Informazione
Pisa, sabato 10 novembre 2018
nell'ambito del Pisa Book Festival, Palazzo dei Congressi, Via Giacomo Matteotti 1 (mappa), alle ore 16 nella Sala Blu
presentazione del libro di ROSA D’AMICO
Tesori d'arte della Serbia medievale
Un viaggio tra Oriente e Occidente
Frankfurt: Zambon 2018
Oltre all'Autriceinterviene la professoressa Paola Vojnović.
Zambon Editore si trova allo stand A78.
Sabato e domenica ingresso gratuito per i minori di 18 anni.
Costo del biglietto intero 6 euro, ridotto 5 euro. Abbonamento speciale per i due giorni 10 euro.
Hanno diritto alla riduzione i soci ASI (Associazione senologica internazionale), i soci LILT (Lega Italia per la lotta contro i tumori), gli studenti universitari under 26, le persone al di sopra dei 60 anni. Venerdì ingresso gratuito per tutti.
Salta la fila: acquista ora il tuo biglietto su VivaTicket (disponibile biglietto intero e abbonamento).
--> altre info sul libro di Rosa D'Amico: https://www.cnj.it/home/it/cultura/8919-tesori-d-arte-della-serbia-medievale-orienta-menti-1.html
Regia di Elena Mozzetta
Uno spettacolo prodotto dal cp Anpi Viterbo tratto dai racconti di Nello Marignoli, partigiano viterbese combattente in Jugoslavia
Ideato da GIULIANO CALISTI E SILVIO ANTONINI
Testi teatrali PIETRO BENEDETTI
Consulenza letteraria ANTONELLO RICCI
Musiche BEVANO QUARTET E FIORE BENIGNI
Premiazione del concorso "G. Torre" per elaborati critici sul Tribunale per la ex Jugoslavia
La Commissione per l’attribuzione dei premi “Giuseppe Torre” per elaborati critici sul Tribunale per la ex Jugoslavia, ed. 2018, ha deciso di non attribuire il primo premio e di attribuire due secondi premi ex-aequo a Stefan Karganović e Jovan Milojevich (si veda il comunicato integrale della Giuria).
La PREMIAZIONE dei vincitori si terrà a Milano sabato 1 dicembre p.v., dalle ore 10:30 presso la Galleria Milano, Via Turati 14. Per ragioni organizzative gli interessati a partecipare [ad eccezione dei membri di Jugocoord ed invitati] devono inviare richiesta di iscrizione all'indirizzo jugocoord @ tiscali.it specificando: nome, cognome, telefono di ciascun partecipante. Solo in caso di raggiungimento del massimo della capienza sarà inviata risposta negativa entro 1-2 giorni dalla sottomissione della richiesta.
Programma:
ORE 10:30: Accoglienza
ORE 11:00: Saluti e introduzione del segretario della associazione promotrice Jugocoord Onlus: Andrea Martocchia.
ORE 11:15: Dichiarazione della Giuria del Concorso a cura del membro delegato: Jean Toschi Marazzani Visconti.
ORE 11:30: Premiazioni ed interventi dei vincitori
Stefan Karganović: "ICTY and Srebrenica" [Il TPIY e Srebrenica]
Jovan Milojevich: "When justice fails: Re-raising the Question of Ethnic Bias at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY)” [Quando la giustizia fallisce: riprendendo la questione del pregiudizio etnico al Tribunale penale Internazionale sulla ex Jugoslavia (TPIY)]
ORE 12:00: Proiezione di stralci dal documentario "De Zaak Milosevic" ("Il caso Milosevic", di Jos de Putter / VPRO, Olanda 2003, V.O. sottotitolata).
ORE 12:15: Interventi degli invitati:
Gen. Giorgio Blais, già responsabile di missioni militari all'estero, esperto di Diritto internazionale ed umanitario e protezione dei Beni Culturali
Tiphaine Dickson, già avvocato difensore in casi di crimine internazionale, capo consulente al Tribunale Penale Internazionale sul Ruanda, ex consigliere legale nel processo Milosevic e ora docente alla Scuola di Amministrazione Mark O. Hatfield della Portland State University (Stati Uniti)
Slobodan Lazarević, giornalista, presidente del Consiglio Direttivo della Associazione Sloboda–Libertà, Belgrado
ORE 12:45: Discussione e conclusioni.
ORE 13:15: Aperitivo.
I lavori si terranno nelle lingue INGLESE ed ITALIANO. È gradita una sottoscrizione libera a copertura dei costi
Il bando di concorso: https://www.cnj.it/home/it/diritto-internazionale/8684-premi-giuseppe-torre-per-elaborati-critici-sul-tribunale-per-la-ex-jugoslavia.html
UNA STORIA DI OPERAI JUGOSLAVI
Sinossi
Il film documentario racconta la vita di Rade Končar, Segretario del Partito Comunista Croato, giustiziato dagli italiani nella Seconda Guerra Mondiale e di sua moglie Dragica, barbaramente uccisa, nello stesso periodo, dagli ustaša.
La ricostruzione storica è integrata dalle testimonianze di Bude Končar, fratello e cognato dei protagonisti, Slavko Lukas, processato dagli italiani assieme a Rade Končar e di numerosi partigiani e antifascisti.
Il saggista Giacomo Scotti offre ulteriori spunti per riflettere sull’occupazione italiana della Jugoslavia.
La Jugoslavia è vista negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, caratterizzati dalla crisi economica e dalle lotte sindacali, durante la criminale occupazione tedesca e italiana, fino alla liberazione.
I testimoni intervistati vengono raggiunti viaggiando nella ex Jugoslavia, tra i ricordi del passato, spesso deturpati e la nuova organizzazione economica e statale.
Dichiarazione degli autori
Gli Italiani non hanno ancora provato ad analizzare seriamente la storia dei crimini nei confronti dei popoli da loro occupati, facendo una dannosa e talvolta ridicola opera di rimozione.
Bio filmografie degli autori
Tamara Bellone (Torino 13 agosto 1952)
da quindici anni realizza video ammessi a concorsi nazionali e internazionali.
“Bentornato” realizzato con Piera Tacchino ha vinto il premio “Round” (Rimini) per il miglior video e il premio “Anpi” al Valsusa Film Festival
“Tecka Breda” realizzato con Piera Tacchino e Boris Bellone ha vinto il premio per “La storia più bella” al Valsusa Film Festival
“Grecia – Appunti sui danni causati dall’occupazione italiana”, un documentario di 90’, realizzato con Nietta Fiorentino, Ghiorgos Korras e Piera Tacchino ha avuto una considerevole diffusione in Italia, in alcune università estere ed è stato proiettato ed apprezzato in Grecia.
L’autrice ha partecipato al film collettivo “Walls and Borders”.
Ha scritto alcune sceneggiature con Paolo Docile e Piera Tacchino riscuotendo premi e/o riconoscimenti.
Gordana Pavlović (Rača, Serbia 15 maggio 1965)
impegnata nella diffusione delle informazioni sulla situazione economica e sociale della ex Jugoslavia e nella conservazione della memoria storica e delle tradizioni popolari, organizza eventi culturali. Ha fondato un’associazione non governativa che si occupa dei profughi dei territori della ex-Jugoslavia.
Piera Tacchino (Torino, 10 luglio 1952)
da quindici anni realizza video ammessi a concorsi nazionali e internazionali.
“Bentornato” realizzato con Tamara Bellone ha vinto il premio “Round” (Rimini) per il miglior video e il premio “Anpi” al Valsusa film Festival
“Teška Breda” realizzato con Tamara Bellone e Boris Bellone ha vinto il premio per “La storia più bella” al Valsusa Film Festival.
“Grecia – appunti sui danni causati dall’occupazione italiana”, un documentario di 90’, realizzato con Tamara Bellone, Nietta Fiorentino, Ghiorgos Korras, ha avuto una considerevole diffusione Italia e in alcune università estere, è stato proiettato ed apprezzato in Grecia.
L’autrice ha partecipato al film collettivo “Walls and Borders”.
Ha scritto alcune sceneggiature con Paolo Docile e Tamara Bellone riscuotendo premi e/o riconoscimenti. Ha realizzato alcuni video con Roberto Sardo.
Socijalistička radnička partija (SRP) najoštrije osuđuje novi vandalski čin rušenja i daljnje devastacije spomeničke baštine iz antifašističke borbe u našem gradu, u ovom slučaju spomenika narodnom heroju Radi Končaru.
Ovakvi događaji više ne iznenađuju nikoga u zemlji kojoj se vlast odrekla antifašističke prošlosti. Tako nema službene proslave Dana pobjede nad fašizmom, dana koji je svojim civilizacijskim značajem postao i Danom Evrope, pa ga tako nema u svom kalendaru obilježavanja ni Grad Split, u zemlji u kojoj se „Za dom spremni“, iako je protuustavan, slobodno koristi! Isto tako, među drugim značajnim datumima u povijesti našeg grada, na štadarcu na Pjaci nema upisanog dana oslobođenja Splita od fašizma, jednako kao što nema ni jednog imena ulice, trga, škole, vrtića, tvornice i institucija po ličnostima i događajima iz toga burnog vremena, njih 128 uklonjenih sramnom odlukom Gradskog vijeća još 1992. godine.
Ovaj vandalizam ulice samo je refleksija politike koja se u ovoj zemlji vodi po pitanju odnosa prema događajima i rezultatima narodnooslobodilačke borbe, zemlji u kojoj caruju kvaziznanstvena revizija povijesti, a koja se svodi na notornu laž i uljepšavanje fašističke prošlosti.
Zahtijevamo od institucija da se zaustavi ovaj anticivilizacijski kulturocid te da se poznati počinitelji primjereno sankcioniraju.
Split, 7. 11. 2018.
Gradska organizacija SRP-a Split
Ranko Adorić
Thu 8 Nov 2018
In an incident condemned by authorities in the coastal town of Split as “savage vandalism”, police said the man dislodged a bust of Rade Končar, a celebrated leader of the resistance to Croatia’s pro-Nazi Ustasha regime during the second world war.
But the statue toppled and broke his leg, according to the regional paper Slobodna Dalmacija, in what some Croatian Twitter users said was the statue’s revenge.
“Rade Končar breaks the legs of fascists 76 years after they shot him,” centrist politician Krešo Beljak wrote on Twitter.
When asked by a judge if he would seek clemency, he allegedly replied: “I will not ask for mercy nor would I have it for you!”
Several thousand anti-fascist monuments have been vandalised or destroyed since Croatia’s independence in 1991.
Critics accuse Croatian authorities of turning a blind eye to the surge of nostalgia for the Ustasha – the former pro-Nazi regime that persecuted and killed hundreds of thousands of people, notably Serbs, anti-fascist Croats, Jews and Roma opponents.
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7763/
https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/7766/
DLF: Frau Wagenknecht, Roma è stata messa alla gogna. È giusto secondo lei?
Wagenknecht: beh, vorrei dire che non ho molta simpatia per il signor Salvini. Ma non è questo il punto. Questo è un governo democraticamente eletto. La legge di bilancio riguarda la sovranità dei parlamenti. E se vuoi distruggere l’UE, allora devi fare esattamente quello che sta facendo Bruxelles.
Inoltre bisogna anche parlare di quanto possa essere sensato costringere a fare ulteriore austerità un paese che da dieci anni attraversa una lunga crisi economica, un paese in cui il reddito pro capite è inferiore a quello precedente l’introduzione dell’euro, ovviamente ciò contribuisce a far crollare l’economia. Ecco perché penso si tratti di una decisione priva di senso.
DLF: allora, dal suo punto di vista, stiamo assistendo ad una protesta giustificata contro la politica di austerità di Bruxelles?
Wagenknecht: bisogna dare a questa proposta di bilancio un’occhiata un po’ più da vicino. Dentro ci sono cose molto ragionevoli. Ad esempio, l’Italia ha un altissimo tasso di disoccupazione, in particolare un elevato tasso di disoccupazione giovanile, in alcune zone del 30, 40 per cento, soprattutto nel sud del paese, e un’assicurazione contro la disoccupazione molto povera, peggio anche dell’Hartz IV tedesco, per fare un confronto. Se in questo ambito si apportano determinati miglioramenti, o se si migliora la legge per il prepensionamento, che in una situazione di elevata disoccupazione potrebbe essere un sollievo per molte persone, si tratta senza dubbio di una scelta ragionevole.
Ci sono alcune agevolazioni fiscali. A beneficiarne sono anche le persone ricche. Se ne puo’ certamente discutere. Ma ancora una volta: penso che semplicemente non sia la Commissione europea ad avere il potere di decidere in merito alla legge di bilancio dei diversi paesi, perché in questo modo stiamo distruggendo l’UE. Gli italiani non vogliono essere governati da Bruxelles, e non vogliono nemmeno essere governati da Berlino. Stiamo dando ad un governo, e in particolare ad un partito nazionalista, che in realtà è davvero semi-fascista, e a un certo signor Salvini, un’ottima possibilità per profilarsi politicamente. Sicuramente nel suo paese in questo modo sta ottenendo degli ottimi risultati e non finirà certo in difficoltà.
DLF: Frau Wagenknecht, lei ora parla di immischiarsi negli affari dell’Italia. Bisogna tuttavia ammettere che queste sono esattamente le procedure sottoscritte dagli stati dell’UE, e cioè presentare il loro bilancio a Bruxelles per farselo approvare. Tutto ciò affinché la politica fiscale europea rimanga nel complesso stabile e quindi anche l’euro sia stabile, senza finire in un’altra crisi monetaria. Possiamo davvero dire che in questo caso l’Italia può comunque andare avanti?
Wagenknecht: in primo luogo, ci sono dei trattati europei. C’è un criterio del deficit del tre percento. L’Italia è al di sotto di esso.
La seconda è una questione di ideologia economica, secondo la quale anche se un paese è in crisi deve comunque risparmiare per ridurre il debito. Fatto che è stato più volte confutato. Le economie non sono una cosa cosi’ semplice che se si risparmia, si riduce il debito, e se si aumenta la spesa, il debito sale. Sembrerebbe anche plausibile. Ma non funziona così, perché risparmiare o spendere ha delle conseguenze per l’attività economica. L’Italia per molti anni ha cercato di ridurre significativamente la spesa pubblica. Il debito continuava a salire mentre l’economia crollava. E anche questo non è un concetto molto ragionevole.
Bisogna dire: se vuoi spingere l’Italia fuori dall’euro – ed è quello che sta accadendo – devi fare esattamente cosi’.
DLF: allora non la preoccupa il fatto che l’Italia, stato membro dell’euro, abbia un debito pubblico che supera il 130 percento del PIL?
Wagenknecht: la questione è se si tratta solo del risultato della condotta di spesa del governo, o se invece è il risultato di una crisi economica che dura da anni. E direi che si tratta decisamente della seconda opzione.
Dobbiamo ovviamente anche parlarne a livello europeo. Se ora vuoi presentarti come il sommo sacerdote del debito pubblico basso, ma non sei stato in grado nemmeno di imporre un’azione a livello europeo, ad esempio per limitare il dumping fiscale delle imprese, cosa che sarebbe anche possibile, oppure imporre alcune regole che rendano piu’ difficile per le persone molto ricche eludere il fisco, allora diventa tutto molto ipocrita.Troverei sensato, se ad esempio, in Italia dove c’è una grande ricchezza privata – che è cresciuta anche durante la crisi economica, e oggi ci sono più milionari di dieci anni fa – questa venisse tassata molto più severamente. Allora naturalmente si potrebbe ridurre anche il deficit pubblico. Ma non è che l’UE abbia mai fatto delle leggi che rendano tutto ciò piu’ facile, anzi al contrario: le regole dell’UE rendono tutto più difficile. Proprio la Commissione europea con il signor Juncker ormai è la personificazione del dumping fiscale, soprattutto per le grandi imprese.
