per Vucic – alchimista abile a trasformare il suo carisma internazionale in sostegno interno presentandosi come uomo della provvidenza – è stato un vero smacco. Oltre il danno la beffa, vien da dire.

L’importante è partecipare?

No, l’importante non è partecipare, ma ricordare. Ancora una volta, l’Europa, attraverso i suoi leader, dà l’impressione di non essere in grado di scindere la storia dalla politica. “Thaci aveva una posizione migliore della nostra. La posizione della presidente della Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic qualcuno la motiverebbe con l’ordine alfabetico. Io non l’ho capito. Non voglio esporre i miei dubbi. Se mi chiedete se questo sia l’attuale rapporto di forze, no, non lo è”, ha dichiarato Vucic in conferenza stampa dopo la cerimonia. Eppure il dubbio resta.
Senz’altro, è chiaro che in Europa non si riesce a fare una cerimonia di ricordo senza darle una contestualizzazione con la politica odierna. E questo fa male alla memoria storica. La Serbia è stato il paese che più di tutti soffrì la Prima guerra mondiale. Si stima che i morti furono oltre un milione, di cui più dei due terzi civili, ovvero quasi il 30% della popolazione, il 60% degli uomini del paese, e più di un milione e duecentomila i feriti.

Inoltre, è in Serbia che cominciò la guerra, dopo un ultimatum di 48 ore di Vienna che non lascia dubbi su chi volesse annientare chi. E’ in Serbia – sul monte Cer e sul fiume Kolubara – che l’eroica resistenza serba, nonostante la netta inferiorità numerica, mostrò agli alleati che era possibile vincere le potenze centrali. Ed è soprattutto grazie alle truppe serbe se nel 1918 fu possibile sconfiggere gli eserciti dell’intesa grazie allo sfondamento del fronte macedone, portato avanti insieme ai generali francesi Franchet d’Esperey, Adolphe Guillaumat e Maurice Sarrail. E quindi perché la Francia di Emmanuel Macron mette Vucic in seconda fila, ovvero in secondo piano?

Memoria politica

Il dovere di ricordare il sacrificio della Serbia non ha nulla a che fare con le sue rivendicazioni nazionali, passate o presenti. Citare l’insoddisfazione di Vucic non significa in alcun modo fare eco alle sue politiche. La maggior visibilità di Croazia e Kosovo rispetto alla Serbia è poco rispettoso solo della storia, non dell’odierna sovranità di Zagabria e Pristina. Ed è un fatto storico, piaccia o meno, che la Croazia nel 1914 non esisteva come stato indipendente ma come provincia di quell’impero che iniziò la guerra, mentre il Kosovo era parte della stessa Serbia.
L’errore di protocollo, o peggio sciatteria, degli organizzatori del centenario purtroppo va a rafforzare quelle teorie del complotto che nella Serbia di Vucic sono sempre di moda. E sono errori che paga tutta l’Europa. Il palco installato sotto l’arco che celebra le vittorie di Napoleone rappresenta infatti la nostra memoria; l’ordine delle sue file il posto occupato dai nostri ricordi. E il messaggio trasmesso, più o meno involontariamente, è che oggi Croazia e Kosovo sono più importanti della Serbia, a prescindere dagli eventi storici. Forse perché si ritiene che Croazia e Kosovo siano più capaci della Serbia nel mantenere oggi quella pace conquistata cent’anni fa?

Chi scrive non ha alcun interesse a rivendicare la supremazia della Serbia, piuttosto la volontà di preservare una memoria che non sia ostaggio di convenienze politiche, giochi di potere e interessi di parte.
Cent’anni fa l’Europa ripartì con quei “quattordici punti” che vollero restituire centralità alle nazioni per secoli dominate da potenze straniere. Dimenticarci oggi di quella centralità è un errore grave che il nostro continente ha già commesso, garantirle il giusto spazio nella nostra memoria europea è invece un obbligo morale..




(italiano / srpskohrvatski / english)


Resolution 1244, Key to Peace in Europe / 
Kosovo. Risoluzione 1244. Una chiave per la pace in Europa 


Nova knjiga Zivadina Jovanovića:
1244 КЉУЧ МИРА У ЕВРОПИ [1244 – LA CHIAVE DELLA PACE IN EUROPA]
Beograd: Ed. Beogradski Forum za Svet Ravnopravnih / Srpska Knjizevna Zadruga, 2018

La copertina del libro / Наслов књиге: http://www.beoforum.rs/images/pdftojpg-me-1.jpg


PROMOCIJA KNjIGE ŽIVADINA JOVANOVIĆA: Najsnažniji argument Srbije za KiM je „Rezolucija 1244“ (уторак, 20 новембар 2018)
Bivši šef diplomatije Živadin Jovanović promovisao knjigu u Novom Sadu. Predaja Kosova i Metohije značila bi pripremu terena za nove zahteve teritorija koje Srbiji pripadaju – poručio Jovanović...

Одржана промоција књиге Живадина Јовановића „1244 – кључ мира у Европи“ (уторак, 20 новембар 2018)
У понедељак, 19. новембра у клубу „Трибина младих“ Културног центра Новог Сада, представљена је књига  „1244 – кључ мира у Европи“ некадашњег министра иностраних послова СРЈ Живадина Јовановића. Поред аутора, о књизи су говорили: Драган Лакићевић, директор Српске књижевне задруге, Чедомир Штрбац, дипломата, и Милорад Вукашиновић, новинар и публициста...

Rezolucija 1244 kljuc mira na Balkanu / Zapad je hteo rat ne Balkanci (TV Happy 10.10.2018)
Gost: Živadin Jovanović - Nekadašnji ministar spoljnih poslova

Интервју са Живадином Јовановићем. аутором књиге: "1244 КЉУЧ МИРА У ЕВРОПИ"
VIDEO: https://www.facebook.com/237292086351340/videos/1903920453033752/

Вест о промоцији књиге су пренеле НОВОСТИ: http://www.beoforum.rs/images/pdftojpg-me-1-1-.jpg

ДОСЛЕДНОСТ У ОДБРАНИ ИНТЕРЕСА СРБИЈЕ
Реч амбасадора Драгомира Вучићевића на промоцији књиге „1244 – кључ мира у Европи“ 28. септембра 2018. у СКЗ


Isto pročitaj:

Зашто је азијском џину најважнији партнер Европе — малена Србија (видео) (уторак, 18 септембар 2018)
„Посета председника Вучића Кини и потписивање нових уговора доприносе јачању међународне позиције Србије. Није чест случај да овако мала земља има такву сарадњу и политичке контакте са Кином, то значи да јача и позиција Србије у преговорима о решавању статуса Косова и Метохије“, кажу саговорници емисије „На нишану Лазанског“...
Srbija na „istočnom Davosu“ | Na nišanu Lazanskog (Sputnjik Srbija, 17 set 2018)
Gosti Miroslava Lazanskog su Živadin Jovanović, bivši ministar spoljnih poslova SRJ i novinar, dugogodišnji dopisnik iz Amerike, Indije i Japana Milan Mišić....

Интервју Живадина Јовановића за магазин "Одбрана" (1.11.2018.)
http://www.beoforum.rs/komentari-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/962-zivadin-jovanovic-intervju-odbrana.html


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ORIG.: НОВА КЊИГА ЖИВАДИНА ЈОВАНОВИЋА - 1244 КЉУЧ МИРА У ЕВРОПИ (30 септембар 2018)

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Kosovo. Risoluzione 1244. Una chiave per la pace in Europa

La più antica casa editrice serba, la Cooperativa letterari, ha di recente stamapato il libro “1244. Una chiave per la pace in Europa”, di Zivadin Jovanovic, ex ministro degli esteri della Yugoslavia (1998-2000). Il libro è stato presentato al pubblico e ai media da Dragan Lakicevic, direttore della Cooperativa, dal prof. Milo Lompare dall’ambasciatore in pensione Dragomir Vucievic e dall’autore.

Si tratta di una raccolta di articoli, interviste e discorsi in pubblico dell’autore, riguardo alla provincia autonoma serba del Kosovo e Metohija, pubblicati negli ultimi 20 anni (dal 1997 fino al settembre 2018). Le 890 pagine del libro sono suddivise in 5 capitoli: Il Tempo del Terrorismo, Il Tempo dell’Aggressione, Il Tempo delle Illusioni, Il Tempo del Risveglio e I Documenti.”.

I revisori sono stati l’accademico Vlado Strugar, il prof. dott. Milo Lompar, il prof. Cedomir Strbac e i redattori l’ambasciatore (in pensione) Dragomir Vucicevic e lo scrittore Dragan Lakicevic. Gli editori: il Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali e la Cooperativa letteraria serba.

Secondo il prof. Lompar il libro riflette la continuità delle opinioni dell’autore sullo Stato e gli interessi nazionali della Serbia e del popolo serbo, chiaramente riconoscibili nella sua pluridecennale carriera in diplomazia e nei suoi impegni pubblici. L’impegno incessante dell’autore nel sostegno del totale rispetto dei principi fondamentali del Diritto internazionale e della risoluzione 1244[1] del Consiglio di sicurezza, nel risolvere il problema della provincia serba del Kosovo e Metohija riflette la sua comprensione dell’importanza attuale e a lungo termine del Kosovo e Metohija non solo per la Serbia e il popolo serbo, ma anche per la pace e la stabilità nei Balcani e in Europa.

Il prof. Lompar fa rilevare che con oltre 1.300 monumenti medievali serbi, sede del Patriarcato serbo ortodosso, la provincia del Kosovo e Metohija è profondamente intrecciata all’identità statale, nazionale, culturale e religiosa serba. E conclude affermando che il libro di Zivadin Jovanovic riafferma le radici dello Stato e la tradizione della nazione serba ristabilita nel XIX secolo, come pure il diritto all’uguaglianza e all’autogoverno di tutti i cittadini e comunità nazionali della provincia indipendentemente dalla loro nazionalità e religione. Lompar loda in particolare il grande valore documentario del libro come suo aspetto principale.

Parlando degli argomenti chiave dell’autore l’ambasciatore Vucicevic sottolinea la necessità che la Serbia rivolga maggior attenzione a se stessa e ai propri interessi a lungo termine, e in grado minore invece alle attuali aspettative di una certa cricca internazionale che, nella sua collocazione nei riguardi della Serbia, è guidata unicamente dai propri interessi geopolitici. La Serbia dovrebbe basarsi sui principi fondamentali della legge internazionale e sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, indipendentemente da chi trovi questo giusto o meno, e sviluppare rapporti equilibrati con tutti gli attori internazionali, in particolare con amici fidati di vecchia data che non hanno preso parte all’aggressione NATO e non hanno riconosciuto la successiva, illegale e unilaterale secessione. Vucicevic ha sottolineato la tesi dell’autore secondo cui la Serbia ha bisogno dell’Unione europea solo nella misura in cui l’Unione europea ha bisogno della Serbia, e che entrare nell’Unione come membro è un traguardo legittimo se non è condizionato dall’imposizione di rinunciare alla sovranità e all’integrità territoriale serba. Una soluzione equa e durevole per il Kosovo e Metohija, ammonisce Vucicevic. è possibile solo sulla base del rispetto dei principi espressi nella carta della UE, nell’Atto finale OSCE (1975), nella Risoluzione del CS ONU 1244 (1999) e nella Costituzione della Serbia. Tentativi di imporre alla Serbia soluzioni che legalizzino violazioni dei principi basilari della legge internazionale e della Cooperazione e Sicurezza europea, come pure delle risoluzioni del CS dell’ONU, aprirebbero la via al diffondersi dell’instabilità e all’escalation del potenziale di conflitto nei Balcani e in Europa.

L’autore Z. Jovanovic ha ricordato che la Risoluzione 1244 è stata il risultato di due mesi di negoziati estremamente difficili,  con la mediazione russa e mentre l’aggressione NATO era in corso. Secondo lui è assai improbabile che gli odierni ristretti negoziati di Bruxelles possano produrre una soluzione equilibrata, giusta e sostenibile per il problema del Kosovo e Metohija. Se l’Occidente non fu in grado di porre fine alla guerra della NATO nel 1999 senza il ruolo chiave della Russia (Victor Chernomirdin) quanto è realistico ora, vent’anni dopo, risolvere la questione dello status del Kosovo e Metohija, che è la conseguenza principale di quella guerra, tenendo la Russia al di fuori dell’intero processo? Forse che la Russia di Putin è oggi meno rilevante, meno capace di soluzioni pacifiche ai problemi internazionali, incluso quello dal Kosovo e Metohija? O per metterla in modo diverso, forse che l’Occidente è oggi più forte e dominante nell’arena globale ed europea di quanto non fosse nel 1999? Jovanovic aggiunge che la Risoluzione 1244 del 1999 comprende le posizioni e gli interessi di tutti i principali attori nelle relazioni europee e globali, incluse Russia e Cina. Ammesso che ciò fosse vero nel 1999, al picco del dominio dell’ordine mondiale unipolare, ne consegue che oggi, sullo sfondo di rapporti globali multipolari, ciò è non meno che imperativo. La proposta di risolverlo all’interno di una modalità solo europea rivela l’intenzione di escludere la Russia e la Cina e di ricorrere al ricatto per imporre gli interessi geopolitici dell’Occidente, cioè, della UE e della NATO. Accettare questi tentativi andrebbe contro le tendenze globali e risulterebbe in ulteriore destabilizzazione dei rapporti nei Balcani e in Europa invece che giungere a una soluzione equilibrata e sostenibile.

Jovanovic ha anche ricordato il prossimo 80° anniversario dell’Accordo di Monaco sui Sudeti, concluso per ‘proteggere’ i diritti della minoranza nazionale tedesca e ‘salvare’ la pace in Europa. Tutti sappiamo, ha ammonito Jovanovic, chi prese parte a questo accordo e chi fu intenzionalmente escluso, e quale fu il risultato di questo ‘accordo legalmente vincolante’ del 30 settembre 1938.

Traduzione di Claudia B. per Forum Belgrado Italia/CIVG

 


[1] Questa risoluzione che, adottata al Consiglio di sicurezza il 19 giugno 1999 pose fine all’aggressione NATO alla Serbia (FRY) durata 78 giorni, garantisce la sovranità e l’integrità territoriale della Serbia e la sostanziale autonomia per la provincia del Kosovo e Metohija all’interno della Serbia (FRY). Ciò nonostante, la leadership della provincia ha proclamato unilateralmente la secessione dalla Serbia nel 2008, che venne riconosciuta dai membri della NATO e della UE,  a parte la Spagna, la Romania, la Slovacchia, la Grecia e Cipro


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1244 - A KEY TO PEACE IN EUROPE

Defending Serbia’s Right to the Province of Kosovo and Metohija


Thursday, 25 October 2018

The oldest Serbian Publishing House - Serbian Literary Cooperative – has recently promoted the book “1244 – A Key to Peace in Europe”, authored by Živadin Jovanović, a former foreign minister of Yugoslavia (1998–2000). The book was presented to the audience and the media by Mr. Dragan Lakićević, Editor-in-Chief of the Serbian Literary Cooperative, Prof. Milo Lompar, Ambassador Dragomir Vučićević (retired), and Author.

The book is a collection of the author’s articles, interviews and public speeches related to the Autonomous Serbian Province of Kosovo and Metohija which have been published of the past 20 years (from 1997 through September 2018. The book (890 pages) comprises 5 Chapters: The Time of Terrorism, The Time of Aggression, The Time of Illusions, The Time of Waking up, and The Documents.  The reviewers are Academician Vlado Strugar, Prof.. Dr. Milo Lompar, and Prof. Čedomir Štrbac and the editors Ambassador Dragomir Vučićević (retired) and the writer Dragan Lakićević. The publishers: The Belgrade Forum for a World of Equals, and the Serbian Literary Cooperative.

According to Professor Milo Lompar the book reflects continuity of the author’s views on statehood and national interests of Serbia and the Serbian people, readily recognizable in his decades-long career in diplomacy and in his public engagements. Author’s continuous advocacy for the full respect of the basic International Law Principles and UN Security Council Resolution 1244 in resolving the problem of the Serbian Province of Kosovo and Metohija reflects both – his understanding of the long-term and current importance of Kosovo and Metohija, not only for Serbia and the Serbian people, but also for the peace and stability in the Balkans and Europe. With over 1.300 Serbian medieval monuments, headquarters of the Serbian Orthodox Church Patriarchy - Kosovo and Metohija is deeply interwoven in the state, national, cultural and religious identity – considers professor Lompar. He concluded that the book of Mr. Živadin Jovanović reaffirms the statehood roots and tradition of the Serbian nation re-established in XIX century as well as the right to equality and self governance of all citizens and national communities living in the Province regardless of their nationality or religion. He particularly  praised high documentary value of the book as its special feature.

Speaking about the author’s key theses, Ambassador Dragomir Vučićević singled out the need for Serbia to dedicate much more reflection on herself and her long-term interests, and to a lesser extent on the current expectations by the international stakeholders, since the latter, in their positioning vis-à-vis Serbia, are guided solely by their own geopolitical interests. Serbia should adhere to the fundamental principles of the international law and the UN SC resolutions, regardless of who may or may not find it suitable, and develop balanced relations with all international actors, particularly with proven, long term friends who did not partake in NATO aggression and have not recognized the ensuing illegal, unilateral secession. Vučićević also highlighted the author’s thesis that Serbia needs the European Union only to the extent the European Union needs Serbia, and that EU membership is a legitimate goal insofar it is not conditioned by surrendering her sovereignty and territorial integrity. A just and durable solution for Kosovo and Metohija is only possible on the basis of observing the principles enshrined in the UN Charter, the OSCE Final Act (1975), UNSC Resolution 1244 (1999) and the Constitution of Serbia. Attempts to impose on Serbia solutions which legalize violations of the basic principles of International Law and of European Security and Cooperation as well as UN SC resolutions would pave the way to the spreading of instability and the build-up of conflict potential in the Balkans and in Europe – warned Vučićević.

The author recalled that UN SC Resolution 1244 (1999) was the outcome of extremely difficult two-month negotiations under Russian mediation, while the NATO aggression was unfolding. According to him, it is quite improbable that present day narrow and closed Brussels’ negotiations format would produce balanced, just, and sustainable solution to Kosovo and Metohija problem. If the West was unable to end the NATO War in 1999 without the key role of Russia (Victor Chernomirdin) how realistic is now, 20 years after, to resolve the issue of the status of Kosovo and Metohija being the main consequence of that war, keeping Russia outside of the whole process! Is Russia of Putin today less relevant, less capacitated for peaceful solution of international problems, including problem of Kosovo and Metohija?! Or to put it differently,  is the West stronger, dominant player in the global and European arena today than it was in 1999!?  Jovanovic added that UN SC Resolution 1244 (1999) comprises the positions and interests of all key actors in European and global relations, Russia and China included. Taking that this was true back in 1999 -- at the peak of dominance of the unipolar world order – it follows that today, under the backdrop of multipolar global relations, this is no less than imperative. A bid to resolve it within an EU-only format reveals intention to exclude Russia and China and to resort to blackmailing in order to impose geopolitical interests of the West, namely, the EU and NATO. Acceptance of such attempts would go against the global trends, and would result in further destabilization of relations in the Balkans and in Europe rather than in introducing a balanced and sustainable solution. 
Jovanović recalled of the coming 80th anniversary of the Munich Agreement on Sudetenland ostensibly to ‘protect’ the rights of the German national minority and ‘save’ the peace in Europe. We all know who took part in, and who was intentionally excluded from, this ‘agreeing’ and what was the outcome of this ‘comprehensive legally binding agreement’ of 30 September 1938 – warned Jovanović.





Mussolini il criminale e i Balcani

di Davide Conti, 20.11.2018

Un programma razzista, liberticida e dittatoriale fin dagli anni 20. Le sanguinarie imprese del fascismo in Jugoslavia, Albania, Grecia. Il duce: “Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali”


Il fascismo non aspettò di certo la metà degli anni trenta (ovvero l’occupazione dell’Etiopia del 1936 e le leggi razziali del 1938) per manifestare il proprio intrinseco e costituente carattere razzista, liberticida e dittatoriale. Mussolini esplicitò fin dalle origini il suo «programma criminale» impegnando se stesso e poi il regime da lui guidato al mantenimento delle «promesse» lungo l’intero arco temporale del ventennio fascista, conformando la struttura identitaria della dittatura italiana a quelle linee programmatiche.
In questo articolo, in una misura necessariamente sintetica, indicheremo alcuni esempi della corrispondenza tra la verbale propaganda razzista del fascismo delle origini e le sue fattuali conseguenze una volta instaurata la dittatura sulle popolazioni civili dei Balcani.
Jugoslavia
Una particolare attenzione venne riservata dalle camice nere alla regione dei Balcani, destinata a divenire il principale campo di battaglia dell’imperialismo fascista in Europa.
Lo squadrismo riuscì a presentarsi fin dall’inizio degli anni 20 come elemento di sintesi delle istanze antislave (sul piano nazionalista) e anticomuniste (sul piano politico-sociale) dando rappresentanza a settori non marginali della società civile italiana che andavano dalla piccola e media borghesia alla proprietà terriera fino ai militari.
In questo quadro di embrionale manifestazione del fascismo Mussolini, a proposito della regione di confine con la Jugoslavia, poteva già scrivere nel 1920 sul «Popolo d’Italia»: «In altre plaghe d’Italia i fasci di combattimento sono appena una promessa, nella Venezia-Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica».
Il fascismo triestino ed istriano accanto alla lotta contro il sovversivismo sociale nelle terre della Venezia-Giulia sperimentò quel fascismo di frontiera che tra il 1920 ed il 1922 intensificò la propria azione violenta in tutta la regione sotto la guida di Francesco Giunta, a Trieste, e di Luigi Bilucaglia. All’attivismo anti-operaio promosso durante gli scioperi, in particolare a Pola, si associò una politica di provocazione e scontro con i gruppi croati fin dall’estate del 1920.
Il consenso ed il consolidamento politico dello squadrismo si manifestò quando Mussolini espresse le linee politiche anti-socialiste ed anti-slave del programma del fascismo nel suo intervento del 22 settembre 1920 a Pola: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone […] i confini dell’Italia devono essere: il Brennero, il Nevoso e le Dinariche […] io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani» .[1]
Nel pieno della guerra di aggressione alla Jugoslavia e della pianificazione del controllo territoriale delle regioni balcaniche occupate, Mussolini, il 31 luglio 1942 a Gorizia, indicò ai generali Ugo Cavallero, Mario Roatta e Vittorio Ambrosio la linea di condotta che le truppe italiane avrebbero dovuto seguire:
«Sono convinto che al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre […] come avete detto è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto […] questa popolazione non ci amerà mai […] il ritmo delle operazioni deve essere sollecitato […] l’aviazione ha qui un compito abbastanza importante. 
Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze, così come non mi preoccupo dell’università che sarà un focolaio contro di noi. Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazione». [2]