DLF: il dumping fiscale, Frau Wagenknecht, è un altro argomento. Voglio tornare ancora una volta a questo immenso debito pubblico. Secondo lei non è motivo di preoccupazione se uno Stato membro dell’area dell’euro ha così tanti debiti?
Wagenknecht: lei dice che il dumping fiscale è un altro problema. Il dumping fiscale e il debito pubblico sono due questioni fra loro strettamente collegate. Se sono proprio le grandi aziende a pagare poche tasse, oppure se nei singoli paesi sono i più ricchi quelli che pagano poche tasse, allora il debito pubblico naturalmente continuerà a crescere. L’intero dibattito in corso riguarda il fatto che l’Italia possa apportare dei limitati miglioramenti all’assicurazione contro la disoccupazione e alle pensioni. Il tema della discussione è del tutto sbagliato. Su questi temi, come ho detto, il governo italiano può ottenere consenso politico, proprio perché sono misure molto popolari nel paese, e non per nulla l’ultimo governo su questi temi ha fallito e non è stato rieletto perché la gente è stanca di vedere che le cose vanno sempre peggio, stanca di trovarsi in una situazione di emergenza sociale e di avere una disoccupazione alta. Se si fanno solo annunci, senza miglioramenti sociali, questa è un’Europa che rinuncia ad ogni credibilità.
DLF: la Commissione europea dovrebbe forse dire che in futuro intendono rinunciare alla funzione di controllo dei bilanci nazionali, e che chiunque può decidere autonomamente?
Wagenknecht: io sono per un’Europa delle democrazie sovrane e democrazia significa: le persone votano per eleggere il loro governo. Significa anche naturalmente che nessun altro paese sarà responsabile per i debiti degli altri paesi. Inoltre non penso sia giusto nemmeno se un paese pesantemente indebitato finisce nei guai e ad essere salvate con il denaro dei contribuenti sono sempre e solo le banche. Ma in Europa abbiamo una costruzione problematica, in quanto questa ci porta sempre piu’ verso una sospensione della democrazia, e ad una situazione in cui le persone possono votare chi vogliono, perché tanto alla fine saranno i tecnocrati di Bruxelles o addirittura il governo di Berlino ad avere l’ultima parola e a decidere in merito alle leggi di bilancio nazionali. L’Europa in questo modo non puo’ funzionare.
DLF: ma l’Italia ora vorrebbe entrambi. L’Italia vuole decidere autonomamente sul proprio bilancio, senza l’ingerenza di Bruxelles, ma allo stesso tempo vuole rimanere nell’euro e in caso di emergenza, avere anche il sostegno degli altri paesi dell’euro. Possono stare insieme le due cose?
Wagenknecht: no, le due cose non stanno insieme. Ma se continuiamo così, faremo uscire l’Italia dall’euro. Non so nemmeno se vogliano rimanerci a tutti i costi. L’euro ha portato relativamente pochi vantaggi all’Italia.
DLF: bene. Il governo di Roma, almeno, dice che vogliono assolutamente restarci. Questo è stato confermato ancora una volta dal Primo Ministro.
Wagenknecht: Finché sono dentro, devono dire cosi’, perché altrimenti lo spread e la speculazione sui mercati finanziari assumerebbe forme estreme. È già ora siamo in una situazione in cui questi extra-rendimenti non vengono pagati a causa delle dimensioni del debito. I titoli italiani pagano un elevato premio al rischio perché si ipotizza che l’Italia potrebbe lasciare l’euro, e naturalmente si tratta di una speculazione molto pericolosa. Tuttavia, sono la Commissione europea e la Banca centrale europea a gettare altra benzina sul fuoco. Voglio dire, per molti anni ha acquistato obbligazioni governative in una dimensione che, a mio avviso, non era affatto giustificata. Ma ora lancia un segnale di stop e, naturalmente, i rendimenti salgono.
Ancora una volta: se vogliamo che l’euro funzioni, allora deve funzionare su basi democratiche. E naturalmente, se la democrazia negli Stati membri è sospesa, il risultato in Europa sarà una crescente sensazione di frustrazione e di rifiuto, e l’affermazione del signor Salvini il quale non è certo conosciuto come un fervente sostenitore dell’Europa. Ci sono tuttavia altre opzioni, ovviamente, ma bisogna vedere se c’è la volontà di sostenerle e promuoverle.
DLF: Sahra Wagenknecht, è il capogruppo della Linke al Bundestag. Grazie per il suo tempo questa mattina.
»Ohne Italien gibt es keinen Euro mehr«
Italien befindet sich auf Konfrontationskurs mit Brüssel. Rom hält an seiner Erhöhung der Verschuldung in Höhe von 2,4 Prozent des Bruttoinlandsprodukts, BIP, fest. Wie sehen Sie diesen Konflikt?
Das von der italienischen Regierung für 2019 vorgesehene höhere Defizit kann ökonomisches Wachstum schaffen und damit die Senkung der Verschuldung ermöglichen. Man kann darüber anderer Meinung sein, aber eines steht fest: Das beste Argument dafür sind die Folgen der entgegengesetzten Politik, der Austerität. Unter der Regierung Mario Monti (Anm. der Redaktion: nach dem Rücktritt Berlusconis im November 2011 eingesetzte Regierung unter dem früheren EU-Kommissar Monti) wurde in Italien eine harte Sparpolitik verfolgt. Ergebnis: Einbruch des Bruttoinlandsprodukts und – als Folge – eine um 13 Prozent höhere Verschuldung im Verhältnis zum BIP.
Im übrigen sind die Berechnungen der Europäischen Kommission sehr fraglich. Beim Centro Europa Ricerche haben wir schon 2013 relevante Probleme aufgezeigt. Heute schätzt die Europäische Kommission, dass das italienische reale Wachstum 2019 in Italien sogar um 0,5 Prozent höher sein wird als das potentielle Wachstum, das heißt, mehr als angemessen, und das, obwohl wir eine Arbeitslosigkeit von über zehn Prozent haben!
Wie ernst ist der Streit zu nehmen, droht der ohnehin krisengeschüttelten EU nach dem Brexit ein weiterer Mitgliedsstaat abhandenzukommen?
Das weiß noch niemand. Die Absicht der EU-Behörden ist aber offensichtlich: Italien mit der griechischen »Kur« zu drohen, um die Dogmatik des Fiskalpaktes durchzusetzen. Diese Haltung wurde letzte Woche auch von David Folkerts-Landau, Chefvolkswirt der Deutschen Bank, sehr negativ beurteilt. Der Fiskalpakt gehört auf den Müll. Er war von Anfang an »töricht«, wie selbst die Financial Times damals schrieb. Auf dieser Torheit jetzt zu beharren, ist noch schlimmer.
Brüssel hat bisher immer nachgegeben. Auch die jüngste Erklärung von EU-Kommissar Günther Oettinger deutet Kompromissbereitschaft an.
Es ist wahr, dass zu Matteo Renzis Zeiten (Anm. der Red.: Premier 2014–16) wiederholt ein höheres Defizit als das heutige geduldet wurde, dass Frankreich neun Jahre lang folgenlos ein exzessives Defizit hatte und dass 2016 Portugal und Spanien bestraft wurden – mit null Euro. Diesmal scheint die Lage vorerst anders zu sein, und zwar aus politischen Gründen. Entweder wird eine Lösung gefunden, oder die anschließende Krise wird die Grenzen Italiens überschreiten. Die »Ansteckung« wird nicht auf sich warten lassen. Sollte es einen »Italexit« geben, muss man sich darüber im Klaren sein: Ohne Italien gibt es keinen Euro mehr.
Wie steht es um die Wahlversprechen der rechten Fünf-Sterne-Bewegung – Grundeinkommen, Verbesserungen für die Rentner, Steuererleichterungen –, sind sie überhaupt finanzierbar?
Im Prinzip schon – sie setzen keine Revolutionierung der sozialen Verhältnisse voraus. Es geht aber darum, aus dem neoliberalen Rahmen der Europäischen Verträge rauszukommen.. Es gibt einen Widerspruch zwischen den EU-Verträgen und unserer Verfassung. Die neoliberale EU hat überall die Rechte der Arbeiter zerstört.
Wie reagiert die Linke auf den Konflikt mit der EU?
Die linke Opposition im Parlament ist ja, abgesehen von einer linken Minderheit der Demokratischen Partei, nur noch durch »Freie und Gleiche«, LeU, vertreten. Wie es derzeit aussieht, besteht deren Hauptvorwurf darin, dass die Regierung den Fiskalpakt nicht respektieren will. Eine Ausnahme macht hier aus meiner Sicht nur Stefano Fassina von LeU. Damit bereitet die italienische Linke ihre nächste Niederlage vor. Man muss ganz anders vorgehen: Abgelehnt werden müssen die falschen Inhalte des Haushaltsbilanzprojektes, z. B. die unzureichenden Investitionen. Zur Wehr setzen muss man sich gegen die Lohndeflation, gegen die Altersarmut, gegen die auch in Italien wachsende Ungleichheit. Das heißt, es geht nicht nur darum, »mehr Defizit zu wagen«, sondern die Kräfteverhältnisse der Klassen zu verändern. Und dazu müssen die neoliberalen Regeln der Maastricht-EU abgeschafft werden. Eine EU, in der die Wettbewerbsfähigkeit nur darauf beruht, den Arbeitern weniger zu zahlen, ist eine EU der Vertreter der großen Konzerne und der Großbanken, und damit unser Hauptfeind. Auch deswegen sollte die Linke nicht den Fehler begehen, sich mit ihr – wenn auch nur »taktisch« gegen eine unerwünschte Regierung – zu alliieren. Anders gesagt: man darf den Rechten nicht – auch auf europäischer Ebene, mit der Alliance Salvini-Le Pen an der Spitze – den Kampf gegen diese EU überlassen.
Am 12.1.2019 referiert Vladimiro Giacché auf der XXIV. Internationalen Rosa Luxemburg Konferenz zum Thema »Die nächste imperialistische Krise«
- Domagoj Mihaljević
- Luka Bogdanić
Moderira
evento facebook: https://www.facebook.com/events/1953390421622283/
Tesori d'arte della Serbia medievale
Un viaggio tra Oriente e Occidente
di Rosa D'Amico
Frankfurt: Zambon 2018
pagine 144, 17x24 cm, 18 euro
con un inserto di 16 pagine a colori
ISBN: 978-88-98582-69-3
dalla Quarta di copertina:
Nel Medioevo proprio l’Italia fu, per vicinanza geografica, politica e culturale, la principale cassa di risonanza per la diffusione in Occidente di suggestioni bizantine e balcaniche. Purtroppo il debito contratto con quel mondo è stato a lungo quasi ignorato, a causa di secolari pregiudizi, incentivati anche dalla scarsa informazione sulla reale consistenza di un patrimonio, i cui maggiori monumenti sono in buona parte riaffiorati tra fine ’800 e inizi del ’900: salvo pochi vertici, l’intera arte bizantina è stata a lungo conosciuta in Italia soprattutto tramite opere tarde, o periferiche e «provinciali», che non rendono giustizia alla sua grandezza.
L'Autrice
Rosa D’Amico, dal 1976 al 2012 funzionaria della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Bologna, ha seguito nell’ambito della sua attività progetti di tutela, restauro e promozione culturale in città, nella provincia, e nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Ha curato numerose mostre e partecipato a pubblicazioni e convegni scientifici su vari argomenti, approfondendo in particolare gli studi sul periodo dal XIII al XV secolo.
Dal 1994 ha avviato, in collaborazione con le Istituzioni culturali di Bologna e di altri luoghi d’Italia, progetti di scambio con la Serbia, approfondendo in particolare gli studi sui rapporti storico-artistici, con interventi a convegni e pubblicazioni e curando diverse iniziative espositive. È membro del Comitato scientifico-artistico di Jugocoord Onlus.
[Immagini anni 1960]
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zhPm0Zghoy4
Nel corso di un'intervista rilasciata nel 2009 a una tv russa, Gheddafi tratteggia gli scenari possibili tra Ucraina, Russia e Unione Europea, prevedendo, di fatto, quanto avvenuto con il colpo di stato di Maidan...
In questo discorso, tratto dall'Assemblea della Lega Araba svoltasi in Siria nel 2008, l'allora leader libico Muammar Gheddafi pronuncia un discorso dal contenuto profetico sulla politica USA in Medio Oriente...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=CNEy0_r-IlU
Inizio messaggio inoltrato:Da: Marinella CorreggiaOggetto: Davanti all'ambasciata libica: due manifestazioni molto diverse (una nel 2011, l'altra oggi)Data: 25 novembre 2017
Le menzogne della Nato sull’aggressione alla Libia nel 2011
Marinella Correggia, giornalista freelance, collaboratrice de Il manifesto e storica attivista No War, quattro anni fa scrisse questo che possiamo come un capolavoro di “decostruzione” delle menzogne e della propaganda di guerra della Nato durante l’aggressione alla Libia nel 2011. Questo lavoro è stato pubblicato sul sito No War sibialiria..it. Ci sembra utile ripubblicarlo, ci sono informazioni importanti per comprendere cosa è successo allora in Libia e le sue ripercussioni sull’oggi, ma anche per imparare a non fare giornalismo “embedded” e servile verso gli apparati di potere, in questo caso la Nato.
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Durante i bombardamenti sulla Libia nel 2011, la Nato teneva conferenze stampa settimanali sia a Bruxelles che alla sede di Bagnoli (Napoli). Partecipavano giornalisti-tappetino che chiamavano per nome, affettuosi e deferenti, la portavoce Nato da Bruxelles (“Oanà” Longescu, romena) e il portavoce Nato da Napoli (“Roland” Lavoie, colonnello canadese). Sarebbe bastato uno stuolo di giornalisti decenti per metterli in crisi. Perché portavoce e generali si arrampicavano sugli specchi, per non dare a vedere crimini e illegalità. Ecco un resoconto diretto.
Per proteggere i civili in Libia, come ordinava il mandato della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza, la Nato avrebbe dovuto rivolgere droni e bombe contro se stessa e contro i suoi alleati locali del Cnt (Consiglio nazionale di transizione, i “ribelli”): visto che questi usavano armi indiscriminate sulle città assediate, in particolare Sirte e Bani Walid. E addirittura, per rimanere nei confini del proprio mandato, la Nato avrebbe dovuto bombardarsi e bombardare il Cnt per evitare attacchi alle forze governative libiche quando queste non minacciavano i civili.
Di fatto gli armati del Cnt sono stati gli unici libici che la Nato ha protetto, permettendo dunque che essi minacciassero e uccidessero civili libici (e non libici). Surreale. La Nato ha protetto armati (che minacciavano anche civili) in nome della norma Responsibility to Protect che doveva proteggere i civili. E la Nato ha protetto armati usando a gran forza aerei da guerra simbolicamente sventolanti il mandato della risoluzione 1973 che stabiliva il divieto di volo aereo, appunto a protezione dei civili.
Le implicite ammissioni, in un processo, valgono come prova? Se sì, ecco qui di seguito quelle della Nato, raccolte durante le surreali conferenze stampa al comando di Bagnoli (in mancanza di manifestazioni fuori dallo stesso, alle quali partecipare), od ottenute per email da “Nato source” (così chiedono di essere citati i vari capitani e graduati, italiani e Usa, maschi e femmine, da Napoli o da Bruxelles, quando rispondono per email alle domande dei media).
Dalla sede del comando Nato di Napoli, il colonnello Roland Lavoie ha parlato per mesi alle fedeli truppe mediatiche con un francese dal buffo accento canadese ingannevolmente innocuo. Dalla sede centrale di Bruxelles, la portavoce romena Oana Longescu – più realista del re, incarnando l’estensione dell’Alleanza ai fedeli paesi dell’Est Europa – si è giostrata seccamente fra l’inglese e il francese. Entrambi ripetevano in tutte le salse: impediamo alle “forze di Gheddafi” (mai usato il termine “esercito libico”) di colpire i civili. I giornalisti che frequentano le loro conferenze stampa settimanali da Bruxelles li chiamano per nome affettuosamente (i francofoni pronunciano “Oanà”), consoni al clima di cortesia e disponibilità che li fa sentire ammessi in società e che ricambiano non facendo mai domande scomode; per non diventare dei paria. Con silenzio glaciale e nessuna solidarietà i “colleghi” dei media mainstream accolsero infatti la paria in settembre e ottobre.
Si arrampicano sugli specchi per mesi, Oanà e Roland. Devono negare l’evidenza e cioè che la Nato lotta per il cambio di regime, insieme a una delle parti.
Sostengono a più riprese che non c’è alcun coordinamento con le forze dell’opposizione o forze ribelli; che la situazione viene seguita da “fonti di informazione alleate nell’area”. Dunque, ammettono la presenza a terra di occidentali? “Non ci sono forze Nato a terra” rispondono laconici. Per email i responsabili Nato spiegano: “Sia gli incaricati di individuare e approvare gli obiettivi sia il pilota rinunciavano se c’era il sospetto di ferire o uccidere civili. In alcuni casi l’osservazione video via aerea prendeva 50 ore prima dell’autorizzazione”. Inoltre, “abbiamo avvertito i civili con comunicati stampa, volantini e programmi radio di stare lontani da installazioni militari”.
Tuttavia sono state spesse colpite installazioni civili. Ma praticamente la Nato ha ammesso un solo caso di errore: i sette morti della famiglia Garari il 19 giugno a Tripoli, Suq Al Juma.
Intorno al 10 agosto di fronte alle foto di decine di civili uccisi da un aereo Nato nella notte dell’8 agosto a Zliten, il generale canadese Charles Bouchard (quando c’è lui alle conferenze stampa a Bagnoli la temperatura dell’aria condizionata va tenuta a 16 gradi) dice: “Non posso credere che quei civili fossero lì nelle prime ore del mattino, considerando anche le informazioni della nostra intelligence. Posso assicurarvi che non c’erano 85 civili; non posso assicurarvi che non ce ne fossero”.La Nato per email ribadiva che gli edifici erano un accampamento delle truppe, posto in una fattoria, e che l’osservazione e altri strumenti di intelligence avevano rilevato che non c’erano civili”.
Richiesta per email alla Nato: “Perché la Nato ha colpito un accampamento di soldati di Gheddafi? Un accampamento notturno non minaccia i civili in quel momento”. Risposta: “Sì che erano una minaccia reale. Durante tutto il conflitto, si riposavano per lanciare futuri attacchi ed ecco perché le aree di sosta militare erano obiettivi legittimi. Avrebbero potuto provocare future vittime. Le forze militari e le loro strutture erano attaccate solo se erano direttamente coinvolte o permettevano l’attacco ai civili; le truppe non coinvolte nell’attacco ai civili non erano prese di mira”. L’ultima frase contraddice le precedenti. Zliten era un’area pro-regime oltretutto.
Il 15 agosto spiegano che stanno bruciando a Brega due depositi petroliferi, “ulteriore prova che Gheddafi vuole distruggere o danneggiare infrastrutture chiave delle quali la popolazione avrà bisogno alla fine del conflitto”. Il 16 agosto alla Nato affermano che le forze di Gheddafi hanno “lanciato verso l’area di Brega un missile balistico a corto raggio che avrebbe potuto uccidere molti civili” e che “mostra che il regime di Gheddafi è disperato e continua a minacciare civili innocenti in Libia. Noi proteggiamo i civili per mandato del Consiglio di Sicurezza e continueremo a premere militarmente sulle forze pro-Gheddafi finché necessario”. Ovviamente “l’azione persistente e cumulativa della Nato crea un effetto ovvio: le forze di Gheddafi che attaccano stanno gradualmente perdendo la loro capacità di comandare, condurre e sostenere attacchi alla popolazione civile”. I gruppi armati – gli unici protetti dalla Nato in Libia – dunque sono sempre parificati alla popolazione civile.
Del resto in Tunisia un dirigente degli alleati locali della Nato, di fronte alla timida accusa da parte dei media “ma voi armati usate i viveri che l’Onu destina ai civili…” rispose secco: “Noi siamo dei civili”.
D’altro canto se dici a Lavoie che gli alleati Nato sul terreno uccidono civili e fanno (dopo la fine del regime) al caccia al nero e la Nato non protegge quei civili, Lavoie allarga le braccia: “Non siamo una forza di polizia”. Ammissione che un bombardamento non può proteggere i civili . E per email, alla domanda: “Come mai non proteggete gli abitanti di Tawergha deportati e i molti neri perseguitati ai vostri alleati? E anche in generale i civili presi nelle aree assediate?”, ecco la risposta: “Abbiamo fatto appello a entrambe le parti per la protezione dei diritti umani. La leadership del Cnt ha chiesto spesso alle sue forze di contenersi. E si è impegnata come nuova autorità al rispetto dei diritti umani; per metterlo in pratica occorrerà tempo e sforzo, e aiuto da parte internazionale. Mentre le forze pro-Gheddafi attaccavano i civili e le aree civili le forze del Cnt in molti casi prima dell’attacco aspettavano che i civili se ne andassero. Non abbiamo notizia che attaccassero civili deliberatamente e sistematicamente”. E dov’erano le prove degli attacchi sistematici da parte delle forze di Gheddafi?
La partigianeria è diventata evidentissima nel mortale assedio Nato e Cnt a Sirte. Se si faceva osservare a Lavoie che l’assedio a civili è un crimine di guerra, il colonnello rispondeva surrealmente: “Il Cnt ha mostrato l’intenzione di far uscire la popolazione civile”.
Mentre Sirte veniva distrutta dai bombardamenti e dai Grad e artiglieria pesante usati dagli armati del Cnt, il colonnello della Nato Lavoie dichiarava surrealmente: “La maggior parte della popolazione di Sirte e Bani Walid non corre più pericoli perché le rimanenti forze di Gheddafi stanno sulla difensiva, nel tentativo apparente di sfuggire alla cattura. Non controllano alcuna zona densamente popolata e non rappresentano più una vera e propria minaccia al di fuori di queste sacche di resistenza”. Minaccia per chi? Per i protetti dalla Nato: gli armati del Cnt. Ma la risoluzione Onu non doveva proteggere armati! Quando si scriveva alla Nato: “Risulta organizzazioni umanitarie libiche come Djebel al Akhdar, che oltre cinquanta civili siano rimasti sotto il bombardamento di un palazzo crollato all’angolo fra Dubai Avenue e Sept. 1st Avenue, e non poteva che essere un aereo visto il largo cratere prodotto” , la risposta era “non abbiamo indicazioni che sia vero”.
E il bombardamento dell’ospedale Avicenna? “Mai bombardato ospedali, nemmeno vicino a siti militari”. Altra domanda: la Nato sta indagando sui bombardamenti di strutture civili a Sirte? “I nostri obiettivi erano tutti militari dunque legittimi ex risoluzione 1973. Abbiamo agito con cautela, discernimento e precisione. Non siamo a conoscenza di alcuna prova che richiederebbe l’apertura di un’inchiesta formale”. E anche: “L’obiettivo della Nato è sempre stato evitare di colpire i civili. Abbiamo una intelligence solida e processi di selezione degli obiettivi molto stringenti. Consideravano il giorno della settimana, l’ora del giorno e della notte, la direzione dell’attacco. Le munizioni erano tutte di precisione e centinaia di obiettivi sono stata tralasciati per evitare rischi per i civili e le infrastrutture. Anche se in una complessa operazione militare i rischi non possono essere eliminati”.
Sirte distrutta, la Nato la spiega così: “Era l’ultimo bastione di Gheddafi. E’ stata contesta per settimane fra gheddafiani e Cnt”. E qui il surreale: “La Nato incoraggiava una soluzione pacifica. Ma dovevano essere le forze dell’ex regime a deporre le armi e a smettere di attaccare i civili”. Insomma, dovevano arrendersi e agevolare il cambio di regime anziché ostacolarlo.
I ribelli pro Nato del Cnt lanciano missili Grad dentro le città da essi assediate, e lo ammettevano . Sono considerati un’arma indiscriminata, dunque una minaccia per i civili, dalla stessa Alleanza; proprio all’uso dei Grad da parte dell’ex esercito libico, e all’assedio a Misurata, la Nato si era aggrappata in tutti i mesi passati per giustificare i bombardamenti “protettivi” e relative stragi. Sull’uso dei Grad da parte del Cnt la Nato interpellata via email (non) risponde così, dimostrando tutta la neutralità sbandierata da Oanà: “Fin dall’inizio il Cnt ha posto ogni cura nell’evitare vittime civili e crediamo che continuerà a farlo”. Forse l’intelligence Nato era selettiva e non vedeva i Grad del Cnt, né la caccia ai neri libici e stranieri e ai lealisti.
Surreali le dichiarazioni. Mentre le forze di Gheddafi sono in fuga e si concentrano nel triangolo dove hanno un più forte sostegno popolare, il portavoce il 13 settembre dice che “occupando e reprimendo città come Bani Walid e Sirte le forze di Gheddafi hanno preso in ostaggio la popolazione, esponendola a ovvi rischi, reprimendo la sollevazione e impedendo ai cittadini di andarsene”. Evidente i due pesi due misure rispetto a Misurata, o a Homs e Aleppo e molti altri luoghi in Siria, dove mai i ribelli sono accusati di prendere in ostaggio. “La Nato è riuscita a intercettare e annientare parecchie fonti di minaccia per la popolazione civile, fra cui carrarmati, lanciamissili ecc.; i veicoli della Nato hanno condotto svariate missioni di attacco ben dentro il deserto del Sahara per distruggere le infrastrutture di comando e controllo, un autoreparto e parecchi veicoli blindati impedendo quindi il rafforzamento delle posizioni del regime nel nord del paese”. Poi ricapitola citando la 1973: “Negli ultimi sei mesi le forze della Nato hanno mantenuto costante il ritmo delle operazioni, intervenendo laddove le forze di Ghedafi rappresentassero una minaccia per i civili, che si trattasse di Bengasi, di Misurata, di Sebha, nel sud o di molte altre città e villaggi di tutto il paese.
A riprova della sua imparzialità, la Nato conclude una conferenza stampa il 13 settembre dicendo “La ripresa della Libia è ben chiara e non lascia spazio a dubbi”.
L’assedio a Sirte ha reso la situazione umanitaria disperata. Dall’ospedale – anch’esso centrato da razzi – il dottor Abdullah Hmaid dichiarava alla Reuters che i pazienti morivano per mancanza di materiale ospedaliero e chiedeva a Croce rossa internazionale e Oms di aiutare a rompere il blocco. Ma nessuna organizzazione internazionale ha denunciato l’assedio. Eppure alla conferenza stampa del 27 settembre il colonnello Lavoie da Napoli ribadiva che l’emergenza di Sirte era solo “colpa dei miliziani e dei mercenari di Gheddafi” che non capivano che avrebbero dovuto “arrendersi” e “si piazzano vicino alle case e agli ospedali usando i civili come scudi umani”. Un’accusa che l’Alleanza i suoi paesi membri non hanno mai rivolta ai ribelli asserragliati a Misurata o, in seguito, a BabaAmr in Siria. Per definizione gli scudi umani li usano solo i cattivi.
Anche per email la Nato ribadisce implicitamente di aver lasciato fare agli alleati assedianti, e getta la colpa sugli assediati. In un’altra email: “I pro-Gheddafi si nascondevano nel centro della città per cercare di usare i civili come scudi umani contro il Cnt. La situazione umanitaria a Sirte era precipitata per gli sforzi delle truppe di Gheddafi di controllare punti di accesso. Checkpoint pro-Gheddafi e cecchini impedivano alle famiglie di spostarsi in aree più tranquille. Le forze di Gheddafi inoltre percorrevano le strade alla ricerca di sostenitori anti-Gheddafi, prendevano ostaggi e compivano esecuzioni”. Come fate a saperlo se non avevate militari a terra? “Non avevamo osservatori sul terreno ma usavamo i nostri asset di intelligence e sorveglianza per avere un quadro reale Monitoravamo con cura le linee di fronte per identificare chi attaccasse o minacciasse la popolazione.”. Era ovviamente impossibile monitorare da 10.000 metri. Dunque?
Il 21 settembre il comandante per le operazioni Nato in Libia Charles Bouchard spiega che “la nostra missione prosegue, perché le forze di Gheddafi minacciano ancora la popolazione”; “invitava i lealisti ad “arrendersi per garantire una fine pacifica del conflitto, anche perché sono circondati e non hanno vie di fuga, in quanto il territorio intorno a loro è nelle mani dei ribelli”. Quanto ai lealisti in fuga, la Nato non li attaccherà perché “si stanno allontanando dalla popolazione e non costituiscono così una minaccia per i civili”.
Ma è stata la Nato a fermare il convoglio in fuga di Gheddafi, e a farlo dunque uccidere.
Italia-Francia: il voltafaccia che ha destabilizzato Italia, Eurozona e Mediterraneo
Chi ancora contrappone – nella sua testa – una visione romantica e “internazionalista” dell’Unione Europea, contrapposta ai “nazionalismi” di destra, è bene che si metta a leggere qualcosa di serio. E rapidamente.
Qualche tonto grave – naturalmente “di sinistra” – è arrivato a comprendere nel mazzo dei “sovranismi” anche i popoli da tempo immemorabile in lotta per l’autodeterminazione (Palestinesi, Curdi, per non dire dei Catalani o dei Baschi), quindi l’urgenza è davvero pressante.
Consigliamo questo editoriale di Milano Finanza, quotidiano economico obbligato a dare notizie utili ai suoi lettori (debbono investire denaro, mica nutrire tristi passioni ideologiche…). Una descrizione impietosa degli interessi e degli obiettivi che negli ultimi dieci anni hanno contrapposto Italia e Francia (sia con governi di centrodestra che di centrosinistra) su quasi tutti i fronti. Economici, naturalmente.
Il quadro che ne risulta non è molto compatibile con l’immagine “sovra-nazionalista” dell’Unione, mentre corrisponde quasi esattamente a un tavolo da gioco dove tutti barano, ma qualcuno sa farlo meglio di altri. Dove, insomma, ciascuno persegue i propri obiettivi dietro lo schermo della “comunità” e i suoi “trattati”, senza minimamente curarsi della presunta “condivisioni di obiettivi e destino”; e tanto meno delle condizioni di vita e riproduzione delle rispettive popolazioni.
Ci sono gruppi industriali persi o a grave rischio di delocalizzazione della proprietà; interessi petroliferi e geostrategici per cui ci si spara per interposta “milizia tribale”, depositi finanziari rimasti senza proprietario originale e per cui si cercano prestanomi… Un tripudio di capitali e fondi neri, industrie rispettate e servizi segreti innominabili, mondo della moda e sgambetti poco diplomatici. Tutto quello che, insomma, ci fa vedere quanto la politica sia la continuazione della guerra con altri mezzi. E non solo il contrario clausewitziano…
Un quadro che rende più urgente fare pulizia anche nel linguaggio che usiamo, ormai quasi più senza la minima avvertenza critica, e che ci costringe a pensare secondo gli schemi del nostro nemico. Di classe, non “nazionale”.