Queste direttive politiche furono tradotte in termini operativi dai vertici del regio esercito rispetto al modus operandi delle truppe italiane impiegate nella controguerriglia anti-partigiana e nella repressione della popolazione civile.
Nel quadro di questa logica consequenziale i comandi militari dell’esercito mostrarono la propria corrispondenza agli ordini del duce attraverso la realizzazione di operazioni come quelle effettuate nella cittadina di Podhum attaccata il 12 luglio 1942 (91 uomini tra i 16 ed i 64 anni fucilati sul posto e altre 800 persone deportate) o nei villaggi di Zamet e nella zona di Danilovgrad che vennero rastrellati e rasi al suolo nell’agosto 1942 con l’approvazione di Mussolini.
Cicli operativi di questo tipo rientravano nella strategia di sostituzione della popolazione finalizzata ad uniformare confini politici e razziali nell’ambito del più generale progetto di snazionalizzazione:
«Il Duce ha approvato le modalità esecutive delle operazioni […]; abbiamo adottato il provvedimento successivo di sgomberare tutti gli uomini validi ad Arbe. Non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue […] quindi sgombero TOTALITARIO […] resta inteso che il provvedimento dell’internamento non elimina il provvedimento di fucilare tutti gli elementi colpevoli o sospetti di attività comunista.  Non limitarsi negli internamenti.  Le autorità superiori non sono aliene dall’internare tutti gli sloveni e mettere al loro posto gli italiani (famiglie dei caduti e dei feriti italiani). In altre parole far coincidere i confini razziali con quelli politici». [3]

D’altro canto la declinazione fascista di confini territoriali e confini razziali era stata sin dall’inizio della guerra una delle chiavi di lettura della misura imperialista del regime.
Mussolini il 10 giugno 1940 in un discorso tenuto alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni aveva affermato: «Noi avremmo potuto, volendo, spingere i nostri confini dai Velibiti alle Alpi albanesi ma avremmo, a mio avviso, commesso un errore […]; avremmo portato entro le nostre frontiere parecchie centinaia di migliaia di elementi allogeni, naturalmente ostili […]; gli Stati che si caricano di troppi elementi alloglotti hanno una vita travagliata […]; bisogna adottare verso di essi un trattamento speciale […]; quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali». [4]
Di fronte alla Resistenza jugoslava ed alla rivolta antifascista nella regione del Montenegro Mussolini cercò di ripristinare l’ordine fascista sul territorio inviandovi il generale di Corpo d’Armata Alessandro Pirzio Biroli che diverrà governatore del Montenegro e che al termine della guerra sarà iscritto nelle liste delle Nazioni Unite dei «presunti» criminali di guerra italiani in ragione delle misure di repressione operate contro la popolazione civile jugoslava:
«Recatevi a Cettigne per dirigere sul posto operazioni di questa che ormai è una guerra ed insieme ai poteri militari assumete quelli civili. F. to Mussolini». [5]
Al termine della guerra i danni complessivi denunciati dalla Jugoslavia alla Conferenza per le riparazioni di Parigi ammontarono a 9 miliardi e 145 milioni di dollari di danni materiali e 1.706.000 morti, pari al 10,8% della popolazione totale. Di questi, la stragrande maggioranza era rappresentata da vittime civili giacché, secondo le stime ufficiali jugoslave le perdite tra i combattenti inquadrati nelle formazioni partigiane E.P.L. e D.P.J. ammontarono complessivamente a 306.000 uomini. Queste cifre vennero integrate dai dati dei reduci dei campi di concentramento in Jugoslavia e Italia, dalla distruzione del 25% degli abitati e dai danni arrecati dagli occupanti ai rami dell’industria, dell’agricoltura dei trasporti e delle materie prime.
L’Italia a conclusione dei trattati di Parigi venne condannata a pagare alla Jugoslavia, a titolo di riparazione, 125 milioni di dollari. [6]

Albania
Nella riunione del 13 aprile 1939 del Gran Consiglio del Fascismo Mussolini affermò: «L’Albania è la Boemia dei Balcani, chi ha in mano l’Albania ha in mano la regione balcanica. L’Albania è una costante geografica dell’Italia. Ci assicura il controllo dell’Adriatico […] nell’Adriatico non entra più nessuno […] abbiamo allargato le sbarre del carcere del Mediterraneo». [7]
Il 7 aprile 1939 l’Albania venne occupata dalle truppe militari del regio esercito.
Nel corso della guerra la Resistenza albanese rappresentò il principale elemento politico di contrasto all’invasore fascista e per questo le misure di repressione territoriale assunsero un carattere uniforme a quello presente nel resto dei alcani occupati.
Il 14 luglio 1943 venne realizzata, dal regio esercito, un imponente operazione militare antipartigiana nei villaggi intorno a Mallakasha ed al termine di quattro giorni di combattimento, in cui vennero usati artiglieria pesante ed aviazione, tutti gli 80 villaggi della zona vennero rasi al suolo causando la morte di centinaia di civili.
Al termine della guerra l’eccidio di Mallakasha venne simbolicamente ricordato dalle autorità albanesi come la “Marzabotto albanese” ponendo in relazione i brutali metodi dell’occupazione tedesca in Italia e quelli fascisti in Albania.
Grecia
Nella riunione del 15 ottobre 1940 tenutasi a Palazzo Venezia Mussolini, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Mario Roatta, Soddu, Francesco Jacomoni e Visconti Prasca discussero della strategia che l’Italia avrebbe dovuto adottare per invadere la Grecia. Nei suoi interventi Mussolini non lasciò adito a dubbi sull’azione da intraprendere: «Lo scopo di questa riunione è quello di definire le modalità dell’azione – nel suo carattere generale – che ho deciso di iniziare contro la Grecia […] questa è un’azione che ho maturato lungamente da mesi e mesi; prima della nostra partecipazione alla guerra ed anche prima dell’inizio de conflitto[…] Fissata la data si tratta di sapere come diamo la parvenza della fatalità di questa nostra operazione. Una giustificazione di carattere generale è che la Grecia è alleata dei nostri nemici […] ma poi ci vuole l’incidente per il quale si possa dire che noi entriamo per mettere l’ordine. Se questo incidente lo fate sorgere è bene, se non lo determinate è lo stesso. […] è per dare un pò di fumo. Tuttavia è bene se potete fare in modo che ci sia l’appiglio all’accensione della miccia. […] Nessuno crederà a questa fatalità, ma per una giustificazione di carattere metafisico si potrà dire che era necessario venire ad una conclusione». [8]
A seguito delle attività provocatorie e terroristiche sostenute dal governo fascista, Mussolini spedì nelle prime ore del 28 ottobre 1940 l’ultimatum al governo di Metaxas nel quale si fece riferimento ai falsi attacchi subiti dall’Albania lungo la zona di confine che l’Italia aveva delimitato con la Grecia: «Il Governo italiano […] deve ricordare al governo greco l’azione provocatrice svolta verso la Nazione albanese con la politica terroristica da esso adottata nei riguardi della popolazione della Ciamuria e con i persistenti tentativi di creare disordini oltre le sue frontiere. […] Tutto questo non può essere dall’Italia ulteriormente tollerato […] il Governo italiano è venuto pertanto nella determinazione di chiedere al Governo greco, come garanzia della neutralità della Grecia e come garanzia di sicurezza per l’Italia, la facoltà di occupare con le proprie forze armate […] alcuni punti strategici in territorio greco […]; ove le truppe italiane dovessero incontrare resistenze, tali resistenze saranno piegate con le armi e il governo greco si assumerebbe la responsabilità delle conseguenze che ne deriverebbero». [9]

Nel corso del conflitto le difficoltà operative incontrate dal regio esercito spinsero all’utilizzo massiccio dell’aviazione per fiaccare l’opposizione delle truppe greche e per colpire gravemente la popolazione civile. Mussolini affermò perentorio ai suoi generali: «In questo periodo di sosta occorre che l’aviazione faccia quello che non possono fare gli altri. Questi bombardamenti incessanti dovranno: a) dimostrare alle popolazioni greche che il concorso dell’aviazione inglese è insufficiente o nulla; b) disorganizzare la vita civile della Grecia, seminando il panico dovunque. Quindi voi dovete scegliere – chilometro quadrato per chilometro quadrato – la Grecia da bombardare». [10]
Al termine del conflitto venne stilato un bilancio dei danni arrecati dagli occupanti alla Grecia in termini di vite umane, disarticolazione di settori strategici dell’economia nazionale e di distruzione dei villaggi e delle città che avevano subito bombardamenti, rastrellamenti e incendi da parte delle truppe nazifasciste.
I dati pubblicati nel 1946 nella relazione «Les sacrificies de la Grèce pendant la guèrre 1940-1945» (verificati dall’agenzia delle Nazioni Unite «United Nation Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA)» e dalla Croce Rossa) certificarono: «Il primo anno dell’occupazione (1941-1942) fu incontestabilmente il più doloroso per il popolo greco […]; molti paesi europei furono conquistati dall’Asse e videro le loro popolazioni in balia delle privazioni e delle sofferenze. Tuttavia nessun popolo ha sofferto quanto il popolo greco a seguito delle privazioni e della fame. […] Gli uomini, le donne e soprattutto i bambini che la fame aveva ridotto allo stato di scheletri vagavano per delle ore intere per le strade […] Tutte le mattine la polizia si occupava di sgomberare dalle strade decine, alle volte centinaia, di cadaveri.
Di tutti i paesi conquistati la Grecia è quella che conta proporzionalmente la più grande quantità di ostaggi e vittime delle persecuzioni e di esecuzioni. Prova inconfutabile della partecipazione unanime del popolo greco alla resistenza nazionale. […] Tremilasettecento (3.700) villaggi e città furono in tutto distrutti, una parte a seguito di bombardamenti, saccheggi ed incendi. A seguito di queste distruzioni 1.200.000 persone, cioè 1/6 della popolazione totale del paese si trovano senza riparo. 88.000 famiglie contadine nelle macerie delle loro abitazioni, 30.000 famiglie contadine vivono in case semidistrutte, 510.000 famiglie urbane sono miseramente alloggiate. […] L’armata dei partigiani ingaggiò nelle montagne dei duri combattimenti di cui il prezzo fu pesante. Con le rappresaglie gli occupanti massacrarono più di 40.000 persone, per lo più donne e bambini, e incendiarono 3.000 villaggi». [11]