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di Guido Salerno Aletta
Rapporti sempre più complicati, ormai dal 2011, tra Italia e Francia. Come se non bastassero le questioni sollevate dalle incursioni societarie in Tim e Mediaset, le asperità cui ha dato luogo l’acquisizione di Stx da parte di Fincantieri, e le ricorrenti prospettive di fusione tra Unicredit e SocGen da una parte e tra Generali ed Axa dall’altra, c’è un tema politico che ormai sovrasta tutto.
Dopo le polemiche estive sulla questione dell’accoglienza ai profughi e sul rimpatrio di quelli entrati clandestinamente in Francia dal valico di Ventimiglia, il Vice Premier italiano Matteo Salvini ha accusato apertamente la Francia di sobillare talune fazioni armate in Libia per scalzare i nostri interessi economici, suscitando la piccata reazione del Presidente francese Emmanuel Macron, che si è candidato alla leadership europea nel contrasto ai sovranismi ormai dirompenti. E’ una prospettiva, questa, davvero inedita.
Nei rapporti tra Italia e Francia, tutto è cambiato nel 2011. L’intervento anglo-francese in Libia, fortemente supportato dall’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton al fine di mettere fine al regime del Colonnello Gheddafi, ha determinato una frattura analoga a quella che nel 1981 fu causata dalla occupazione di Tunisi, con l’istaurazione di un Protettorato francese che scalzava in malo modo la forte presenza italiana e le prospettive di un suo progressivo rafforzamento. Anche in quella circostanza, come è accaduto nel 2011, l’isolamento diplomatico italiano fu palese e determinante.
Ancora tre anni prima, nel 2008, i rapporti tra Italia e Francia erano estremamente soddisfacenti e le rispettive strategie assolutamente convergenti. Nell’estate, infatti, sia il neo eletto Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy che il neo Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, inaugurarono i rispettivi mandati con un viaggio nelle due ex colonie, Algeria e Libia, per chiudere definitivamente i conti con quel passato e dare l’avvio ad una nuova stagione di collaborazione nel Mediterraneo. Francia ed Italia si muovevano all’unisono.
A Parigi, il 13 luglio, si riunì il Summit istitutivo della Unione Euromediterranea, sotto la co-Presidenza del Premier francese nella qualità di Presidente di turno della Ue e del Presidente egiziano Hosni Mubarak e con la partecipazione di ben 44 Paesi. Erano presenti i rappresentanti di tutti i Paesi dalla UE, dei partner del Processo di Barcellona, dei Paesi balcanici rivieraschi e del Principato di Monaco.
Il successivo 30 agosto, a Bengasi, fu firmato il Trattato di particolare amicizia tra Italia e Libia, che era stato preceduto dalla approvazione da parte del Congresso americano del Libyan Claims Resolution Act, n. 110-301, con cui si dava dato atto alla Libia di non perseguire più politiche di sostegno al terrorismo, accettando a titolo di risarcimento la somma di 1,5 miliardi di dollari per gli attentati di Lockerbie e di Berlino.
A Villa Madama, nel febbraio del 2009, Berlusconi e Sarkozy stipularono un Accordo davvero esemplare per il clima di collaborazione sotteso: fu lo stesso Premier francese ad annunciare una “partnership illimitata”, proclamando che “Italia e Francia parleranno con una sola voce in Europa per prendere decisioni forti”. Ed ancora, affermò che “Italia e Francia vogliono cambiare l’Europa per tutelare i cittadini europei e trarre insegnamenti dalla crisi: vogliamo sanzionare i paradisi fiscali, controllare gli hedge-fund e fissare nuove regole per la retribuzione dei banchieri, dei trader e per i bonus”. La cooperazione sul piano militare sarebbe stata ancor più solida: “Abbiamo gli stessi obiettivi di politica estera e abbiamo una politica economica comune. Potremmo fare un battaglione navale italo-francese”.
A mettere fine a questa intesa, ma soprattutto a scardinare la strategia di creare nel Mediterraneo un’area di cooperazione e di prosperità, fu l’Amministrazione Obama: sotto l’impulso decisivo del Segretario di Stato Hillary Clinton, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 si dette avvio alle cosiddette Primavere arabe. Le “democrature” arabe dovevano essere spazzate via, per fare posto a sistemi genuinamente democratici: la politica di repressione delle opposizioni, e la complicità dell’Occidente nel sostenere questi regimi illiberali, sarebbe stata la causa unificante del terrorismo islamico e dell’ostilità endemica nei confronti degli Usa. A peggiorare i rapporti, si aggiunse l’atteggiamento di irrisione verso Silvio Berlusconi assunto dalla coppia di ferro Merkel-Sarkozy nel corso del drammatico G20 di Nizza del novembre 2011: la debolezza italiana di fronte alla crisi finanziaria fu cavalcata in modo brutale. Il voltafaccia francese fu plateale.
Tutto nasce però dallo squilibrio di fondo nell’asse franco-tedesco, che si è aggravato nel corso degli ultimi anni: Parigi ha un deficit commerciale strutturale crescente, che è arrivato nel 2017 a 62,3 miliardi di euro, rispetto ai 48,3 miliardi del 2016. La Francia è il secondo Paese per destinazione dell’export tedesco, dopo gli Usa, con un attivo che secondo Destatis, l’Istituto di statistica tedesco, è arrivato nel 2017 a 41 miliardi di euro. La Germania, di converso, finanzia questo squilibrio con investimenti crescenti di portafoglio in titoli francesi: l’ammontare complessivo è passato dai 74 miliardi di euro del 2001 ai 212 miliardi del 2008, fino a raggiungere i 404 miliardi di euro nel giugno 2017: la morsa tedesca è sempre più stretta.
La situazione dell’Italia è di gran lunga migliore: non solo ha un avanzo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti pari al 3% del pil, ma nel 2017 il disavanzo commerciale con la Germania è stato di soli 9,6 miliardi di euro. Per quanto riguarda i rapporti italo-francesi, la Direzione delle Dogane di Parigi ha cifrato in 6,7 miliardi di euro lo squilibrio del movimento di merci Cif/Fob tra i due Paesi nel 2017. Dal punto di vista finanziario, a giugno dello scorso anno, le detenzioni italiane in emissioni francesi ammontavano a 163 miliardi di euro, mentre quelle francesi erano di 277 miliardi, in contrazione rispetto al picco di 374 miliardi del giugno 2014.
La Francia cerca quindi di recuperare lo squilibrio con la Germania, che è soprattutto geopolitico, attraverso l’acquisizione di grandi imprese italiane non manifatturiere: dal settore del lusso alla grande distribuzione, dalle telecomunicazioni alle televisioni, dall’alimentare all’energia, dalle banche alle gestioni di risparmio. Cerca inoltre di sottrarre potenziale nella competizione internazionale, sul piano commerciale, politico e strategico.
Il Mediterraneo è dunque l’area di maggior attrito tra Italia e Francia, con la Libia che rappresenta la punta dell’iceberg del confronto: a Tripoli, non ci sono in ballo solo gli interessi petroliferi, con le concessioni gestite dal NOC. Ci sono le detenzioni della LIA, il fondo sovrano libico con cui SocGen ha da sempre strette relazioni, che ammonterebbero ad oltre 50 miliardi di dollari e che comprendono fra l’altro le partecipazioni azionarie in Unicredit, e c’è la gestione degli attivi della Banca centrale libica che arriverebbero ad un valore doppio. In prospettiva, ci sono anche le commesse della ricostruzione, che fanno gola a tutti. Chi avrà dalla sua parte il governo libico, in un contesto pacificato, come è stato per l’Italia durante la prima fase della crisi finanziaria, potrà contare su un polmone finanziario di tutto rispetto.
Italia e Francia stanno giocando sul piano geopolitico due partite parallele, di mediazione in un quadro in continuo movimento. Roma ha margini di manovra assai maggiori rispetto a Parigi. La Francia è legata a filo doppio all’asse con la Germania, ed ha fatto della ostilità verso la Gran Bretagna una sorta di vessillo, dimenticandosi dell’aiuto ricevuto in due Guerre mondiali: punta sulla prospettiva di porsi alla guida di un futuribile esercito europeo per valorizzare il suo arsenale nucleare ed il seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Così facendo, però, si mette ancor più in rotta di collisione con gli Usa e la Gran Bretagna. Anche i recenti disordini in Libia non giovano affatto alla strategia francese, che contempla di arrivare alle elezioni a dicembre: in un contesto ritornato sfilacciato e conflittuale, risulta vincente la strategia italiana, che punta prioritariamente alla pacificazione fra le diverse componenti. A novembre, si terrà in Sicilia una Conferenza a tal fine, con la partecipazione anche di Cina, Qatar, Stati Uniti, Lega Araba e Onu: è un metodo diplomaticamente assai più coinvolgente rispetto agli incontri con i due soli leader libici, Al Sarraj ed Haftar, convocati da Emmanuel Macron all’Eliseo.
A partire dal 2011, Parigi ha scommesso sulla debolezza finanziaria italiana e sulla sua solitudine geopolitica, anziché mantenere fermi l’asse con Roma e la strategia comune a favore di uno sviluppo pacifico del Mediterraneo. Ha ceduto, ancora una volta: sia alle pressioni tedesche che a quelle anglo-americane, contribuendo in modo determinante alla destabilizzazione dell’Italia, dell’Eurozona e dell’intero Mediterraneo, guadagnando ben poco. Nessuna grande potenza ha mai consentito, da secoli, la colonizzazione dell’Italia. A Parigi, dovrebbero saperlo bene.
L’associazione Vittime della Nato in Libia lotta contro l’impunità dei potenti
di Marinella Correggia
Dalla guerra in Iraq nel 1991 a oggi, nessun tribunale internazionale ha mai processato e giudicato i vincitori delle guerre di aggressione condotte dall’Occidente e dagli alleati del Golfo. E dire che la guerra di aggressione è bandita in modo assoluto dalla carta delle nazioni unite ed è considerata il «crimine internazionale supremo» sin dall’epoca del tribunale di Norimberga (che però giudicò solo i vinti).
Alcune volte gli Stati presi di mira hanno provato a reagire ricorrendo a istanze internazionali (si pensi alla Jugoslavia durante i bombardamenti Nato del 1999); altre volte erano i cittadini danneggiati a provare le strade dei tribunali internazionali, sul lato penale e civile. Il primo non ha mai sortito effetti; per il secondo, alle vittime civili – «effetti collaterali» – afghane, irachene, pakistane sono stati elargiti risibili risarcimenti a cura dei responsabili, si vedano gli Usa con gli abitanti dei villaggi sterminati dai droni. Troppo poco, decisamente.
Si sta muovendo con coraggio contro l’impunità Khaled el Hamedi, cittadino libico, fondatore dell’associazione Vittime della Nato. Un bombardamento dell’operazione Unified Protector sterminò la sua famiglia il 20 giugno 2011 a Sorman. Dalle macerie furono estratti i corpi maciullati della moglie Safae Ahmed Azawi, incinta, dei suoi due figli piccoli Khaled e Alkhweldi, della nipote Salam, della zia Najia, del cugino Mohamed; uccisi anche i bambini dei suoi vicini di casa e due lavoratori. Abbiamo rivolto alcune domande al legale di Khaled, Jan Fermon, che sta preparando una conferenza stampa a Bruxelles, il 29 gennaio.
Avvocato Fermon, il 23 novembre 2017 la Corte d’appello di Bruxelles (Belgio, sede del Patto atlantico) ha risposto negativamente al ricorso del suo assistito Khaled el Hamidi; l’immunità della Nato è stata confermata…
E’ stata persa l’occasione di un passo avanti storico nell’applicazione della legislazione internazionale sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Una grande ingiustizia verso tante vittime. Khaled el Hamidi (che ora vive in esilio, ndr) è intenzionato ad andare avanti finché l’impunità non avrà fine.. Il fatto che la sede della Nato sia qui, ha aperto la strada alla possibilità di un processo civile.
Come mai la Nato gode dell’immunità, e dunque dell’impunità?
La Nato è un organismo interstatale e multilaterale; con il trattato di Ottawa del 1951, i paesi fondatori decisero per l’immunità dalla giurisdizione cioè l’impossibilità di processare (cosa diversa dall’immunità di esecuzione cioè l’impossibilità di applicare la punizione). E’ grave, trattandosi di un’organizzazione che può dunque impunemente decidere della vita e della morte delle persone in giro per il mondo. Non è certo un incentivo, per la Nato e per altri, a rispettare il diritto internazionale…Può sfociare nell’impunità per crimini di guerra.
Paradossale. Non ci sono limiti a questa immunità?
Sì, ci sarebbero, e questa è la base della nostra azione legale. Infatti l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti umani e altri strumenti internazionali prevedono che ogni cittadino abbia il diritto di accedere a un tribunale. E, per la Convenzione di Vienna, gli Stati devono rispettare i trattati che hanno firmato. Il diritto di accesso, tuttavia, non è assoluto e può subire limitazioni, appunto di fronte all’immunità delle organizzazioni internazionali, che hanno fini da perseguire. Ma c’è una giurisprudenza, anche da parte della Corte di cassazione belga, secondo la quale la limitazione nell’accesso ai giudici non è accettabile quando l’organizzazione internazionale che dovrebbe essere messa in stato di accusa non ha una sorta di tribunale interno accessibile da parte dei cittadini che hanno subito danni dal suo operato. La Nato è priva di questo meccanismo rispetto alle sue azioni in Libia.