Secondo i dati forniti dal rapporto i morti in totale durante l’occupazione della Grecia ammonterebbero ad un totale di 620.000 persone: 360.000 morti a causa della fame; 30.000 morti a causa della guerra; 7.000 vittime dei bombardamenti; 43.000 persone uccise da esecuzioni operate da tedeschi (35.000) ed italiani (8.000); 25.000 persone uccise da esecuzioni operate dai bulgari; 60.000 morti tra la popolazione giovanile; 45.000 morti tra gli ostaggi ed i prigionieri dei nazifascisti; 50.000 morti tra le file della resistenza greca.
Oltre 190.000 persone risultano perseguitate ed imprigionate dalle truppe occupanti: 100.000 da parte tedesca; 35.000 da parte italiana; 50.000 da parte bulgara; 5.000 da parte delle milizie albanesi inquadrate, addestrate e comandate dall’esercito italiano.
Le deportazioni dei prigionieri fuori dal territorio greco raggiunsero la cifra di 88.000: 40.000 eseguite dai tedeschi; 18.000 dagli italiani; 30.000 dai bulgari. [12]
Dall’Italia all’Africa, dai Balcani alla Russia le promesse criminali di Mussolini erano state mantenute. Fu la Resistenza a farsi carico di chiederne conto al dittatore e ai suoi gerarchi.
Davide Conti, Curatore per l’Archivio Storico del Senato della Repubblica del riordino dei fondi «Rosario Bentivegna»; «Carla Capponi»; «Mario Fiorentini-Lucia Ottobrini»

[1]            T.Sala-S. Bon Gherardi, L’Istria tra le due guerre, Bollati Boringhieri, Torino, p.30.
[2]           U.Cavallero, Diario, edizioni Ciarrapico, 1984, Cassino, p. 443..
[3]           Verbale 2 agosto 1942 della riunione di Kocevje indetta dal generale Mario Robotti, in «Quaderni della Resistenza», Anpi Friuli-Venezia Giulia, n.10, Udine 2003, pp. 30-31.
[4]           «Il Piccolo di Trieste» 11 giugno 1941.
[5]            Archivio Storico Ministero Affari Esteri (Asmae), Gabinetto del Ministro e della Segreteria Generale 1923-1943, serie V, busta 2, AP 49, Montenegro, telegramma n.20983 del luglio 1941 di Mussolini al generale Pirzio Biroli.
[6]           Cifre della Commissione jugoslava presentate nella Conferenza per le riparazioni di guerra tenutasi a Parigi nel 1945, in J. Marjanovic,Guerra popolare e rivoluzione il Jugoslavia 1941-1945, Ediz. Avanti! Milano 1962 pp. 153-154.
[7]           Verbale riunione Gran Consiglio del Fascismo 13 marzo 1939, in E. Misefari, La Resistenza degli albanesi all’imperialismo italiano, Ediz. Cultura popolare, Milano 1976.
[8]           Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito (USSME), documenti del Tomo II, «La Campagna di Grecia», verbale riunione di Roma 15 ottobre 1940, documento n.52, pp. 159-163.
[9]             Ussme, ibidem, nota del governo italiano al governo greco presentata dal Ministro Grazzi al Presidente del consiglio ellenico alle ore 3 antimeridiane del 28 ottobre 1940, documento n. 65, pp. 184-185.
[10]          Ussme, ibidem, verbale riunione tenuta di Roma del 10 novembre 1940, documento n.99, p. 314.
[11]          «Les Sacrificies de la Grèce pedant la guèrre 1940-1945», Edition de la Ligue «La Paix par la Justice»Atene 1946.
[12]          Ibidem.

[ LE FOTOGRAFIE:
Il campo di concentramento nell’isola di Arbe. Foto tratta dal libro di Giuseppe Piemontese: “Ventinove mesi di occupazione nella provincia di Lubiana. Considerazioni e documenti” , (Lubiana 1946). (da http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/29-8.jpg)
Foto tratta dal libro di Giuseppe Piemontese: “Ventinove mesi di occupazione nella provincia di Lubiana. Considerazioni e documenti”, (Lubiana 1946). (da http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/29-15.jpg)
"Arbe, la memoria da integrare": articolo di Boris Pahor apparso su Il Piccolo (http://www.patriaindipendente.it/wp-content/uploads/2018/11/da-il-Piccolo.jpg)
L’uccisione di circa 150 tra patrioti e civili greci nella zona del villaggio di Domenikon, in Grecia, effettuata dal Regio esercito italiano durante l’invasione della Grecia. Militari italiani camminano tra i cadaveri di civili greci giustiziati nel massacro (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Strage_di_Domenikon#/media/File:DOMENIKO-1943.jpg) ]


(srpskohrvatski / русский / italiano)

La Chiesa Ortodossa non è tutta in vendita

1) Chiesa Ortodossa Serba si schiera contro Patriarcato Costantinopoli su questione ucraina (Sputnik Italia)
2) Став Српске Православне Цркве о црквеној кризи у Украјини после најновијих одлука Цариградске Патријаршије (Српскa Православнa Црквa – Званични сајт)
3) FLASHBACK 2018: Ucraina, proclamata l’autocefalia della "chiesa ortodossa di Kiev"
4) FLASHBACK 2017: Proposta al parlamento ucraino la messa fuorilegge della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca

See also:

Three Ukrainian churches vandalized (SPC, 12. November 2018)
Provocative graffiti appeared around three Ukrainian Orthodox churches in Lvov over the weekend, accusing the clergy and faithful of the canonical Church of being agents of the Russian government...

Белорусская православная церковь отказалась от общения с Константинопольским патриархатом (16 октября 2018)
[Anche la Chiesa bielorussa contesta il Patriarcato di Costantinopoli]
... «Белорусская православная церковь как часть Русской православной церкви присоединяется к этому решению (о прекращении евхаристического общения с Константинополем. — прим. ред.)», — заявил Иларион после заседания Священного синода в Минске в понедельник, 15 октября...

Ucraina: proclamata l’autocefalia della chiesa ortodossa di Kiev (di Claudia Bettiol, 12 ottobre 2018)
La concessione dell'autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina da parte del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli non solo ha incrinato i rapporti tra Kiev e Mosca (già non proprio idilliaci), bensì anche quelli tra le varie Chiese e, in particolare, tra Mosca e Costantinopoli

Si veda anche il nostro post precedente:

Washington pronta a far esplodere la Chiesa Ortodossa [JUGOINFO 9 ottobre 2018]


=== 1 ===


Chiesa Ortodossa Serba si schiera contro Patriarcato Costantinopoli su questione ucraina

12.11.2018

Il consiglio episcopale della Chiesa Ortodossa Serba ha rifiutato di seguire la decisione del Patriarcato di Costantinopoli relativa alla riabilitazione dei leader scismatici ucraini Filarete di Kiev e del metropolita Makariy.

Il consiglio ha reso pubblica la dichiarazione speciale sulla "Posizione della Chiesa Ortodossa Serba sulla crisi della chiesa in Ucraina dopo le recenti decisioni del Patriarcato di Costantinopoli".

"In primo luogo il consiglio si rammarica che il Patriarcato di Costantinopoli abbia preso una decisione canonicamente irragionevole per riabilitare e riconoscere i due leader scismatici della chiesa ortodossa in Ucraina Filarete di Kiev e il metropolita Makariy insieme al loro clero", si afferma nella dichiarazione.

Si fa notare che "il Santo Concilio dei Vescovi ritiene che questa decisione del Sinodo di Costantinopoli non sia vincolante per la Chiesa Ortodossa Serba".

Le autorità di Kiev stanno cercando di ottenere l'autocefalia dal Patriarcato di Costantinopoli per la struttura ecclesiastica non canonica in Ucraina. A metà ottobre il Patriarcato di Costantinopoli ha annunciato l'avvio di questa procedura.

Il Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa ha definito le azioni di Costantinopoli scismatiche ed ha rotto i rapporti.

Secondo il metropolita Hilarion, Costantinopoli ha perso il diritto di definirsi il centro di coordinamento dell'Ortodossia.



=== 2 ===


Став Српске Православне Цркве о црквеној кризи у Украјини после најновијих одлука Цариградске Патријаршије

12. Новембар 2018

Дводневно заседање Светог Архијерејског Сабора Српске Православне Цркве (6. – 7. новембар текуће године) било је посвећено трима главним темама – стању на Косову и у Метохији, унапређењу школства и просвете у Српској Православној Цркви и црквеној кризи у Украјини после најновијих одлука Цариградске Патријаршије. Своје виђење стања на Косову и Метохији, као и перспективу борбе за очување те мученичке српске покрајине у саставу Србије у условима непрестаних провокација вођства лажне државе и сталних притисака великих западних сила, Сабор је предочио нашој јавности посебним саопштењем

Њој је мање-више већ позната и делатност Сабора на пољу црквеног школства и просвете, али саборски став по питању  Цркве у Украјини само делимично. Разлог за то је чињеница да је о саборском ставу требало најпре службено обавестити све Православне Цркве, почевши од Цариградске и Московске Патријаршије, и то на одговарајућим језицима (грчки, руски и енглески), а за тај посао је било потребно извесно време. Пошто је то учињено, сада је тренутак да се став Српске Православне цркве изнесе у целости пред нашу јавност.

Сабор најпре са жаљењем констатује да је Цариградска Патријаршија донела канонски неутемељену одлуку да рехабилитује и за епископе призна двојицу вођâ расколничких групација у Украјини, Филарета Денисенка и Макарија Малетича, заједно са њиховим епископатом и клиром, од којих је први својевремено канонски лишен чина, а потом искључен из црквене заједнице и подвргнут анатеми, а други је ионако лишен апостолског прејемства као духовни изданак секте такозваних самосветих, због чега Свети Архијерејски Сабор ту одлуку цариградског Синода сматра необавезујућом за Српску Православну Цркву.

Сабор не признаје наведене личности и њихове следбенике за православне епископе и клирике и, следствено, не прихвата литургијско и канонско општење са њима и њиховим присталицама.

И на крају, Сабор предлаже Цариградској Патријаршији и свим осталим помесним аутокефалним Православним Црквама да се питање аутокефалије и питање православне дијаспоре што скорије размотре на свеправославном сабору, како би се потврдили и оснажили саборност и јединство Православне Цркве и убудуће избегла искушења као што је ово кроз које сада пролази свето Православље.

Епископ бачки Иринеј, 
портпарол Српске Православне Цркве


=== 3 ===


Ucraina: proclamata l’autocefalia della chiesa ortodossa di Kiev

La concessione dell'autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina da parte del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli non solo ha incrinato i rapporti tra Kiev e Mosca (già non proprio idilliaci), bensì anche quelli tra le varie Chiese e, in particolare, tra Mosca e Costantinopoli

17/10/2018 -  Claudia Bettiol

(Pubblicato originariamente da East Journal  il 12 ottobre 2018)

Si è concluso l'11 ottobre scorso il Sinodo del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dove è stata a lungo discussa la discordante questione  sulla concessione del tomos per l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina, facendo rimanere col fiato sospeso i media internazionali per ore. In seguito a tre giornate di incontri, la decisione è stata emessa a favore di Kiev.

La vittoria di Kiev

La proclamazione di autocefalia concessa dal Patriarcato ecumenico nella giornata di ieri è stata acclamata dal presidente ucraino Petro Porošenko come un successo ed un sogno realizzato: “Questa è la caduta della Terza Roma, l’antichissima formula utilizzata per definire Mosca e il suo dominio sul mondo”, ha sottolineato il presidente in carica, il quale considera il tomos l’ennesimo atto di dichiarazione d’indipendenza per il paese. La campagna elettorale  di Porošenko può quindi proseguire tranquilla e smentire i primi commenti sarcastici apparsi sui social ancora prima dello concludersi del concilio ecumenico, che avevano definito “sfortunato” il mese di ottobre per il presidente. La conquista di questa nuova indipendenza, tuttavia, non termina qui: la strada è ancora lunga e si parla di un processo che si dilaterà sui prossimi 4-5 anni almeno.

La disposizione di autocefalia è ufficiale, tuttavia i dettagli del tomos sono ancora in fase di studio. Il Sinodo li ha discussi in presenza degli arcivescovi Danil e Hilarion, rappresentanti esteri della Chiesa ortodossa ucraina, nominati lo scorso 7 settembre. Tra le risoluzioni  che sono state confermate finora compaiono il ripristino dell’unità stavropegica  del Patriarcato ecumenico a Kiev e la reintegrazione ufficiale del patriarca Filaret Denisenko e i suoi seguaci a capo della nuova Chiesa ucraina ortodossa. Inoltre, si revoca la lettera sinodale del 1686, che concedeva al patriarca di Mosca il diritto di ordinare il metropolita di Kiev, proclamando così la dipendenza canonica dalla Chiesa Madre di Costantinopoli.

La sconfitta di Mosca

La principali preoccupazioni che hanno tenuto per mesi il mondo religioso ortodosso con il fiato sospeso sembrano quindi essere diventate realtà. Non si sono incrinati solamente i rapporti tra Kiev e Mosca (già non proprio idilliaci), bensì anche quelli tra le varie Chiese e, in particolare, tra Mosca e Costantinopoli.

L’effetto che la notizia ha avuto su Mosca, sebbene prevedibile, è da considerarsi addirittura catastrofico. La Chiesa ortodossa russa aveva già avvertito  il sommo patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, che nel caso in cui il Sinodo avesse concesso il tomos (se non ora, in futuro), qualsiasi rapporto tra Mosca e Costantinopoli sarebbe cessato, portando ad un nuovo scisma. “Conoscete bene la posizione della Chiesa ortodossa russa su questo tema e, naturalmente, non vogliamo che venga presa alcuna decisione che possa condurre a una profonda spaccatura nel mondo dell’Ortodossia”, ha dichiarato Dmitrij Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin. Il tomos, quindi, provocherà inevitabilmente il distacco della Chiesa ucraina dall’orbita della Russia, la quale definisce il verdetto tragicamente: “Oggi il Patriarcato di Costantinopoli ha preso decisioni catastrofiche, in primo luogo nei riguardi di se stesso e dell’Ortodossia intera”, ha riferito Aleksandr Volkov, portavoce del patriarca ortodosso russo Kirill, aggiungendo: “Il Patriarcato di Costantinopoli ha oltrepassato il limite”.

Il resto del mondo ortodosso non si è ancora pronunciato apertamente in merito, sebbene la posizione timorosa del patriarca serbo Ireneo  fosse già nota, come anche quella del metropolita bielorusso Pavel  , preoccupato relativamente al sorgere di tensioni ulteriori e di una scissione definitiva all’interno del mondo ortodosso. A schierarsi dalla parte dei russi sembra esserci la Chiesa ortodossa di Antiochia. Guidata da Giovanni X (Yagizi) la Chiesa siriaca è da sempre molto vicina a quella russa, in quanto storicamente è quella tra i cinque patriarcati (Roma, Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria e Antiochia) che ha ricevuto una protezione politica e ecclesiastica da Mosca durante la dominazione ottomana. Yagizi e i suoi vescovi considerano Mosca la “Chiesa Madre”, titolo che le due capitali si contendono da secoli. Il patriarca Filaret Denisenko, tuttavia, lo ribadisce  : Kiev, dal punto di vista ecclesiastico, è la Chiesa madre di Mosca, e non viceversa. È stata la Chiesa russa a separarsi dalla metropoli di Kiev, facente parte del Patriarcato di Costantinopoli. Ciò evidenzia che noi, Chiesa ucraina, siamo figli del Patriarcato di Costantinopoli, e la Chiesa russa è una chiesa figlia, e non madre, della Chiesa ucraina”.

Insomma, la situazione attuale, oltre ad essere ingarbugliata, sembra proprio aver scatenato l’inferno. Il famoso teologo e e filosofo russo Andrej Kuraev lo aveva previsto, scrivendo sul suo blog: “La questione è una sola: quando la locomotiva di Mosca si scontrerà con l’espresso di Istanbul, mandando in frantumi il calice eucaristico, quali altre Chiese avranno il coraggio di seguire Mosca e rompere con Costantinopoli?”.

 

Breve riassunto delle tappe per la richiesta di autocefalia:

  • Il 19 aprile, la Verchovna Rada ha sostenuto l’appello che il presidente ucraino Petro Porošenko ha rivolto al patriarca ecumenico di Constantinopoli Bartolomeo I al fine di ottenere la concessione dell’autocefalia per la Chiesa ortodossa ucraina.
  • Il 22 aprile il presidente Porošenko annuncia che il Patriarcato ecumenico ha iniziato a considerare la richiesta.
  • A luglio, Bartolomeo conferma la sua intenzione di conferire l’autocefalia.
  • Il 7 settembre il patriarca ecumenico Bartolomeo nomina due esarchi in preparazione alla concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina.
  • L’11 ottobre il Sinodo firma ufficialmente il tomos per concedere l’indipendenza della Chiesa ucraina da Mosca.


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Attaccando l'Ortodossia, il Parlamento dell'Ucraina minaccia la sicurezza nazionale del Paese

Natalia Vitrenko, 17/05/2017

Dichiarazione di Natalia Vitrenko, Presidente del "Consiglio delle donne ortodosse di Ucraina"

Il golpe di Maidan ha portato al popolo ucraino. Nascondendosi con cura dietro slogan patriottici, teorizzando  il tema dell’aggressione russa, crescendo sulla fiducia, sulla mancanza di informazioni e la mancanza di organizzazione della popolazione nel nostro paese, si implementano processi socio-economici e politici devastanti.

Utilizzando la protezione dei padroni occidentali, calpestando i diritti costituzionali e della Convenzione dei cittadini, la Rada Suprema dell'Ucraina si è azzardata a toccare i valori spirituali di milioni di cittadini ortodossi del nostro paese, includendo nell'ordine del giorno per il voto del 18/05/2017, i disegni di legge "Sulla modifica della legge dell'Ucraina circa la libertà di coscienza e le organizzazioni religiose», (N4128 del 2016/02/23 e "Sullo status speciale di organizzazioni religiose, i cui capi si trovano nel paese dichiarato dalla Rada Suprema dell'Ucraina, come uno stato-aggressore », (N4511 del 22.04 del 2016.
 

L'essenza di questi disegni di legge è l'eliminazione della Chiesa canonica ortodossa ucraina, con la scusa di una sua presunta subordinazione di uno stato-aggressore. Il meccanismo  del sequestro per la distruzione dei luoghi di culto della Chiesa ortodossa canonica sta nel fatto che la legge N4128 permetterà a qualsiasi persona, attraverso una "autocertificazione", di dichiararsi fedele di una Chiesa qualsiasi, e poi con una semplice maggioranza dei presenti alle riunioni, attraverso cambiamenti nello statuto della chiesa di effettuare un esproprio dalla Chiesa Madre (Patriarcato di Mosca) per aderire all’autoproclamato, non riconosciuto da nessuno e non canonizzato  “Patriarcato di Kiev".
 
Questo apre la possibilità per i gruppi di altre fedi di un'alleanza con i militanti neonazisti, di andare in giro per  le parrocchie ortodosse dell’Ucraina e con l'inganno, il terrore e la maggioranza creata artificialmente, di appropiarsi dei luoghi di culto  della Chiesa Ortodossa Ucraina e metterli a loro disposizione.
 
Con un'altra delle leggi, congiuntamente alla N4511, in realtà lo stato crea una autorità di controllo regionale e centrale delle comunità ortodosse sequestrate ed esercita il suo controllo sulle attività della chiesa.
 
Una tattica simile per favorire la separazione, lo smembramento in più piccole "chiese autocefale", apparentemente indipendenti, fu utilizzata dagli occupanti nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo i piani dei nazisti, per la conquista  dei popoli, di coloro che consideravano “razza inferiore”, come per esempio tutti gli slavi, la loro libertà religiosa doveva  essere un fenomeno temporaneo, una "transizione" prima del pieno controllo delle loro coscienze, della modifica dei loro valori morali, privati ​​della fede ortodossa.
 
La nostra organizzazione ortodossa delle donne ucraine condanna fermamente le proposte di legge di cui sopra, le considera anticostituzionali, provocatorie di  una sanguinosa guerra civile, sulla base dei conflitti interconfessionali e gravi violazioni dei diritti e delle libertà dei credenti ortodossi in Ucraina.

Questi due progetti di legge sono volti a minare la sicurezza nazionale dell'Ucraina, perché sono in contrasto con gli art.2 , 5 e 6 della legge dell'Ucraina "sui fondamenti della sicurezza nazionale dell'Ucraina", con gli art.3, 21, 22, 23 e 35 della Costituzione Ucraina, con gli articoli 9 e 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e con l'articolo 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
 
Gli articoli citati non solo proteggono i diritti e le libertà dei credenti ortodossi, ma anche impediscono allo Stato di interferire negli affari della Chiesa e non consentono ai deputati di votare per questi disegni di legge.
 
Un falso cinico nel progetto di legge N4511 è la pseudo-subordinazione della Chiesa Ortodossa Ucraina allo stato aggressore. Questo è un falso perché sia in Russia sia in Ucraina, la Chiesa è separata dallo Stato, fatto questo sancito nelle norme delle costituzioni nazionali. Mai, in qualsiasi forma, la Chiesa ortodossa ucraina ha contribuito ai piani di qualsiasi aggressore.
 
L’Ortodossia sul territorio dei nostri paesi è nata 1029 anni fa, e i fedeli che vanno in chiesa lo hanno sempre fatto essenzialmente per realizzare i propri valori spirituali in comunione con Dio. L'attribuzione ai fedeli e ai preti della Chiesa Ortodossa Ucraina del servilismo verso l’aggressore è una menzogna palese e provocazione politica contro i credenti ortodossi. Si tratta di una violazione del principio fondamentale della presunzione di innocenza sancito sia nella Costituzione dell'Ucraina che nel diritto internazionale..
 
Inoltre, il termine "Stato aggressore" rivolto alla Russia è stato adottato dalla Rada Suprema dell'Ucraina per varare una raffica di leggi anti-costituzionali e anti-ortodossia, ma per motivi ignoti non è diventato oggetto di rivendicazioni legali dell’Ucraina verso la Federazione Russa al tribunale dell'Aja, non è diventato la causa dello scioglimento del Trattato di amicizia e di cooperazione tra la Federazione Russa e l'Ucraina ratificato dalla Rada Suprema dell'Ucraina il 14.12.1998, non ha prodotto la rottura delle relazioni diplomatiche con la Russia.
 
In questo contesto, ritenere la Chiesa Ortodossa Ucraina - Patriarcato Mosca come se fosse controllata dallo Stato aggressore è falsa legalmente e politicamente insostenibile. Quindi una dichiarazione del genere  da parte degli autori del disegno di legge non può essere usata come un argomento per prendere una tale pericolosa decisione, che provocherà collisioni durissime e una guerra civile devastatrice in Ucraina.
 