https://www.cnj.it/home/it/cultura/8919-tesori-d-arte-della-serbia-medievale-orienta-menti-1.html
È disponibile il numero 1 della collana orientamenti di Jugocoord Onlus
Tesori d'arte della Serbia medievale
Un viaggio tra Oriente e Occidente
di Rosa D'Amico
Frankfurt: Zambon 2018
pagine 144, 17x24 cm, 18 euro
con un inserto di 16 pagine a colori
ISBN: 978-88-98582-69-3
altre info
Sommario
Introduzione 11
1. Per la costruzione di un ponte tra culture 11
2. Inquadramento storico: lo Stato serbo medievale, sul confine tra Oriente e Occidente 13
Capitolo 1. L’arte in Serbia al tempo della dominazione latina di Costantinopoli (1204‑1261) 19
1. Incroci e incontri in una terra di passaggio 19
1.1. Architettura e scultura dei monasteri serbi, tra Oriente e Occidente 19
1.2. La pittura bizantina e il rinascimento dell’arte antica al tempo della crisi 20
2. Il monastero di Studenica e la cattedrale di Žiča tra influssi romanici e bizantini 21
2.1. Studenica e la sua architettura al tempo di Nemanja 21
2.2. L’arte bizantina e i Nemanjić all’inizio del XIII secolo: la decorazione di Studenica 23
2.3. La cattedrale di Žiča 27
3. Mileševa nel contesto della scuola della Raška e del classicismo bizantino 30
4. Da Peć a Sopoćani 42
4.1. La fondazione della chiesa dei Santi Apostoli a Peć e i suoi affreschi più antichi 42
4.2. Il monastero di Sopoćani. Storia e architettura 44
4.3. Datazione e iconografia degli affreschi 47
4.4. Caratteri artistici delle pitture di Sopoćani 54
5. I grandi cantieri serbi del ’200 e i rapporti con l’Italia 58
Capitolo 2. Architettura e arte in Serbia al passaggio tra ’200 e ’300 63
1. Il monastero di Gradac, fondazione di Elena d’Angiò 63
1.1. Cambiamenti del linguaggio nell’arte bizantina tra la fine del ’200 e i primi del ’300 63
1.2. La chiesa dell’Annunciazione a Gradac tra tradizione e rinnovamento 64
2. La principale fondazione di Dragutin, Arilje 67
3. Al passaggio tra due secoli: recuperi e nuove tendenze 74
3.1. Il restauro dei Santi Apostoli a Peć. Gli interventi di fine secolo 74
3.2. Il restauro della cattedrale e del monastero di Žiča (1310) 76
Capitolo 3. I grandi cantieri della Serbia trecentesca: le fondazioni del re Milutin e l’attività di Michele Astrapa ed Eutichio 83
1. Una nuova fioritura artistica 83
2. Le fondazioni di Milutin: la cattedrale della Madonna di Ljeviša a Prizren 85
3. Le fondazioni di Milutin: San Giorgio a Staro Nagoričino in Macedonia 90
4. Le fondazioni di Milutin: la chiesa dei Santi Gioacchino ed Anna (Chiesa reale) nel complesso di Studenica 93
5. L’ultima fondazione di Milutin: il monastero di Gračanica 99
Capitolo 4. I grandi cantieri artistici nel periodo di massima espansione dello stato serbo 105
1. Il monastero di Dečani 105
1.1. Storia e architettura 105
1.2. La pittura «enciclopedica» bizantina e gli affreschi di Dečani 109
2. Gli interventi trecenteschi nel monastero di Peć 115
2.1. Aggiunte all’antico complesso: storia delle nuove fondazioni 115
2.2. Le pitture trecentesche nelle chiese del Patriarcato di Peć 118
Conclusioni. Le ultime fasi dell’arte nell’antica Serbia e le vicende dei monasteri dopo la conquista ottomana 123
Appendice 1. Genealogia 125
Appendice 2. Oggetti serbi in Italia: una testimonianza di un’identità dimenticata 127
Appendice 3. Appello della facoltà di arte applicata Filum di Kragujevac 133
Appendice 4. Gračanica 137
Elenco delle immagini 139
Elenco dei nomi e dei luoghi 144
Bibliografia citata 149
dalla Quarta di copertina:
Nel Medioevo proprio l’Italia fu, per vicinanza geografica, politica e culturale, la principale cassa di risonanza per la diffusione in Occidente di suggestioni bizantine e balcaniche. Purtroppo il debito contratto con quel mondo è stato a lungo quasi ignorato, a causa di secolari pregiudizi, incentivati anche dalla scarsa informazione sulla reale consistenza di un patrimonio, i cui maggiori monumenti sono in buona parte riaffiorati tra fine ’800 e inizi del ’900: salvo pochi vertici, l’intera arte bizantina è stata a lungo conosciuta in Italia soprattutto tramite opere tarde, o periferiche e «provinciali», che non rendono giustizia alla sua grandezza.
L'Autrice
Rosa D’Amico, dal 1976 al 2012 funzionaria della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Bologna, ha seguito nell’ambito della sua attività progetti di tutela, restauro e promozione culturale in città, nella provincia, e nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Ha curato numerose mostre e partecipato a pubblicazioni e convegni scientifici su vari argomenti, approfondendo in particolare gli studi sul periodo dal XIII al XV secolo.
Dal 1994 ha avviato, in collaborazione con le Istituzioni culturali di Bologna e di altri luoghi d’Italia, progetti di scambio con la Serbia, approfondendo in particolare gli studi sui rapporti storico-artistici, con interventi a convegni e pubblicazioni e curando diverse iniziative espositive. È membro del Comitato scientifico-artistico di Jugocoord Onlus.
La conoscenza della realtà jugoslava e balcanica nel nostro paese è meno che scarsa. Nonostante la prossimità geografica, le vicende comuni e gli inevitabili scambi culturali avuti nei secoli, la visione che permane egemone nella pubblica opinione è sintetizzabile con la ben nota locuzione: hic sunt leones. Se attorno al mondo slavo in genere prevalgono vuoi esotismo e intellettualismo vuoi pregiudizio e ostilità, sullo specifico jugoslavo dopo la crisi drammatica di fine Novecento è stata ulteriormente incoraggiata la propensione a rimuovere tutto quanto riguarda i caratteri al contempo unitari e multiformi di quello spazio culturale e storico-politico.
Perciò il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia Onlus si è dato come obiettivo costituente quello di rendere possibile una maggiore integrazione delle conoscenze in materia, ed a questo scopo "pubblicare libri, opuscoli, materiali audiovisivi" oltre che diffondere e rendere sempre disponibili informazioni con i moderni strumenti telematici e promuovere specifiche iniziative culturali ed informative.
In linea con questo intendimento viene promossa la collana orientamenti, la quale, intervenendo in territori della Conoscenza attualmente popolati poco e male, necessariamente si prefigge di fornire innanzitutto gli strumenti basilari – ripubblicando classici o traducendo testi importanti mai giunti prima in Italia, fornendo strumenti sintetici e divulgativi su temi diversi, rispondendo alle richieste di chi è veramente interessato a sapere e capire.
CONTENUTI DELLA COLLANA:
Arte e cultura slava e balcanica / Storia contemporanea / Movimento di Liberazione / Politica internazionale / Mondo slavo / Biografie / Movimento operaio e antifascista / Internazionalismo partigiano / Teoria politica / Linguistica / Nazionalità e identità / Amicizia tra i popoli / Macroeconomia / Materiali per la Associazione
L’accerchiamento batteriologico Usa della Russia
Torna di attualità a Mosca l’allarme per i laboratori biologici statunitensi sparsi nelle vicinanze dei confini russi. Secondo l’ex Ministro per la sicurezza georgiano, Igor Ghiorgadze, ci sarebbero le prove di attività illecite, da parte Centro di ricerche yankee Richard Lugar, aperto in Georgia all’epoca della presidenza del transfuga “ucraino-polacco” Mikhail Saakašvili. In una conferenza stampa a Mosca, Ghiorgadze ha dichiarato di essere in possesso di documenti che testimoniano di esperimenti biologici su esseri umani; in particolare, un elenco di 30 persone, ricoverate a suo tempo presso il Centro e decedute per epatite C: 24 di esse sarebbero morte nello stesso giorno. L’ex Ministro ha indirizzato una lettera aperta a Donald Trump chiedendogli di chiudere il laboratorio – il suo passaggio sotto giurisdizione georgiana, promesso sin dalla sua inaugurazione, non è ancora avvenuto – e condurre un’indagine sugli esperimenti.
Riportando la notizia, la Tass nota che gli Stati Uniti hanno sì firmato a suo tempo il Protocollo di Ginevra del 1925 che vieta l’uso di armi batteriologiche e la Convenzione del 1972 che proibisce lo sviluppo di armi batteriologiche e tossicologiche (BTWC); ma lo hanno fatto, con il codicillo secondo cui il divieto di sviluppo delle armi biologiche non proibisce le ricerche nel settore. E Mosca si dice seriamente preoccupata per il fatto che molti laboratori biologici segreti statunitensi si trovino in prossimità dei confini russi.
Dall’Armenia giunge la notizia secondo cui il nuovo Primo ministro Nikol Pašinian avrebbe consentito a specialisti russi l’accesso ai laboratori biologici americani nel paese. In un’intervista a Kommersant, Pašinian ha assicurato che in tali laboratori “non c’è nulla di preoccupante”, data la loro “alta qualità. Credo che sia un bene che ci siano qui tali qualificati laboratori, che in nessun caso possono essere usati contro la Russia” ha detto il Primo ministro armeno.
Di tutt’altro avviso l’ex consigliere russo del Segretario generale dell’ONU, Igor Nikulin, che da tempo lancia l’allarme sugli oltre 400 laboratori USA sparsi per il mondo, in cui si mettono a punto armi biologiche, indirizzate in particolare contro il codice genetico dei russi, dopo che il Pentagono, già un anno fa, aveva ammesso la raccolta di loro materiali biologici. Il Dipartimento della difesa aveva dichiarato che il Molecular Research Center del 59° Medical Air Group della US Air Force stava conducendo studi per identificare vari biomarker legati a lesioni, operando anche su campioni di origine russa, tanto che intendeva acquistare 12 campioni della molecola RNA e 27 campioni del liquido sinoviale di cittadini russi. L’annuncio pubblico specificava che doveva trattarsi di campioni di europoidi e non sarebbero state prese in considerazione persone, ad esempio, originarie dell’Ucraina. Lo stesso Vladimir Putin aveva accennato alla faccenda della raccolta di biomateriali “di diversi gruppi etnici e individui da punti diversi della Federazione Russa”, domandandone retoricamente lo scopo.
Ora, dopo diversi casi di ampi focolai di peste suina africana (ASF), lo stesso Nikulin, intervistato da Sputnik Lettonia, punta il dito sui laboratori biologici USA in Georgia e in Ucraina, sottolineando che la ASF potrebbe essersi espansa in Cina a partire da qualche paese dell’est europeo o del Caucaso, con cui Pechino ha intensi scambi di prodotti agricoli.
“Gli americani hanno una lunga esperienza in fatto di guerra biologica” dice Nikulin; “basti pensare a cosa hanno imbastito a suo tempo contro Cuba, a come ne hanno infettato i suini. Credo che l’America stia conducendo una guerra biologica permanente contro la Russia e un certo numero di paesi europei. Non ci sono dubbi che i focolai di ASF siano aumentati di molte volte negli ultimi anni, come non era mai accaduto prima, e proprio nelle aree più prossime a Georgia e Ucraina, dove si trovano questi laboratori americani” ha concluso Nikulin.
Sputnik Lettonia evidenzia anche come il mosaico di focolai di ASF offra un quadro abbastanza netto del poligono sperimentale in cui il Pentagono mette a punto le proprie armi biologiche e in cui rientrano anche i Paesi baltici. Lo scorso giugno, l’infezione fu rilevata in poche centinaia di suini in Lettonia; ma, poco dopo, in un solo allevamento nel distretto di Akmenė, in Lituania (proprio sul confine lettone), si sono dovuti abbattere quasi ventimila suini. Oggi, il governo di Vilnius promette incentivi agli agricoltori perché rinuncino all’allevamento di suini, dopo che si sono scoperti ancora 41 focolai di ASF. In Estonia, si sono dovuti abbattere alcune centinaia di cinghiali infetti.
Le statistiche sui focolai di ASF nei Paesi baltici, nota Sputnik, inducono a presumere che la non normale resistenza del virus alle condizioni climatiche settentrionali possa essere stata creata in laboratorio. Per di più, i focolai di ASF sono apparsi quasi simultaneamente su un fronte che va dalla da Georgia a Ucraina, Moldavia, Polonia e Paesi Baltici e coincide con una catena di laboratori biologici del Pentagono dislocati in Armenia, Azerbaidžan, Georgia, Kazakhstan, Kirghizia, Uzbekistan, Tadžikistan, Moldavia, Ucraina.
Sembra che il nord dell’Eurasia sia ora l’epicentro di tutte le malattie più pericolose, come lo erano stati i paesi latino-americani tra il 1949 e il ’69: Washington ha ammesso di aver condotto 239 esperimenti di armi batteriologiche proprio in quel ventennio. Ora, a quanto pare, si è spostato più a nord.
Sciami di insetti, che trasportano virus infettivi geneticamente modificati, attaccano le colture di un paese distruggendo la sua produzione alimentare: non è uno scenario da fantascienza, ma quanto sta preparando l’Agenzia del Pentagono per i progetti di ricerca scientifica avanzata (Darpa). Lo rivelano su Science, una delle più prestigiose riviste scientiche, cinque scienziati di due università tedesche e di una francese. Nel loro editoriale pubblicato il 5 ottobre, mettono fortemente in dubbio che il programma di ricerca della Darpa, denominato «Alleati insetti», abbia unicamente lo scopo dichiarato dall’Agenzia: quello di proteggere l’agricoltura statunitense dagli agenti patogeni, usando insetti quali vettori di virus infettivi geneticamente modificati che, trasmettendosi alle piante, ne modificano i cromosomi. Tale capacità – sostengono i cinque scienziati – appare «molto limitata». Vi è invece nel mondo scientifico «la vasta percezione che il programma abbia lo scopo di sviluppare agenti patogeni e loro vettori per scopi ostili», ossia «un nuovo sistema di bioarmi». Ciò viola la Convenzione sulle armi biologiche, entrata in vigore nel 1975 ma restata sulla carta soprattutto per il rifiuto statunitense di accettare ispezioni nei propri laboratori. I cinque scienziati specificano che «basterebbero facili semplificazioni per generare una nuova classe di armi biologiche, armi che sarebbero estremamente trasmissibili a specie agricole sensibili, spargendo insetti quali mezzi di trasporto».
Lo scenario di un attacco alle colture alimentari di Russia, Cina e altri paesi, condotto dal Pentagono con sciami di insetti che trasportano virus infettivi geneticamente modificati, non è fantascientifico. Quello della Darpa non è l’unico programma sull’uso di insetti a scopo bellico. Il Laboratorio di ricerca della US Navy ha commissionato alla Washington University di St. Louis una ricerca per trasformare le locuste in droni biologici. Attraverso un elettrodo impiantato nel cervello e un minuscolo trasmettitore sul dorso dell’insetto, l’operatore a terra può capire ciò che le antenne della locusta stanno captando. Questi insetti hanno una capacità olfattiva tale da percepire istantaneamente diversi tipi di sostanze chimiche nell’aria: ciò permette di individuare i depositi di esplosivi e altri impianti da colpire con un attacco aereo o missilistico. Scenari ancora più inquietanti emergono dall’editoriale dei cinque scienziati su Science. Quello della Darpa – sottolineano – è il primo programma per lo sviluppo di virus geneticamente modificati per essere diffusi nell’ambiente, i quali potrebbero infettare altri organismi «non solo nell’agricoltura».
In altre parole, tra gli organismi bersaglio dei virus infettivi trasportati da insetti potrebbe esservi anche quello umano. È noto che, nei laboratori statunitensi e in altri, sono state effettuate durante la guerra fredda ricerche su batteri e virus che, disseminati attraverso insetti (pulci, mosche, zecche), possono scatenare epidemie nel paese nemico. Tra questi il batterio Yersinia Pestis, causa della peste bubbonica (la temutissima «morte nera» del Medioevo) e il Virus Ebola, contagioso e letale. Con le tecniche oggi disponibili è possibile produrre nuovi tipi di agenti patogeni, disseminati da insetti, verso i quali la popolazione bersaglio non avrebbe difese. Le «piaghe» che, nel racconto biblico, si abbatterono sull’Egitto con immensi sciami di zanzare, mosche e locuste per volontà divina, possono oggi abbattersi realmente sul mondo intero per volontà umana. Non ce lo dicono i profeti, ma quegli scienziati restati umani.
Traduzione
Rachele Marmetti
Il Cronista
8. listopada 2018. / SRP
U ponedjeljak 8. listopada, u Hrvatskoj se obilježava tzv. Dan neovisnosti, ustvari događaj od pred 27 godina kada je Hrvatski sabor donio odluku o jednostranoj secesiji iz zajedničke države SFR Jugoslavije, što je za posljedicu imalo kontrarevolucionarnu promjenu društveno-političkog i ekonomskog sistema i otpočinjanje međuetničkog i međukonfesionalnog oružanog sukoba s elementima građanskog rata.