Il Consiglio delle donne ortodosse in Ucraina chiede ai deputati ucraini, al Presidente dell’Ucraina Poroshenko, garante dei diritti costituzionali dei cittadini, di fermare la denigrazione dei credenti ortodossi della Chiesa canonica ortodossa ucraina e di bloccare l'adozione di queste leggi discriminatorie.
 
 La Presidente dell’Associazione "Consiglio donne ortodosse di Ucraina ", Natalia Vitrenko
 
 PS: Su richiesta dei fedeli ortodossi, scriviamo i nomi degli autori dei disegni di legge controversi:
 

N 4128
Yelenskyi VE ( "Fronte popolare")
Wojciechowska S. ( "Fronte popolare")
Kishkar PN (Frazione "Petr Poroshenko Block")
Taruta SA (deputato indipendente)

Lozovoj AS (Partito radicale Oleg Lyashka")
Gherasimov AV ("Petr Poroshenko Block")
Podoliak II ("Auto-aiuto")
 
N 4511
Petrenko O. ("Petr  Poroshenko Block")
Briginets AM ("Petr  Poroshenko Block")
Levus AM ( "Fronte popolare")
Vysotsky SV ( "Fronte popolare")
Medunitsa OV ( "Fronte Popolare")
Artyushenko IA ("Petr Poroshenko Block")
Tymchuk DB ( "Fronte popolare")
Y. Tymoshenko ( "Fronte popolare")
Skrypnyk AA ("Auto-aiuto")
Matkivsky BM (deputato indipendente)
Bagel Y. (deputato indipendente )
Opanasenko AV ("Auto-aiuto ")
Masorin ES ( "Fronte popolare")

Traduzione di Oxana L. per CISDU/CIVG

SOS Ucraina resistente/CIVG -  info@...


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La Chiesa Ortodossa Ucraina in piazza per la difesa del diritto ad esistere

Enrico Vigna, 18/05/2017

Manifestazioni e proteste a Kiev insieme alle forze popolari di opposizione, davanti al Parlamento ucraino (Rada) per difendere il diritto ad esistere della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca, infatti il 18 maggio, all'ordine del giorno del Parlamento dell'Ucraina c’erano le proposte di legge N4128 e N4511 finalizzate all’eliminazione ed alla messa fuorilegge della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca in Ucraina.

Un passo che calpesta le norme degli obblighi internazionali dell'Ucraina e in flagrante violazione della garanzia costituzionale della non interferenza negli affari della Chiesa e della tutela dei diritti dei credenti. Violando le procedure costituzionali per l'adozione di leggi, è evidentemente un atto voluto per  fomentare su larga scala, l’aggravamento pesante del sanguinoso conflitto nel Donbass , i deputati della Verkhovna Rada stanno facendo una provocazione politica pericolosissima se queste leggi verranno adottate, in quanto al di là delle popolazioni nel Donbass, nella stessa Ucraina vi sono milioni di fedeli della COU legati al PO di Mosca.
Essendo vietate manifestazioni, i fedeli, ma anche personalità laiche dell’opposizione popolare hanno espresso la loro protesta con una manifestazione pacifica sotto la Verkhovna Rada dell'Ucraina, dove hanno tenuto un servizio di preghiera.


Il VIDEO della manifestazione: https://www.youtube.com/watch?v=Vt0Oj9arywA




(deutsch / english / русский / italiano)
 
24 marzo, verso il Ventennale
 
1) First International Symposium 'Consequences of the bombing of the FR of Yugoslavia with depleted uranium in 1999', Nis/Serbia, June 17-19, 2018
2) Serbischer Präsident: NATO-Bomben töten unsere Kinder bis heute (25.9.2018)
3) NATO-Chef Stoltenberg in Belgrad: Wir bombardierten euch, um euch zu schützen / Столтенберг: Войска НАТО бомбили Югославию с целью защиты гражданского населения / Rudolf Hänsel: Open Letter to NATO's Jens Stoltenberg (Oct. 2018)
4) Serbian Man Utd Star (Nemanja Matic) Rejects Tribute to Dead NATO Soldiers (05.11.2018)

(english / italiano)
 
 
=== ITALIANO:
 

Il 5 ottobre 2018 si è riunita la Commissione (A. Bernardini, J. T. M. Visconti, C. Vitucci) per l’attribuzione dei premi “Giuseppe Torre” per elaborati critici sul Tribunale per la ex Jugoslavia:

 

<< Dopo ampia discussione, la Commissione, all’unanimità, decide di non assegnare il primo premio e di attribuire il secondo premio ex aequo ai lavori di 
Stefan Karganović "ICTY and Srebrenica" [Il TPIY e Srebrenica

Jovan Milojevich "When justice fails: Re-raising the Question of Ethnic Bias at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY) [Quando la giustizia fallisce: riprendendo la questione del pregiudizio etnico al Tribunale penale Internazionale sulla ex Jugoslavia (TPIY)].

(italiano / deutsch /english)

Those Willing to Go to War

1) Die Koalition der Kriegswilligen / Coalition of Those Willing to Go to War (GFP, Jun.-Aug. 2018 )
2) L’Europa va alle armi, ancora in ordine sparso. Si profila l’Iniziativa Europea d’Intervento (Contropiano, 27 ottobre 2018)
3) Maneuver in Civilian Setting / Manöver in zivilem Umfeld (GFP, July 2018)


Su ciò che bolle in pentola nei settori guerrafondai della Unione Europea si veda anche la nostra rassegna precedente:
Troppi finti tonti [JUGOINFO 19/3/2018]
Links / Troppi finti tonti sul clima di guerra in Europa (di Sergio Cararo, 20 febbraio 2018) / Unione Europea, spostarsi a destra e preparare la guerra (Doug Nicholls, 03/03/2018) / 3) La militarizzazione dell'Unione europea mina la pace e la sicurezza (CPPC, 24/02/2018)


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ORIG.: Die Koalition der Kriegswilligen (GFP, 26.06.2018)
Deutschland beteiligt sich an einer gestern gegründeten neuen europäischen Militärformation. Die Europäische Interventionsinitiative, die auf einen französischen Vorstoß zurückgeht, steht EU- wie auch Nicht-EU-Staaten offen; sie soll schnelle Entscheidungen über gemeinsame Kriegseinsätze ermöglichen und die bisherige EU-Militärkooperation ("PESCO") um eine operative Komponente erweitern. Bereits für September ist eine erste Zusammenkunft der militärischen Führungsstäbe der - bislang - neun beteiligten Staaten angekündigt. Mit dabei sind Großbritannien, das auch nach dem EU-Austritt die Militärzusammenarbeit mit dem Kontinent fortsetzen will, und Dänemark, das seiner Bevölkerung einst ein Opt Out aus der EU-Militärpolitik zugestanden hat, dies nun aber umgehen kann, weil die Interventionsebene offiziell nicht innerhalb der EU angesiedelt ist. Experten sprechen von einer europäischen "Koalition der Willigen". Deren Gründung geht mit milliardenschweren Militarisierungsplänen der EU-Kommission und mit teuren deutsch-französischen Rüstungsprojekten einher...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7651/

https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/7654/

Coalition of Those Willing to Go to War

06/26/2018

PARIS/BERLIN(Own report) - Germany is participating in a new European military formation that was launched yesterday. Originally a French proposal, the European Intervention Initiative (EII) will be open to EU and Non-EU member countries to join. Expanding the existing EU military cooperation ("PESCO") with a new operational component, the EII should facilitate rapid decisions on joint military interventions. A first meeting of military commanders from the hitherto nine participant states is set for September. The EII includes Great Britain, which plans to continue its military cooperation with the continent, even after Brexit, as well as Denmark. Since the coordination of military interventions is now officially set outside of the EU framework, Denmark can sidestep the opt-out from EU military policy, it had once granted its population. Referred to by experts as a European "coalition of the willing," it goes hand in hand with the EU Commission's militarization plans worth billions and the high-cost German-French arms projects.

 

Germany's PESCO

The European Intervention Initiative (EII) derives from the EU policy speech by French President Emanuel Macron at the Sorbonne University on September 26, 2017. His proposals on EU military policy was made at a time, when Berlin had succeeded in largely implementing its positions, while key French demands had been ignored during the negotiations on EU military cooperation - which would soon lead to the launching of the Permanent Structured Cooperation (PESCO).[1] PESCO is aimed at aligning the EU member states’ military capabilities and elaborating joint military capacities. The initiative thus complements the EU Defense Fund aimed at enhancing arms research and developing new weapons by European companies.[2] The broad, fairly general approach facilitated the inclusion of 25 of the 28 EU member countries. The UK, Denmark and Malta do not participate: The UK because it will leave the EU; Denmark, because it had promised its population to opt out of EU military policy, after the “NO” in the Maastricht Treaty referendum; Malta because it still officially maintains its neutrality - unlike Ireland, Sweden, Finland and Austria. However, the Maltese government is explicitly reserving the right to join PESCO at a later stage.[3]

France's Intervention Initiative

Already during the PESCO negotiations, France had advocated a different approach, aimed less at broad participation and more toward a reliable disposition and capacity for rapid military interventions - due to the French armed forces’ heavy "overstress," as the German Council on Foreign Relations (DGAP) has noted in its recent analysis. From the French perspective, "EU structures are of little help for rapid interventions."[4] French Defense Minister Florence Parly complained last weekend, "decision-making within the EU framework is still very slow."[5] When it became evident that Berlin would prevail in the PESCO negotiations, Paris began planning an alternative format - the "Initiative européenne d'intervention." In his speech at the Sorbonne, Macron called on the EU not only to launch a joint intervention force at the beginning of the coming decade, but also to establish a joint military budget and military doctrine.[6] Parly reiterated that, in the future, France no longer wants to wage wars alone - such as ("Opération Serval") in Mali 2013 - but "together with others.."

Independent of Alliances

Following final negotiations between President Macron and Chancellor Merkel last week, the European Intervention Initiative (EII) was officially launched on Monday. Formally independent of the EU, it is not dependent on lengthy concertations within the Union. It also facilitates the UK's post-Brexit inclusion. London, which, since 2010, had already concluded special military agreements with Paris - which had also served as the basis for the joint aggression against Libya,[7] - is part of the Initiative's inner circle. Denmark is also involved. Because the Initiative is not a formal EU project, its inclusion does not formally contradict the Danish opt-out from EU military policy clause. The EII includes the initiator France, along with Germany, Spain, Portugal, Belgium and the Netherlands - as well as Estonia, quasi as a representative of the anti-Russian oriented East European countries. Finland explicitly reserves the right to join later. The EII's future expansion to include NATO-member Norway, for example, is considered feasible.

The Military as Normative Force

Under German pressure, the EII has been somewhat downgraded and coupled with PESCO. Berlin considers that French-inspired interventions that run counter to German interests can be more easily obstructed within an EU framework. The initiative, at least for the time being, is not aimed at creating its own troop formations, but merely a regular coordination at the military command level. The participating countries will dispatch a liaison officer to the French operation headquarters.[8] Top commanders of their militaries will hold a meeting in Paris in mid September to elaborate their first work plan.[9] A situation analysis and a joint development of intervention plans are among the items on the agenda. The French government is expressly focusing on the creation of a single "strategic culture," wherein military practice will develop to have a normative effect. In fact, until now, as the DGAP explains, "the perception had predominated that jointly elaborated strategy documents, such as a European white paper, must be the first step for a European approach."[10] Such an approach would have given the EU's leading power, Germany, an advantage, however with stronger accent on military practice, particularly in Africa, an experienced France can hope for prevalence. This explains Berlin's somewhat remaining hesitation.