Tim povodom, u nedjelju je premijer Andrej Plenković uputio građanima Hrvatske samodopadno propagandno intoniranu čestitku. U čestitci je izneseno pregršt netočnih tvrdnji i neprovjerenih pretpostavki. Već na samom početku sporna je premijerova tvrdnja o Hrvatskoj kao samostalnoj i slobodnoj. Hrvatska nije samostalna, ona je dio svog suvereniteta prepustila u tuđe ruke, ona je duboko vazalna i nesamostalna u donošenju važnih odluka i zakonskih akata. Ona nema odriješene ruke u upravljanju vlastitom privredom, već mora za dopuštenje pitati svoje nadređene u EU, poput najnovijeg slučaja rješavanja krize u brodogradnji. Hrvatska nema vlastitu monetarnu politiku,jer je svoje banke prepustila tuđem kapitalu, također telekomunikacije, energetiku, vrijedne turističke objekte, a građani se snabdijevaju u trgovačkim lancima u stranom vlasništvu. Na vanjskom planu također Hrvatska je u više navrata sprovodila poteze suprotne svom interesu, a u korist međunarodnih imperijalističkih centara moći, poput događaja u Siriji, pitanju prava palestinske državnosti, slanja vojnika u tuđe udaljene krajeve s čijim žiteljima nismo u sukobu i iz kojih nam ne prijeti nikakva ugroza.
Navodni privredni rast, koji premjer spominje, demantira sve niži standard sve većeg broja građana, otpuštanja s posla, katastrofalno stanje u poljoprivredi i masovni odlazak mahom mladih i stručnih kadrova na rad u inozemstvo, a koji se u proteklih 27 godina broji u stotinama hiljada.
Kad tome dodamo kriminalnu pljačku društvene imovine, koja je stvarana od oslobođenja pa do secesije 90-ih, protjerano stanovništvo srpske nacionalnosti, koje se također broji u nekoliko stotina hiljada, s područja gdje su vjekovima živjeli, uništena i napuštena sela i naselja, porušene kuće i gospodarske objekte, onda se sasvim sigurno mnogi građani Hrvatske ne osjećaju ponosni kao što premijer sugerira.
Na kraju poruke, premijer spominje i evropske vrijednosti, naravno, paušalno bez obrazloženja, i Hrvatsku uključenost u njih. Međutim, evropske vrijednosti ne sastoje se samo od humanizma, prosvjetiteljstva, znanstvenih i kulturnih dostignuća, modernosti u korist čovječanstva, već među evropske „vrijednosti“ spada i permanentno nasilje vječne borbe koje su Evropljani vodili među sobom, ali i kao osvajači i kolonizatori koji su opljačkali enormna bogatstva, uništili i istrijebili čitave narode i civilizacije, uz blagoslov crkvenog klera. Na tlu Evrope su nastali fašizam i nacizam, započeta su dva najrazornija svjetska rata, industrijski su uništavani ljudi, žene i djeca u koncentracionim logorima. I dan danas sljedbenici fašističke ideologije marširaju uniformirani u evropskim gradovima i osvajaju politički prostor.
Vladimir Kapuralin
8. listopada 2018. / SRP
NATO varit će nam tugu, crninu i sramotu
Socijalistička radnička partija (SRP) upućuje oštar protest Vladi Republike Hrvatske izražavajući žestoko neslaganje, jednako kao i velika većina naših građana, s postupcima daljnje militarizacije ove zemlje činom nedavnog potpisivanja „Memoranduma o razumijevanju o uspostavi multinacionalnog središta u Zadru za obuku helikopterskih posada za provedbu specijalnih zadaća zrakoplovnih snaga“, čime Hrvatska široko otvara vrata prvoj NATO bazi na svom teritoriju. Smatramo to još jednim neodgovornim korakom s nesagledivim posljedicama uvlačenja zemlje u sve opasnije obračune na uzavreloj međunarodnoj sceni iz razloga ideološke, ekonomske i vojne dominacije alijanse, kao i neprihvaćanje sramne uloge izvođača ratnih radova za imperijalističke ciljeve po svijetu!
Već i sama izjava Rose Gottemoeller, zamjenice glavnog tajnika NATO-a, da će „centar biti namijenjen za obuku timova specijaliziranih za prijevoz specijalnih zračnih snaga u iznimno zahtjevnim misijama“, potvrđuje činjenicu da NATO u Hrvatskoj otvara bazu za obuku i potporu agresivnim misijama svojih trupa po ovom dijelu svijeta, kao i daljnju namjeru agresivne penetracije u širem regionu s ciljem dominacije.
NATO nema mandat u ovoj zemlji – od ovog naroda! Ali i ovim sporazumom, građani su ponovno dovedeni pred svršeni čin jednako kao kada se pristupalo ovom militantnom savezu 2009. odlukom saborskih zastupnika, bez prilike narodu da se referendumom izjasni po ovom važnom pitanju. Svrstavajući se uz samozvanog svjetskog policajca i ostale svjetske silnike, za čije interese već ginu naši ljudi na mnogim stranama svijeta, licemjerno zvuče riječi resornog ministra obrane prigodom potpisivanja Memoranduma „da je ovo veliki dan za Hrvatsku i Hrvatsku vojsku“.
Napuštajući politiku nesvrstanosti i miroljubive koegzistencije među zemljama s različitim političkim sistemima, politiku suradnje i nemiješanja u tuđe poslove, koja je u prošlosti Hrvatskoj u sklopu Jugoslavije stvorila izuzetan politički utjecaj i poštovanje cijelog svijeta, svojim „aktivnim partnerstvom“ u ovom vojnom savezu, koji poduzima intervencije i agresije širom svijeta – često i bez odobrenja OUN-a, među brojnim zemljama međunarodne zajednice bitno je ugrožen ugled jedne samostalne i suverene zemlje.
Ne pristajemo na otvaranje NATO baza u Hrvatskoj kako bi naša zemlja postala svojevrsni „nosač aviona“ za ratoborne akcije ovog saveza širom svijeta!
Stoga tražimo od Vlade da se ovaj štetni sporazum poništi u korist mira, razoružanja i opće demilitarizacije Balkana i svijeta te vraćanja svih vojski unutar svojih granica, što bi trebao biti jedan od osnovnih interesa i temelja politike na međunarodnom planu, a na tragu mnogih međunarodnih sporazuma i konvencija OUN-a, kao i zbog našeg turizma u tim krajevima koji će, postojanjem ove baze, biti iznimno ugrožen. Pozivamo građane Zadra i okolice, kao i ostale, da se javnim protestima suprotstave ovoj namjeri.
https://www.cnj.it/documentazione/ucraina.htm#uniati2014
https://www.cnj.it/documentazione/ucraina.htm#uniati2015
https://www.cnj.it/documentazione/ucraina.htm#uniati20172018
Mentre da quattro anni l'Ucraina è logorata dal conflitto con la Russia, si apre un nuovo fronte. La Chiesa ortodossa locale vuole staccarsi da Mosca. Reportage...
https://rep.repubblica.it/pwa/anteprima/2018/07/17/news/ucraina_russia_chiesa_ortodossa_scisma_religione_guerra-202001517/
Proprio in questi giorni in cui torna a scaldarsi la situazione sul fronte dove le autoproclamate repubbliche popolari resistono nell'isolamente internazionale, isolate proprio da quelle sinistre che hanno elevato papa Francesco a guida politica, lui accoglie a Roma un battaglione militare delle forze di Kiev. Come fu per l'incontro tra Wojtyla e Pinochet ancora una volta la chiesa si rivela strumento di tenuta e di copertura ideologica del nemico.
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2017/12/11/la-curiosa-lotta-alla-corruzione-nellucraina-golpista-098645
Alcuni sconosciuti non identificati, hanno attaccato con bombe molotov la Chiesa di Cyril e Methodius della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca a Pavlograd, nella Regione ucraina di Dnipro...
VIDEO: https://ok.ru/video/6271731076
Traduzione
Rachele Marmetti
Il Cronista
[1] « Conversation entre l’assistante du secrétaire d’État et l’ambassadeur US en Ukraine », par Andrey Fomin, Oriental Review(Russie), Réseau Voltaire, 7 février 2014.
[2] “La Turchia costringe le chiese ebraiche e cristiane turche a firmare una dichiarazione”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 14 agosto 2018.
by Jim Jatras
3 Oct, 2018
Sui prigionieri della Badia di Sulmona e del vicino campo di concentramento di Fonte d'Amore si vedano anche il saggio di R. Lolli "La presenza degli internati slavi nell'Appennino aquilano 1942-1944" – PDF: https://www.cnj.it/PARTIGIANI/JUGOSLAVI_IN_ITALIA/NOVO/testi_lolliAquilano.pdf – e gli altri link alla nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/documentazione/campiconcinita.htm#fontedamore .
SULMONA – DACHAU
8 ottobre 1943
Il 23 settembre 1943, nei territori occupati dalle truppe tedesche nacque la Repubblica Sociale Italiana, lo stato fantoccio della Germania nazista voluto da Hitler sulla base del progetto di satellizzazione economica, militare e politica dell’Italia.
L’occupazione dei comuni della Valle Peligna iniziò tra il 12 e il 13 settembre.
La mattina dell’8 ottobre, un reparto militare tedesco di stanza nel campo di concentramento di Fonte d’Amore requisì il carcere della Badia (l’abbazia di S. Spirito al Morrone) per esigenze di ordine logistico e militare. Giunti sul posto, i soldati tedeschi intimarono al direttore del carcere, Corrado De Jean, e alle guardie la consegna dell’edificio e di tutti i detenuti.
Si trattava di circa 380 reclusi provenienti in gran parte dai territori jugoslavi, greci e della Venezia Giulia condannati dai tribunali italiani di occupazione. Tra il 25 luglio e l’8 settembre, infatti, nonostante la caduta del governo fascista, i detenuti condannati nei territori di occupazione erano stati esclusi dal provvedimento di scarcerazione del ministro Gaetano Azzariti, riservato esclusivamente ai detenuti politici italiani, seppur con delle riserve e con non poche contraddizioni. Nel carcere della Badia, ad esempio, agli inizi di ottobre erano ancora presenti anche 14 antifascisti italiani (condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato), tra cui il socialista Giovanni Melodia (in seguito autore di diversi libri sulla deportazione nonché segretario generale dell'associazione nazionale ex-deportati nei campi nazisti - ANED). Inoltre vi erano anche decine di detenuti condannati per reati comuni e 9 uomini del vicino comune di Roccacasale rastrellati dai tedeschi e incarcerati con l’accusa di aver favorito la latitanza dei prigionieri alleati fuggiti dal vicino campo di concentramento di Fonte d’Amore.
Nel giro di 20 minuti tutti i prigionieri furono riuniti nel cortile principale del carcere della Badia e sotto la minaccia delle armi furono trasferiti presso la stazione ferroviaria di Sulmona.
Qui furono caricati su convogli solitamente utilizzati per il trasporto del bestiame e quindi deportati nel campo di concentramento di Dachau, dove giunsero il 13 ottobre dopo un viaggio di cinque giorni e sei notti.
Nelle settimane e nei mesi successivi molti furono trasferiti in altri campi e sottocampi della rete concentrazionaria nazista.
Secondo la documentazione attualmente disponibile, possiamo affermare che 117 deportati riuscirono a sopravvivere, 103 furono eliminati nel corso della detenzione, mentre sul destino di circa 170 deportati non si hanno ancora, allo stato attuale, notizie certe.
Dei 9 rastrellati di Roccacasale sopravvissero in 4. Tra i rimanenti 5, che furono eliminati, vi erano i due deportati più giovani di tutto il convoglio partito da Sulmona: Michele Scarpone e Angelo De Simone, entrambi di 16 anni.
Quella dell’8 ottobre 1943 fu una delle prime deportazioni dall'Italia verso il sistema concentrazionario nazista.
Il caso di Sulmona cadde immediatamente nell’oblio.
Nel dopoguerra fu istruito un processo che non fu mai celebrato.
Nella memoria collettiva non ne è rimasta alcuna traccia.
[risultati provvisori di una ricerca condotta da Mario Salzano, Università degli Studi di Teramo]
Le 17 septembre 2018, le secrétaire US à la Défense, le général Jim Mattis, est arrivé à l'aéroport de Skopje (Macédoine). Le personnel de l'ambassade US ne semble pas l'accueillir avec enthousiasme et son homologue macédonien est absent...
Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
02/10/2018
Il dato principale emerso durante il referendum di ieri è stato la scarsa affluenza della popolazione dell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Former Yugoslav Republic of Macedonia, FYROM), nonostante la pressione esercitata dal paese vicino di un folto gruppo di personalità della NATO, degli USA e dell'UE schierate per l'approvazione dell'Accordo di Prespa e per accelerare il processo di adesione del paese nelle organizzazioni imperialiste di cui sopra.
Nonostante la pressione internazionale, la scarsa partecipazione al referendum che poneva la questione di aderire o meno all'integrazione nella NATO e nell'UE, accettando l'Accordo, dimostra che una parte della popolazione dell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia ha una posizione negativa, o almeno un atteggiamento prudente nei confronti del ricatto contenuto nel quesito referendario: ossia che l'adesione a queste alleanze - sfavorevoli alle popolazioni - costituisca l'unica opzione possibile.
I risultati del referendum esprimono soprattutto le acute contraddizioni interimperialiste tra NATO - USA - UE da un lato e Russia dall'altro, nonché l'intervento delle forze nazionaliste..
Il governo SYRIZA - ANEL risulta compromesso per aver promosso, portando la bandiera della NATO, il ricatto di far approvare questo pericoloso accordo. Si dimostra ancora una volta che l'espansione delle alleanze imperialiste non può essere una risposta al nazionalismo, che è il rovescio della stessa medaglia.
La posizione avventurista di Zaev, che in sostanza ha annunciato di voler ignorare la bassa affluenza al referendum, mette in evidenza l'essenza della democrazia borghese. Non è la prima volta che si tenta di rovesciare i risultati di un referendum non graditi dai centri imperialisti. Su questo tema, il signor Tsipras può offrire una grande esperienza al signor Zaev.
È ovvio che nel futuro prossimo continueranno le pressioni per far accettare l'Accordo ai due popoli e che progredisca l'integrazione euro-atlantica nei Balcani occidentali. Gli antagonismi tra le grandi potenze, che stanno trasformando la regione più ampia in una polveriera, continueranno e si intensificheranno.
Il KKE invita il popolo greco e il popolo dell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia a delineare la loro lotta comune sulla base della solidarietà e del genuino internazionalismo, contro il nazionalismo e l'imperialismo, contro la NATO e l'UE e i loro governi e partiti. Su queste basi si può trovare una soluzione reciprocamente accettabile, tralasciando tutti i fenomeni irredentisti, con l'adozione di un nome che contenga un riferimento geografico.
Atene 1/10/2018
Ufficio stampa del CC del KKE
Traduzione
Rachele Marmetti
Il Cronista
by the NATO Secretary General Jens Stoltenberg and the President of the European Council Donald Tusk on the consultative referendum in the former Yugoslav Republic of Macedonia¹
DI ALBERTO TAROZZI
I greci avrebbero accettato una modifica della denominazione da loro fin qui imposta (Fyrom, che suona più o meno Repubblica di Macedonia della ex Jugoslavia) in una versione che doveva suonare come Macedonia del nord. Così facendo avrebbero anche tolto il veto alla entrata dei macedoni nella Ue.
L’iter per l’approvazione definitiva del cambio del nome non era comunque semplice. Dapprima il parere consultivo del referendum. Poi il voto del Parlamento macedone con la maggioranza dei due terzi. Infine un voto del parlamento greco. Sulla carta dunque referendum in sé importante ma non decisivo. Da come sono andate le cose, invece, risulterà probabilmente tale.