Russia in the Sights

The creation of the new EII goes hand in hand with the expansion of PESCO and the EU Commission's new plans to upgrade the infrastructure of the EU countries - particularly their roads, rails and bridges - to meet military standards. 6.5 billion euros over the next decade have been earmarked for this project alone. Berlin and Paris are also energetically promoting billions in arms projects.[11] On the sidelines of last week's Franco-German Ministerial Council meeting, Defense Minister von der Leyen and her French counterpart, Parly agreed on the next steps toward the development of a modern German-French jet fighter, destined to succeed the Eurofighter in 2040, and the development of a German-French successor to the Leopard - 2 battle tank. Paris will direct the project of the jet fighter production, developed jointly by Airbus and France's Dassault group ("Rafale"), while Berlin will be in charge of the battle tank, produced by KNDS - the merger of Krauss-Maffei Wegmann with the French company Nexter. The tank is explicitly supposed to be equipped to meet the challenge of the highly modernized Russian T-14 Armata. The jet fighter is said to be conceived to operate in coordination with drones and swarms of drones and must be able to overcome Russia's most modern S400 air defense systems. A possible adversary of the EU’s future wars is thereby already clearly in the sights of the German-French arms production.

 

[1] See also Launching the Military Union.

[2] See also Billions for European Wars (II) and Europas strategische Rüstungsautonomie.

[3] Malta among three countries opting out of EU's new defence agreement. timesofmalta.com 11.12.2017.

[4] Claudia Major, Christian Mölling: Die Europäische Interventionsinitiative EI2. Warum mitmachen für Deutschland die richtige Entscheidung ist. DGAPkompakt Nr. 10, Juni 2018.

[5] Florence Parly: «L'Europe de la défense nécessite une culture stratégique commune». lefigaro.fr 24.06.2018.

[6] Initiative pour l'Europe - Discours d'Emmanuel Macron pour une Europe souveraine, unie, démocratique. Paris, 26 septembre 2017.

[7] See also Die neue Entente Cordiale and Der neue Frontstaat des Westens.

[8] Claudia Major, Christian Mölling: Die Europäische Interventionsinitiative EI2. Warum mitmachen für Deutschland die richtige Entscheidung ist. DGAPkompakt Nr. 10, Juni 2018.

[9] Florence Parly: «L'Europe de la défense nécessite une culture stratégique commune». lefigaro.fr 24.06.2018.

[10] Claudia Major, Christian Mölling: Die Europäische Interventionsinitiative EI2. Warum mitmachen für Deutschland die richtige Entscheidung ist. DGAPkompakt Nr. 10, Juni 2018.

[11] See also Die Rüstungsachse Berlin-Paris.



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ORIG.: Die Koalition der Kriegswilligen (II) (GFP 11/08/2018)
Die von Paris initiierte und von Berlin mitgetragene Europäische Interventionsinitiative (Initiative européenne d'intervention, IEI) wird noch in dieser Woche ihre Arbeit aufnehmen. Dies haben Vertreter der zehn beteiligten Staaten am gestrigen Mittwoch in der französischen Hauptstadt beschlossen. Die IEI zielt auf schnelle Einsatzfähigkeit; sie ist vom französischen Präsidenten Macron forciert worden, der sich um Unterstützung für die überlasteten Streitkräfte seines Landes bemüht. Berlin tritt bislang eher als Bremser auf: Die Bundesregierung setzt auf die systematische Verschmelzung europäischer Truppen beispielsweise im Rahmen der "PESCO"-Projekte der EU, zudem auf die Verzahnung europäischer Waffenschmieden mit Hilfe von Zuschüssen aus dem EU-Rüstungsfonds. Letzterer soll im künftigen EU-Haushalt um den Faktor 30 gesteigert werden und sich auf mehr als 17 Milliarden Euro belaufen. Trotz aller Differenzen streben sowohl Berlin (PESCO) wie auch Paris (IEI) eine europäische Streitmacht an, die unabhängig von den USA global eingesetzt werden kann...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7777/

https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/7779/

Coalition of Those Willing to Go to War (II)

11/08/2018

PARIS/BERLIN(Own report) - The European Intervention Initiative (Initiative européenne d'intervention, IEI) initiated by Paris and supported by Berlin, will begin work this week. Representatives of the ten participating states took this decision in the French capital, yesterday. France's President Emmanuel Macron promoted the IEI, aimed at rapid deployment capability, in search of gaining support for his country's over-stretched armed forces. So far, Berlin has been applying the brakes. The German government is focused on systematically merging European troops, for example, within the framework of the EU's "PESCO" projects and integrating European arms industries with the help of subsidies from the EU Defense Fund. In the future EU budget, the EU Defense Fund is to be increased thirty-fold, to more than €17 billion. Despite all the dissention, Berlin (with PESCO) and Paris (with IEI) are both seeking to establish a European armed forces, which can be deployed on a global scale, independent of the USA.

PESCO

In the ongoing Franco-German dispute over the long-term establishment of an integrated European armed forces, Berlin is still prioritizing PESCO (Permanent Structured Cooperation), which formally began working on December 11, 2017,[1] and seeks to enhance the coordination and development of the EU countries' military capacities. It includes 25 of the 28 EU member countries. Great Britain, Denmark, and Malta are not participating: Great Britain, because it is leaving the EU, Denmark, because it has an opt-out clause from EU military policy, following the Danish population's "NO" to the Maastricht Treaty, and Malta because it wants to maintain its neutrality. Thus far, 17 projects have been determined in the PESCO framework, with more soon to follow. Berlin is coordinating four: the establishment of the European Medical Command, the Network of Logistic Hubs, the EU Training Mission Competence Center and the EUFOR Crisis Response Operation Core.[2]

Building Armed Forces from Below

With PESCO, the German government is seeking to strengthen the integration of EU countries' armed forces to build, quasi from below, a long-term base for jointly waging wars. Aimed at better integration of the EU countries' arms industries, Brussels has established the EU Defense Fund, due to be significantly increased. In the current EU budget period (2014 - 2020), €575 million have been allocated; which is to be increased thirty-fold to €17.22 billion in the following (2021 - 2027) budget period.[3] According to current planning, the funds may be allocated without European parliamentary monitoring.[4] In addition to its activities within the EU framework, Berlin is pushing for closer cooperation with the armed forces of selected European NATO allies. It is intensifying cooperation not only with the Dutch army and navy and with Czech and Rumanian army brigades, but also with the navy of Norway, which is a member of NATO but not of the EU. In NATO's Framework Nations Concept (FNC), the Bundeswehr's medical corps is establishing the Multinational Medical Coordination Centre (MMCC). Since troops from non-EU countries, such as Norway, are also linked to EU member's armed forces via the FNC, it is not unusual to hear of the establishment of a "European" rather than an "EU" army.

IEI

Paris sets other priorities. According to an analysis published last June by the German Council on Foreign Relations (DGAP), the French military is drastically "over-stretched" and France's government is desperately searching for support in its current and future missions.[5] For example, Paris is trying - with Berlin's help - to involve troops from the Sahel countries ("G5 Sahel") in its "Operation Barkhane." (german-foreign-policy.com reported.[6]) Brussels has hardly contributed. The DGAP concluded, "EU structures" have "proven of little help, when it comes to rapid interventions." Therefore, the French government is now seeking help - through its European Intervention Initiative (Initiative européenne d'intervention, IEI), announced by President Macron in his keynote speech at the Sorbonne on September 26, 2017. Officially, the IEI was founded June 25, 2018. Nine countries are participating. It is referred to as a "coalition of the willing."[7] Because the IEI is not a component of the EU's military policy, both Denmark - which is under an opt out clause for the EU's Common Security and Defense Policy (CSDP) - can participate and post-Brexit Great Britain can remain a member. IEI is also an independent structure and must not rely on the Union*s, at times, extremely lengthy decision-making processes.

Building Armed Forces in Action

In the run-up to yesterday's IEI meeting, Paris and Berlin again went public with their dissentions. Already at the founding of the initiative, the German government had seen to it that Macron would only be partially able to accomplish what he had set out to achieve. For example, the IEI has, until now, been limited to the regular coordination of the participating national staffs at the military command level, whereas the initial objective was to develop joint situation analyses and intervention plans. France, which, in fact, had sought to create a stronger structure, promotes the founding of IEI as progress in the creation of a joint "strategic culture."[8] On Tuesday, Macron demanded that "a real European army" be created. The move was aimed at winning wider competence for the IEI, which he fashionably justified saying that "Europe" must be prepared "to handle its own defense, in complete independence of the USA."[9] Chancellor Angela Merkel and other German politicians also gave their opinions.[10] Germany's Minister of Defense, Ursula von der Leyen immediately contradicted Macron, Tuesday, making it clear that the German government continues to rely on PESCO, rather than Paris' IEI. "A European army must be set up within and not outside the European Union," von der Leyen said in Berlin.[11]

Situation Analyses and Operation Scenarios

At yesterday's meeting of representatives of the IEI participating countries, a preliminary "timetable" was established for the merger, to which Finland will now become the tenth member. According to reports, leading representatives of the IEI armed forces plan to begin this week to establish situation analyses and possible operation scenarios, that will form the basis of future missions. These are activities that are neither carried out in NATO nor within the realm of the EU, announced France's Minister of Defense, Florence Parly.[12] There are openings for other countries wanting to participate. There is but one stipulation - the capability and the willingness to engage in missions.

 

[1] See also Launching the Military Union.

[2] Jörg Fleischer: PESCO: Schritt in die richtige Richtung. bmvg.de 30.05.2018.

[3] Eva Fischer: Haushaltsausschuss des Europaparlaments will 190 Milliarden mehr von EU-Mitgliedstaaten. handelsblatt.com 06.11.2018.

[4] Christoph Prössl: 13 Milliarden Euro am Parlament vorbei. tagesschau.de 20.09.2018.

[5] Claudia Major, Christian Mölling: Die Europäische Interventionsinitiative EI2. Warum mitmachen für Deutschland die richtige Entscheidung ist. DGAPkompakt Nr. 10, Juni 2018.

[6] See also Die Militarisierung des Sahel (IV).

[7] An der Europäischen Interventionsinitiative nehmen Belgien, Dänemark, Deutschland, Estland, Frankreich, Großbritannien, die Niederlande, Portugal und Spanien teil.

[8] See also Coalition of Those Willing to Go to War.

[9] Nicolas Berrod: A quoi pourrait ressembler l'armée européenne voulue par Emmanuel Macron? leparisien.fr 06.11.2018.

[10] See also Das Ende einer Ära.

[11] Macron fordert eine gemeinsame europäische Armee. Frankfurter Allgemeine Zeitung 07.11.2018.

[12] L'avant-garde de la défense européenne entre en rodage. challenges.fr 07.11.2018.