E’ andata infatti che il quorum è rimasto ben lontano (35% di votanti anziché il 50+1). Adesso il già difficile passo successivo si presenta come missione impossibile. Sulla carta infatti il parlamento vede 73 favorevoli al cambio del nome su 120 eletti. Mancanti 7 voti che i favorevoli pensavano di recuperare sull’onda di una marea di sì al referendum. Senza onda l’impresa diventa disperata e paiono avere ragione quei sostenitori del No che esultano nelle piazze.
Ma è una questione solo greco-macedone o si tratta di un problema internazionale? Senza dubbio è la seconda la risposta giusta. Non a caso il quesito referendario domandava non solo l’assenso alla nuova denominazione, ma indicava anche come, di conseguenza, l’elettore esprimesse parere favorevole all’entrata nella Ue e addirittura nella Nato. Qualcuno riteneva che così il Sì sarebbe divenuto più attraente, ma così non è stato.
I contrari, che si presentano come conservatori, ma sono anche filorussi sul piano internazionale, hanno saputo far valere non solo l’orgoglio nazionale, ma anche alcune contraddizioni della recente storia politica locale. L’equilibrio politico della Macedonia si era a lungo basato sul fatto che al governo del paese ci fosse una coalizione che contenesse un partito degli slavi e uno della minoranza albanese. Una sorta di vaccinazione contro eventuali guerre etniche di cui, sia pure per un periodo relativamente breve, anche i macedoni avevano sofferto.
Viceversa l’attuale coalizione maggioritaria (filo occidentale) vede al governo il partito socialdemocratico slavo e a lui alleati tre partiti albanesi. All’opposizione, e alla presidenza della Repubblica, i rappresentanti del partito slavo e conservatore, ma nemmeno un partito albanese. Prima di risolvere la questione in parlamento erano volati pugni e schiaffi.
Poi era prevalsa l’accettazione di un governo Zaev cui bastava sì il 50 % + 1 degli eletti per governare il paese. Ma al quale non bastano 73 parlamentari su 120 per ratificare l’accordo con i greci. Tanto più dopo che l’opposizione e la presidenza della Repubblica si erano espresse per il boicottaggio.del referendum
Macedonia dunque ancora lontana dalla Ue e non tanto vicina alla Nato, con grande soddisfazione della Russia, che intravvede la possibilità che la Macedonia Fyrom possa rappresentare una tappa dei suoi futuribili gasdotti.
Delusione anche per Tsipras che con la Ue avrebbe potuto probabilmente acquisire qualche merito in più. Delusi anche quegli intellettuali come Toni Negri e Etienne Balibar che avevano firmato una sottoscrizione a favore della nuova denominazione, a sbloccare un contenzioso greco macedone pluridecennale.
Zaev appena conosciuto l’esito, ha sostenuto che l’opposizione dovrebbe rispettare il volere dei cittadini che hanno partecipato al referendum votando Sì al 91%, alla modifica del nome del paese in parlamento. Zaev ha anche detto che se ciò non accadesse si dovranno fare elezioni anticipate. Là dove il clima si preannuncia particolarmente caldo.
La storia non permette rotture. Ogni cosa a suo tempo e questo non pare essere il tempo della Macedonia del nord.
Наводно не знамо какво се решење припрема за статус Косова и Метохије. Наводно позиције преговарача још увек су удаљене па смо још далеко од договора, односно, од решења. Наводно, Београд и Приштина преговарају а други само подржавају „свеобухватан“ договор који ће бити у интересу мира...
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Реч амбасадора Драгомира Вучићевића на промоцији књиге „1244 – кључ мира у Европи“ 28. септембра 2018. у СКЗ
Прилог одбрани права Србије на Косово и Метохију
У Српској књижевној задрузи промовисана је књига „1244 – кључ мира у Европи“, аутора Живадина Јовановића, дипломате и министра инстраних послова Југославије (1998. – 2000.). У присуству представника медија о књизи су говорили: Драгн Лакићевић, главни уредник Српске књижевне задруге, проф. др Мило Ломпар, Драгомир Вучићевић амбасадор у пензији и аутор.
Књига је збирка чланака, интервјуа и јавних иступања аутора објављених у домаћим и страним медијима у периоду од 1997. до септембра 2018. године (890 стр.) Подељена је у 5 поглавља – Време тероризма, Време агресије, Време илузија, Време отрежњавања и Прилози. Рецезенти су академик Владо Стругар, проф Мило Ломпар и амбасадор Чедомир Штрбац, а уредници амбасадор Драгомир Вучићевић и књижевник Драган Лакићевић. Издавачи су Београдски форум за свет равноправних и Српска књижевна задруга.
Говорећи о књизи, професор Мило Ломпар је указао да она одражава континуитет ставова аутора у заступању државотворног и националног интереса Србије и српског народа, који се препознаје у његовом вешедеценијском дипломатском раду и јавним иступањима. Истицање значаја Резолуције СБ УН 1244, треба разумети као израз дугорочног али и актуелног погледа на значај Косова и Метохије за Србију и српски народ. Питање Косова и Метохије дубоко задире у питање националне егзистенције и свести, а књига Живадина Јовановића снажно реафирмише државотворну традицију српског народа успостављену у 19. веку – нагласио је, поред осталог, професор Мило Ломпар. Као посебну вредност књиге, он је истакао њен документарни карактер.
Амбасадор Вучићевић је као основне тезе аутора издвојио: потребу да се Србија више окрене себи и својим дугорочним интересима а мање актуелним очекивањима од међународних фактора који се у односу на Србију руководе искључиво својим експанзионистичким геополитичким циљевима. Србија треба да се држи основних принципа међународног права и одлука СБ УН, свидело се то некоме или не, да гради уравнотежене однесе са свим међународним чиниоцима, а посебно са пријатељима који нису учествовали у агресији НАТО нити су признали једнострану сецесију. Вучићевић је издвојио и став аутора да је Европска унија потребна Србији само онолико колико је Србија потреба Унији, те да је чланство у ЕУ легитиман циљ уколико није условљено одрицањем од суверенитета и територијалног интегритета. Праведно и одрживо решење за Косово и Метохију могуће једино на основу поштовања принципа Повеље УН, Завршног документа ОЕБС-а, Резолуције СБ УН 1244 и Устава Србије. Настојања да се Србији уценама наметну решења која представљају легализацију кршења тих принципа и одлука водили би продубљивању нестабилности и гомилању конфликтног потенцијала на Балкану и у Европи – упозорио је Вучићевић.
Аутор је подсетио да се до Резолуције СБ УН 1244 дошло тешким двомесечним преговорима током агресије НАТО, уз посредовање Русије. По њему ни данас нема изгледа за постизање уравнотеженог, праведног и одрживог решења у билоком ужем формату, без директног учешћа Русије. Резолуција СБ УН 1244 је компромис интереса Србије али и интереса свих кључних чинилаца европских и светских односа укључујући Русију и Кину као сталне чланице СБ УН и силе растуће глобалне моћи. Ако агресија НАТО-а 1999. године није могла да се оконча без директног ангажовања Русије председника Јељцина, онда је данас, у условима мултиполарних светских односа, директно ангажовање Русије председника Путина у решавању проблема који су последица те агресије, императив. Покушај решавања проблема Косова и Метохије у уском оквиру ЕУ израз је тежњи да се искључе Русија и Кина и да се уценама наметну једнострани геополитички интереси Запада, односно ЕУ и НАТО. Ти интереси су огољени - конфронтација са Русијом и Кином
Прихватање или мирење са таквим настојањима не би водило одрживом компромису већ даљој дестабилизацији Балкана и Европе. Формат преговора у Брислу без Русије, подсећа на формат преговора у Минхену када су западне силе, тачно пре 80 година «бранила» људска права припадника нем,ачке националне мањине и «спашавале» мир силом одузимајући Судетску област од Чехословачке, игноришући супротне ставове СССР-а и спречавајући његову улогу. Ко је у том „споразумевању“ учествовао а ко је био искључен и до чега је „свеобухватни правно обавезујући споразум“ од 30. септембра 1938. довео, добро је познато – упозорио је Јовановић.
28. септембар 2018.
L'accordo tecnico-militare è una delle testimonianze più significative del dominio della politica di forza nelle relazioni, che non portarono mai nulla di buono né alla Serbia né all'Europa, né al mondo intero. La Serbia fu la prima vittima di una strategia di dominio e interventismo che, dopo il 1999 e il 2000, assunse un carattere globale.
L'aggressione della NATO del 1999, fin dall’inizio, non ha portato i risultati sperati dai pianificatori di Washington, Londra e Bruxelles, in quanto la S.R.J. (Difesa della Serbia) ha dimostrato di essere molto più forte e più dura di quanto da essi auspicato.
Parallelamente, all'interno dell'Alleanza ci sono stati conflitti, perché i generali americani non prendevano molto in considerazione le opinioni dei loro colleghi degli eserciti alleati europei sulla gestione delle operazioni, sulla scelta degli obiettivi e non solo.
Sul piano mediatico, l'Occidente stava vivendo fallimenti a causa delle bugie e delle pianificazioni come, ad esempio, il "Piano ferro di cavallo".
In queste condizioni, per la NATO e i governi degli stati membri era sempre più difficile mantenere il sostegno dell’opinione pubblica. Le proteste si moltiplicavano non solo nei paesi amici, specialmente in Russia e Cina, ma anche in tutto l'emisfero occidentale.
La Jugoslavia, attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, chiese un'azione di condanna della violazione della Carta delle Nazioni Unite; chiese altresì che venisse dato l’ordine di cessare l’aggressione. Inoltre cercò di far condannare l’aggressione e gli aggressori, e fermare la devastazione, le sofferenze delle persone, l’avvelenamento e la distruzione dell’ambiente, agendo in centri internazionali, come Ginevra (ONU), Vienna (OSCE), Parigi (UNESCO), L'Aia (Corte di giustizia), Nairobi (UNEP).
La nostra diplomazia in tutto il mondo ha insistito sulla condanna degli attacchi illegali, mettendo in evidenza, in particolare, il pericolo di creare un precedente che metterebbe in discussione l'intero sistema di sicurezza, per decenni pazientemente costruito sull’eredità della seconda guerra mondiale. Tutto ciò non ha avuto un impatto diretto sul processo decisionale nei forum internazionali, ma ha anche creato insoddisfazione e resistenza a livello internazionale, specialmente nell’opinione pubblica dei principali stati membri della NATO. Né i politici né i comandanti della NATO potevano ignorare tutto questo.
Nel processo di creazione di questo pacchetto di pace, tutte le principali potenze del mondo moderno sono state coinvolte direttamente, tra cui Russia e Cina, tutti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, tutti gli Stati membri del G8, l'Unione europea e la NATO.
In queste condizioni, da e attraverso la Russia, fin dall'inizio dell'aggressione, ci sono state iniziative finalizzate a trovare il modo di porre fine alla guerra.
La notizia dell’inizio dell'aggressione contro la Serbia (SRJ), ha sorpreso e irritato l'amministrazione di Bill Clinton, che era abituato ad un alto livello di cooperazione di Mosca, determinando l’inversione di rotta dell’aereo del primo ministro Yevgeny Primakov sopra l'Atlantico, con conseguente annullamento della sua visita a Washington e dei colloqui programmati con il vice presidente Al Gore.
In seguito, questo episodio porterà Al Gore e Clinton a chiedere a Jeltsin di nominare Viktor Chernomyrdin come suo inviato personale e mediatore nei negoziati con Slobodan Milosevic, escludendo totalmente Primakov, logico interlocutore.
In particolare, Milosevic e Primakov si conoscevano molto bene, si rispettavano a vicenda dato che, per un certo numero di anni, avevano condotto colloqui diretti, sia in merito alle questioni delle relazioni bilaterali, sia per la risoluzione della questione del Kosovo e Metohija.
Inoltre, durante le prime settimane dell'aggressione della NATO, Primakov, per conto della Russia, aveva mantenuto regolari contatti con i primi ministri di Germania (Gerhard Schroeder), Francia (Lionel Jospin), Gran Bretagna (Tony Blair), Italia (Massimo d'Alema), così come con i rappresentanti dell'amministrazione statunitense.
Primakov era quindi lo statista russo più informato su tutto ciò che era significativo sulla questione del Kosovo e Metohija.
Ma questo non servì a nulla. Gli americani non volevano Primakov ma Chernomyrdin, e Jeltsin ci teneva all'opinione degli americani.
Chernomyrdin, da un lato, teneva colloqui con i rappresentanti dell’amministrazione degli Stati Uniti; soprattutto con il Vice Presidente Al Gore e il Vice Segretario di Stato Strobe Talbott, con Martti Ahtisaari, che aveva lo status di SG delle Nazioni Unite e l'Unione europea, e con i leader dei principali paesi occidentali, e dall’altra parte, con il presidente Slobodan Milosevic.
Durante l'aggressione, Chernomyrdin ha visitato Belgrado quattro volte e ha tenuto colloqui con Milosevic, con la partecipazione di Milan Milutinovic, il presidente della Serbia, Nikola Sainovic, vice primo ministro, Zivadin Jovanovic, il Ministro degli Esteri e altri.
Dopo diversi round di negoziati e la mediazione, il 2 giugno 1999, Marty Ahtisaari e Viktor Chernomyrdin arrivarono a Belgrado e diedero a Slobodan Milosevic il testo del documento sulla fine della guerra.
Durante i colloqui a Palazzo Bianco di Belgrado, la parte jugoslava cercò di apportare alcune modifiche al documento, al fine di garantire un maggiore rispetto degli interessi della Serbia e della Jugoslavia, ma senza risultati.
In risposta alla mia domanda posta a Chernomyrdin sul perché il testo prevedesse l'implementazione del cap. 7 e non del cap. 6 della Carta delle Nazioni Unite, come concordato nei precedenti cicli di colloqui, Martti Ahtisaari, posando teatralmente il braccio sopra la spalla di Chernomyrdin disse: "Perché lo abbiamo deciso io e mio fratello Chernomyrdin".
Il giorno seguente, il 3 giugno 1999, il documento fu accettato dall'Assemblea nazionale della Serbia e Ahtisaari e Chernomyrdin lasciarono Belgrado. Il bombardamento venne ripreso.
Kosovo e Metohija non devono essere considerati come persi perché persi non sono.
Il negoziato che viene offerto nel cosiddetto capitolo 35 intrapreso con l’UE, le pressioni e il ricatto, confermano che Kosovo e Metohija continuano ad appartenere alla Serbia.
La realtà sostenuta dai commissari di Bruxelles, Washington, Londra e Berlino è che la Serbia è limitata nella sua posizione negoziale.
Il giorno successivo, il 4 giugno, sulla base del documento di Ahtisaari-Chernomyrdin, sul confine jugoslavo-macedone iniziarono i negoziati per il raggiungimento dell'accordo tecnico-militare. Questi negoziati durarono sei giorni, dal 4 al 9 giugno 1999. Furono tenuti in condizioni di continuo bombardamento del paese e, secondo la testimonianza della nostra delegazione, furono estremamente difficili. A causa di atteggiamenti contraddittori, i negoziati venivano frequentemente interrotti per permettere ad entrambe le delegazioni di effettuare le consultazioni.
In uno di questi momenti, la nostra delegazione ha consegnato alla controparte un foglio con il seguente contenuto:
1. La parte Jugoslava dichiara che, ai sensi del paragrafo 2 e 10 del documento di Ahtisaari-Chernomyrdin, è pronta per iniziare il ritiro delle forze dal Kosovo e Metohija in conformità con il piano, che è stato concordato in una riunione di rappresentanti militari il 5 giugno del 1999, tra le delegazioni guidate rispettivamente dai generali Blagoje Kovačević e Mike Jackson. L'inizio del ritiro in conformità con il documento di Ahtisaari-Chernomyrdin implica la sospensione del bombardamento.