=== 2 ===

http://contropiano.org/news/internazionale-news/2018/10/27/leuropa-va-alle-armi-ancora-in-ordine-sparso-si-profila-liniziativa-europea-dintervento-0108883

L’Europa va alle armi, ancora in ordine sparso. Si profila l’Iniziativa Europea d’Intervento

di Alessandro Avvisato, 27 ottobre 2018

Si chiama Iniziativa Europea d’Intervento. Il suo scopo è quello di conseguire una capacità operativa congiunta – con risposte rapide ed efficaci – in tutto lo spettro degli scenari di crisi, da quelli ad alta intensità a quelli umanitari, che potrebbero avere ripercussioni per la sicurezza dell’Europa.  Il progetto lo aveva messo sul tavolo Macron un anno fa, ma i Ministri della Difesa di nove Paesi europei (Francia, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Belgio, Danimarca, Estonia, e Spagna), ne hanno discusso ampiamente a margine del Consiglio dell’Unione Europea per gli Affari Esteri lo scorso 25 giugno, e hanno firmato una lettera d’intenti per avviarla, anche all’esterno della cornice istituzionale dell’Unione Europea. L’adesione di ogni Stato all’Iniziativa Europea di Intervento è infatti volontaria e riguarda anche paesi extra unione europea.

Per le autorità militari francesi, l’IEI ha l’obiettivo di rafforzare i legami tra le Forze Armate degli Stati aderenti per “agevolare il processo di formazione di una “vera” cultura della difesa comune, in grado di sopperire alle lacune emerse nei precedenti interventi europei, promuovere la credibilità militare dell’Europa, rinforzandone l’autonomia strategica, e contribuire ad una migliore ripartizione degli oneri”.

Secondo il sito specializzato AnalisiDifesa.it, i meccanismi decisionali saranno regolati da un approccio intergovernativo: la decisione rimarrà nelle mani dei singoli governi nazionali. “Ogni Paese potrà valutare caso per caso a quale intervento prendere parte secondo le proprie capacità e le proprie valutazioni strategiche. L’uso della forza militare, infatti, rimane una responsabilità esclusivamente nazionale.

La cooperazione tra i nove Paesi riguarderà quattro settori d’azione: la pianificazione strategica congiunta, gli scenari d’impiego, le lezioni apprese e la condivisione delle dottrine, l’appoggio/supporto alle operazioni”.

Da quanto risulta, fino ad ora l’Italia non avrebbe aderito a questo progetto di integrazione militare e strategico a livello europeo, soprattutto perché gli interessi francesi e quelli italiani in Libia continuano a confliggere.

Curiosamente, la Nato che avevo espresso apertamente le sue preoccupazioni sulla PESCO ( PErmanent Structured Cooperation, firmata da 25 Paesi dell’UE nel dicembre 2017)., tramite il suo segretario Stoltemberg ha accolto favorevolmente la decisione di avviare l’Iniziativa Europea d’Intervento, anche perché al suo interno c’è anche la Gran Bretagna che la Brexit aveva posto fuori dagli apparati e dai progetti di integrazione politico/militari dell’Unione Europea, privando la Nato e gli Usa di un “guastatore” nei progetti dell’Unione. Sul piano politico, se l’Iniziativa Europea d’Intervento vedesse la  piena e concreta adesione degli Stati europei più “pesanti”, rischierebbe di precludere qualsiasi progetto finalizzato alla creazione della Difesa Europea . Da qui il benestare della NATO, influenzata apertamente dalla posizione USA. Se le risorse europee per la politica militare vengono dirottate su questa iniziativa, si allontana la realizzazione del progetto di Difesa UE, l’unico capace di minare la sopravvivenza della stessa NATO.


=== 3 ===

ORIG.: Manöver in zivilem Umfeld (GFP, 02.07.2018)
Die Bundeswehr weitet ihre gegen Russland gerichteten Trainingsaktivitäten drastisch aus.. Vorbereitet wird gegenwärtig die Übernahme der Führung der NATO-"Speerspitze" im kommenden Jahr und deren Beteiligung an dem NATO-Großmanöver "Trident Juncture" Ende dieses Jahres. Kern der auch als "Very High Readiness Joint Task Force" (VJTF) bezeichneten, 8.000 Soldaten umfassenden "Speerspitze" ist die im niedersächsischen Munster stationierte Panzerlehrbrigade 9 der deutschen Streitkräfte, zu deren zentralen Aufgaben offenbar die Kriegsführung im zivilen Umfeld gehört. Erst in der vergangenen Woche wurde die Truppe mit "Bestnote" als Gefechtsverband der NATO zertifiziert - nachdem sie ihre Fähigkeiten im "Häuserkampf" unter Beweis gestellt hatte. Schon im April absolvierten Teile der Einheit eine Übung, bei der sie ihre Gefechtsstände nicht auf einem Manövergelände einrichteten, sondern auf regulär bewirtschafteten Bauernhöfen. "Getarnte Transportpanzer" hätten "neben Treckern und Landmaschinen" gestanden, erklärt die Bundeswehr - "hautnah" zur Zivilbevölkerung...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7657/


https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/7659/

Maneuver in Civilian Setting

07/02/2018

BERLIN(Own report) - The German Bundeswehr is drastically expanding its training activities directed against Russia, in preparation to take command of NATO´s "spearhead" force next year and its participation in NATO's major "Trident Juncture" exercises at the end of this year. The German army's 9th Armored Demonstration Brigade stationed in Munster (Lower-Saxony) forms the core of the 8,000-strong "Very High Readiness Joint Task Force" (VJTF), NATO's "spearhead" unit. Combat in civilian settings is obviously one of its major tasks. Just recently, the Brigade was awarded a "top grade" as a NATO combat unit - after demonstrating its house-to-house-combat capabilities. Already last April, sections of the Brigade had participated in an exercise with command posts set up not on a combat training ground but on regularly run farms. "Camouflaged armored personnel carriers" were standing "alongside tractors and other agricultural machines," the Bundeswehr noted - "at close range" to the civilian population.

 

War in the City

On June 19, NATO awarded the 9th Armored Demonstration Brigade's "Very High Readiness Joint Task Force Land" (VJTF - L) combat unit the "top grade" following a large exercise at the combat training center in Altmark (Saxony-Anhalt), the Bundeswehr announced.[1] The center includes the Schnöggersburg training town, with its nearly 500 buildings, divided into the "historic old city," various residential areas, an industrial district and a slum. (german-foreign-policy.com reported.[2]) The 1,700 German, Dutch, and Norwegian soldiers - with more than 80 armored combat vehicles, including German Leopard 2A6 battle tanks - had demonstrated their house-to-house-combat capabilities, notes the Bundeswehr. "In a rapid assault, battle tanks and Dutch soldiers prepared the operation for Norwegian infantry in the town. Together with the Norwegians, German light and mechanized infantry were waging battles in the military training town from house to house and from floor to floor."[3]

War on the Farm

Already last April, a unit of Germany's 9th Armored Demonstration Brigade was training for combat in a civilian setting - to prepare its "mission" as part of the VJTF. Soldiers of the 3rd Reconnaissance Demonstration Battalion stationed in Lüneburg (Lower Saxony) did not set up its command posts on a combat training ground, but rather on regularly run farms in the region. According to the Bundeswehr, "camouflaged armored personnel carriers" were thus standing "alongside tractors and other agricultural machines" and "soldiers were among the farm workers." Officials celebrate the exercise as a successful PR action. "For many of the curious" it was a "welcomed change from every-day life," because they could observe "at close range" the education and training of the soldiers. However, one can also see it as soldiers practicing how to use the civilians on hand as human shields: "See much without being seen," is the 3rd Reconnaissance Demonstration Battalion's motto.[4]

War in the Village

Last year's maneuvers, wherein Bundeswehr VJTF units were involved, tended also to be geared toward preparations for war scenarios in civilian settings. Within the framework of the 2017 "Icy Heather" military exercises, for example, troops of the 91st Light Infantry Battalion practiced "retaking" a village occupied by "enemy forces," according to the official description.[5] In February 2017, the Baumholder training grounds (in Germany's Rhineland-Palatinate) hosted another VJTF maneuver. The 325th Artillery Demonstration Battalion explained that the training included not only "support fire for combat troops," but also "combat against objectives ... in the depths of the combat zone" along with the "laying of mortar mine barriers" and "precision combat of high-profile targets at great distances." The troops were supported, according to the maneuver report, by tornado jet fighters dropping 250 kg 25E Matra bombs.[6] German military press reports that this type of bomb serves primarily to destroy "soft" targets - civilian targets - "buildings," "streets," "rail lines," and "supply installations" are explicitly named.[7]

Combat Ready

Recently Germany's Inspector General, Lt. Gen. Jörg Vollmer, showed confidence in the results of this training, saying that by next year, the VJTF under Bundeswehr command will "react rapidly to all possible scenarios and carry out its mission appropriately." The general also made it absolutely clear that the VJTF has all of the necessary tanks and artillery systems at their disposal to fulfill its mission." "There is no question of us having to do without any kind of heavy machinery needed to complete our eventual mission." In this context, Vollmer pointed to the participation of Germany's VJTF units in NATO's major "Trident Juncture" maneuvers later in the year. "These exercises are an important milestone. NATO will put the VJTF armored combat group to the test and certify its combat readiness. I have no doubt of this."[8]

Combat Exercises against Russia

In the meantime, the leadership of the western military alliance has begun to release initial details about the "Trident Juncture." The maneuvers will be held in October/November in Norway and Iceland, with more than 40,000 soldiers coming from NATO countries and the still officially neutral Finland and Sweden. As Admiral James Foggo (USA), commander of the maneuvers explained in a press conference, an "Article 5 scenario" will be exercised, wherein the western military alliance will be sending the German-.commanded VJTF in reaction to the "violation of Norway's sovereignty" by an aggressor. The representatives of the media, approvingly accepted the fact that, given the situation, only Russia could be meant as "aggressor" - and from NATO, this presumption was not contradicted.[9]

"Total Defense"

Analogous to "Trident Juncture 2015" (german-foreign-policy.com reported [10]) it was announced that NATO seeks to demonstrate its ability to "defend and provide a deterrent effect, ready to respond to any threat, from any direction at any time." The German perception of "highly intensive" warfare, carried out in a civilian setting, is evidently the general standard. According to the Norwegian representative at NATO's Military Committee, Vice Admiral Ketil Olsen, it is all about establishing a "total defense concept," wherein the sum of "civilian and military efforts" are bundled to handle a "crisis."[11]

 
 

[1] Zertifiziert - Speerspitze der NATO ist kampfbereit. deutschesheer.de 21.06.2018.

[2] See also Urban Operations (II).

[3] Zertifiziert - Speerspitze der NATO ist kampfbereit. deutschesheer.de 21.06.2018.

[4] Vorbereitung VJTF - zwischen Treckern und Landmaschinen. deutschesheer.de 27.04.2018.

[5] Schnelle Eingreiftruppe der NATO: Ein personeller und materieller Kraftakt. bundeswehr.de 13.04.2018.

[6] VJTF-Übung: Artilleristen beweisen sich in Baumholder. deutschesheer.de 03.04.2017.

[7] Die Bewaffnung fliegender Waffensysteme der Luftwaffe. hardthoehenkurier.de.

[8] Deutscher Anteil der NATO-Speerspitze ist zeitgerecht einsatzbereit. deutschesheer.de 07.05.2018.

[9] Press briefing on Exercise Trident Juncture 2018. nato.int 11.06.2018.

[10] See also Message to the World.

[11] Press briefing on Exercise Trident Juncture 2018. nato.int 11.06.2018.