2. Tutte le altre questioni relative alla risoluzione della crisi, secondo il piano M. Ахтисари - В. Chernomyrdin, sono di competenza del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Anche questo dettaglio illustra non solo il corso dei negoziati e il rapporto di rispetto tra le parti negoziali, ma la posizione iniziale forte e chiara della parte jugoslavo-serba.
Inoltre, i problemi tecnici e tutte le altre questioni legate alla soluzione politica della crisi, in accordo con il documento di Ahtisaari e Chernomyrdin, devono essere di competenza esclusiva del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e non possono essere oggetto di negoziati con i rappresentanti della NATO, cioè, della KFOR.
Una tale posizione di principio e la necessità della sua affermazione coerente, a tutt’oggi, non ha perso d’importanza.
Al contrario, questo principio negoziato, concordato, accettato e difeso durante l’aggressione militare non può essere dimenticato o occultato in tempo di pace e di "offerte", non importa quanto grandi siano le pressioni e le insidie attuali.
L'accordo tecnico-militare, noto come Accordo di Kumanovo, è stato firmato, a nome della parte jugoslavo-serba, dal generale VJ Svetozar Marjanovic e dal generale-tenente della polizia della Serbia Obrad Stevanovic e, per conto della KFOR, dal generale britannico Mike Jackson.
Durante i negoziati, Slobodan Milosevic ha condotto una lunga conversazione telefonica con Ahtisaari.
In tale circostanza, mi sono trovato vicino a Milosevic e ricordo che, durante quella conversazione, ho insistito sul fatto che l'Accordo tecnico-militare non può snaturare il documento del 3 giugno e che la KFOR, con il mandato delle Nazioni Unite, deve essere il garante di pari sicurezza per tutti i cittadini in Kosovo e Metohija.
Immediatamente dopo la firma dell'Accordo tecnico militare a Kumanovo, il 9 giugno 1999, in serata, tutte le ambasciate, le missioni e i consolati della SRJ ricevettero informazioni e istruzioni urgenti, con i seguenti elementi:
- l'accordo tecnico-militare rappresenta la concretizzazione di una parte del documento di Ahtisaari-Chernomyrdin del 3 giugno 1999. Prevede un graduale ritiro delle nostre forze militari e di sicurezza, con il dispiegamento sincronizzato delle forze delle Nazioni Unite (KFOR).
Si è cercato di non creare situazioni di vuoto di sicurezza eventualmente utilizzabili dai terroristi per mettere in pericolo i cittadini in KiM (Kosovo i Metohija). Il testo è privo di contenuto politico che la parte avversa ha cercato di imporre.
- la leadership e il governo della FSRJ sono rimasti coerenti con gli obiettivi della difesa del paese contro l'aggressione e una soluzione politica pacifica in KiM (Kosovo i Metohija).
- da una situazione di aggressione e distruzione da parte della NATO, la questione è stata trasferita all'ONU su una serie di diritti e principi.. L'ONU si assume grandi responsabilità, ha l'opportunità, dopo tre mesi di sospensione e blocco completi, di recuperare parte del prestigio e della fiducia perduti.
- l'ONU ha la responsabilità speciale di garantire la sicurezza di tutti i cittadini del KiM (Kosovo i Metohija), di eliminare il terrorismo e l'organizzazione terrorista UCK, di disilludere le possibilità di realizzare idee e progetti separatisti, di creare le condizioni per il processo politico e i negoziati sull'autonomia, sulla base del rispetto dell'uguaglianza di tutti i cittadini e le comunità nazionali, sovranità e l'integrità territoriale della Serbia e della SRJ.
- la forza e l'efficienza della nostra difesa, l'unità delle forze difensive, del popolo e della leadership hanno sbalordito il mondo. Il più grande macchinario militare della storia che ha intrapreso una "operazione chirurgica" e "blickrig" non è riuscito a conquistare il paese pronto a difendersi. La nostra nazione è un vincitore morale.
- Il mondo è diventato consapevole dei pericoli posti dalla strategia della NATO come poliziotto mondiale.
- Il tempo mostrerà molteplici effetti devastanti dell'aggressione della NATO contro un Paese sovrano europeo, con la grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in generale, con l'imposizione della forza al di sopra della legge.
- La NATO, e le forze dietro di essa, non hanno nulla di cui vantarsi, hanno perpetrato inganni, distruzione e massacri di civili, hanno usato in modo criminale missili all'uranio impoverito e causato la conseguente catastrofe umanitaria in nome della "protezione dei diritti umani".
- Invece di "preservare la loro faccia" con "operazione lampo", hanno svelato a tutto il mondo di aver violato l'ordine giuridico mondiale, di essere i portatori dell'egemonia e fonte di destabilizzazione globale.
- Il nostro governo rispetterà coerentemente gli obblighi assunti. Ci aspettiamo lo stesso da tutti gli altri. Soprattutto per rispettare la sovranità e l'integrità territoriale della Serbia e della SRJ. Siamo aperti alla cooperazione con altri paesi e organizzazioni internazionali, nel rispetto dell'uguaglianza.
- Esigiamo e lotteremo per: a) determinare la responsabilità di chi ha dato l’ordine e chi ha eseguito l’aggressione come crimine contro la pace e l'umanità; b) avere un risarcimento per danni di guerra a economia, infrastrutture, servizi pubblici, città, villaggi e tutto il resto; c) l'abolizione di tutte le sanzioni e la restituzione dei diritti di associazione sospesi nelle organizzazioni internazionali.
- L'ordine è: la sospensione istantanea delle aggressioni, con il ritiro dal KiM in 11 giorni.
- È in corso la discussione sulla risoluzione SB (consiglio di Sicurezza ONU). Non abbiamo partecipato alla stesura della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Diverse disposizioni sono per noi sfavorevoli, riflettendo gli sforzi dell'aggressore per giustificare e legittimare l'aggressione e i crimini. Riflette il rapporto globale delle forze, comprese le debolezze della Russia.
Tuttavia, il documento, di fatto, testimonia l'aggressione, la distruzione e il gran numero di vittime umane; la Provincia KiM, è presa dalle mani della NATO e posta sotto l'autorità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; si apre quindi la possibilità di una migliore protezione degli interessi legittimi del paese; il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale del paese è confermato; si va verso il processo politico per la risoluzione dello status della Provincia come autonoma e con autogoverno, all'interno della Serbia, con la garanzia dell'uguaglianza di tutte le comunità nazionali; si condanna il terrorismo e si stabilisce l'obbligo di disarmare l'organizzazione terrorista UCK; è previsto il ritorno dei contingenti del nostro esercito e della polizia; si sta aprendo la possibilità di ricostruzione, sia nel KiM che in tutta SRJ e nella regione.
- La menzione degli "Accordi di Rambouillet" nel documento del 3 giugno e nella bozza di risoluzione SB è solo una delle dimostrazioni degli sforzi degli Stati Uniti e di altri per dimostrare che essi hanno, apparentemente, il diritto di presentare una tesi sulla continuità dei loro tentativi di "pace" e di giustificare l'aggressione. Ciò, tuttavia, si applica solo ai principi di autogoverno e autonomia, che non sono stati contestati da noi, ma non sui documenti nel loro insieme, specialmente sui capitoli II, V e VII. Rambouillet è stato un tentativo di fornire un alibi per l'attuazione del piano per l'aggressione armata.
Cosa dire oggi, 20 anni dopo?
In primo luogo, l'Accordo tecnico-militare è una delle testimonianze più significative del dominio della politica di forza nelle relazioni, che non portarono mai nulla di buono né alla Serbia né all'Europa, né al mondo intero. La Serbia fu la prima vittima di una strategia di dominio e interventismo che, dopo il 1999 e il 2000, assunse un carattere globale.
L'aggressione della NATO del 1999, fin dall’inizio, non ha portato i risultati sperati dai pianificatori di Washington, Londra e Bruxelles, in quanto la S.R.J. (Difesa della Serbia) ha dimostrato di essere molto più forte e più dura di quanto da essi auspicato.
Nel frattempo, gli abitanti di molti paesi, sulla propria pelle, hanno sperimentato il vero significato di un intervento "umanitario", "diritto alla protezione" e "democratizzazione" attraverso "rivoluzioni colorate". Era il piramidale, gerarchico, ordine mondiale che, avendo avuto il suo periodo di massimo splendore, gradualmente, come il sedimentare del terreno dopo l'eruzione vulcanica, volge al termine.
Sono in corso cambiamenti più profondi e completi dell'ordine mondiale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La costruzione un nuovo ordine mondiale multipolare, basato sui principi di uguaglianza, sull’interesse reciproco e su un maggior ruolo del diritto internazionale, sta inesorabilmente scuotendo la strada, aprendo lo spazio per la democratizzazione delle relazioni internazionali. La resistenza dei centri di potere occidentali e gli sforzi per preservare, a tutti i costi, i privilegi e le vecchie relazioni superate, sono la fonte di grandi pericoli. Il riconoscimento di nuove realtà e l'accettazione della collaborazione come base delle relazioni tra grandi e piccoli sono l'unica via per la pace, la salvezza e il progresso della civiltà.
In secondo luogo, l'Accordo tecnico-militare è parte integrante del pacchetto di pace le cui parti essenziali risultano essere il Documento Milosevic-Ahtisaari-Chernomyrdin, del 3 giugno, e la Risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU 1244 del 10 giugno 1999.
Questi tre documenti, nei contenuti e nella forma, rappresentano un’unità nel suo complesso e nessuno di essi può essere giudicato isolato dagli altri.
Oltre alla Costituzione, per la Serbia, questi documenti sono gli unici parametri affidabili e stabili per l'orientamento e il funzionamento nelle condizioni di grandi sfide, profondi cambiamenti e confusione. Questi documenti, forse, non sono sufficienti, ma l’uscita della Serbia in uno spazio completamente aperto e non demarcato, in cui i poteri forti di una parte del mondo non vedono e non riconoscono niente e nessuno, tranne i loro interessi egoistici, equivarrebbe al gioco d'azzardo. La saggezza e il coraggio nel difendere i diritti e gli interessi acquisiti attraverso la lotta e i grandi sacrifici delle generazioni precedenti escludono qualsiasi unilateralismo, occasionale sottovalutazione del carattere nazionale, della storia o della spiritualità. Dobbiamo essere consapevoli che la glorificazione delle donazioni, degli investimenti e dei benefattori di quei paesi e leader, le cui politiche negli anni '90 hanno inflitto danni enormi al popolo serbo – sua spaccatura, satanizzazione, sanzioni, bombe e armi radioattive - non è in linea con la preoccupazione di preservare l'identità nazionale, la dignità e una vita migliore.
In terzo luogo, questo pacchetto di pace è parte integrante del sistema di diritto pubblico internazionale, per cui ha il carattere giuridico vincolante in generale. Carattere imperativo della risoluzione SB UN 1244 rende questo pacchetto di pace un segmento con più grande potere legale nella gerarchia degli atti giuridici e, pertanto, non può essere cambiato, annullato o ridotto, con un qualsiasi nuovo atto giuridico o politico, a meno di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dello stesso valore.
Va ricordato che nel processo di creazione di questo pacchetto di pace furono direttamente coinvolte tutte le principali potenze del mondo moderno, tra cui Russia e Cina, tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tutti i membri del G-8, l'Unione Europea e la NATO. Pertanto, questo pacchetto di pace rappresenta un compromesso tra vari interessi, ma anche l'obbligo di tutti gli attori della comunità mondiale che tutto ciò che è stato concordato e firmato sarà anche rispettato, e non solo la volontà o il diritto di una parte ristretta della comunità mondiale.
Nella sua genesi, contenuto e gerarchia legale, il pacchetto di pace del giugno 1999 è parte integrante del sistema di sicurezza europea e mondiale. Pertanto, la presenza di tentativi di ignorare, aggirare o denigrare tali documenti, non sarebbe possibile senza minacciare seriamente il sistema stesso, e senza nominare attesi e possibili effetti boomerang.
In quarto luogo, la Serbia, che in buona fede ha rispettato e osservato tutti gli obblighi di tutti i documenti del pacchetto di pace, tra cui quelli derivanti dall'accordo tecnico-militare, ha il diritto e l'obbligo morale di continuare a cercare di far rispettare anche agli altri gli obblighi accettati, e non ancora eseguiti, e in conformità con questi documenti.
Inoltre e soprattutto, ha il dovere:
- di rispettare le garanzie date per la sovranità e l'integrità territoriale della Serbia con il Kosovo e Metohija, avente l'autonomia più ampia, come parte integrante (nell'Accordo, tra le altre cose, c’è scritto che la KFOR avrebbe "provveduto a fornire adeguato controllo dei confini della SRJ” verso l'Albania e FYRM, art. 2, punto “h");
- i suoi confini internazionalmente riconosciuti;
- di accettare i negoziati sul ritorno delle unità militari e di polizia nella provincia;
- di garantire le condizioni per il ritorno libero, sicuro e dignitoso di circa 250.000 espulsi tra serbi e altri non albanesi;
- di garantire la sicurezza a tutti i cittadini della provincia, compresi i serbi;
- di garantire l'inviolabilità della proprietà privata di serbi, Serbia e SPC.
Se le altre parti ostacolano, non vogliono o non accettano tali impegni ed obblighi, questo non dovrebbe essere visto come aggravante per la posizione della Serbia o come l’obbligo di fare passi indietro, ma deve essere visto come comportamento assolutamente inaccettabile.
In questo caso, la Serbia dovrebbe considerare altre opzioni legali, politiche e diplomatiche disponibili.
In quinto luogo, i documenti relativi al pacchetto di pace, compreso l'accordo tecnico-militare, non erano particolarmente favorevoli per la Serbia.
Tuttavia, la guerra e le altre condizioni hanno reso più difficile dare seguito al contenuto di questi documenti, che proteggevano gli interessi importanti della Serbia, e soprattutto la sovranità e l'integrità territoriale del paese.
È vero che l'Occidente usa ancora oggi i metodi di minacce, ricatti e inganni. Tuttavia, è difficile essere d'accordo sul fatto che oggi ci sono ragioni giustificate per abbandonare o negare i diritti e gli interessi riconosciuti alla Serbia sotto le bombe della NATO del 1999. Oggi, anche l'Occidente richiama sempre più la necessità di rispettare le relazioni internazionali basate sulla legalità. La velocità e la profondità del cambiamento nelle relazioni globali contribuiranno al fatto che L’Occidente richiami sempre più di frequente il rispetto del diritto internazionale nel prossimo periodo.
Il cancelliere tedesco Angela Merkel non ha detto mercoledì scorso nel Bundestag che il G-7 è stato "definito da membri che rispettano le leggi internazionali" ("Politika", 7 giugno 2018)!
Sesto: in difesa del diritto della Serbia al Kosovo e Metohija, la sua Costituzione, la Carta delle Nazioni Unite, il Documento finale dell'OSCE e il diritto internazionale sono gli argomenti e i supporti più importanti. Il Pacchetto di pace del 1999, in particolare la risoluzione SB UN 1244, ha un significato insostituibile e duraturo che deve essere affermato in ogni momento, senza cedere né ai desideri, né alle aspettative o alle varie pressioni, da qualunque parte, per rimuovere e portare quei documenti in secondo piano o nell’ombra. Questi documenti non devono in alcun modo essere subordinati ai nuovi "documenti giuridicamente vincolanti".
Kosovo e Metohija non devono essere considerati come persi perché persi non sono.
Il negoziato che viene offerto nel cosiddetto capitolo 35 del negoziato con EU, le pressioni e il ricatto confermano che Kosovo e Metohija continuano ad appartenere alla Serbia. Questa è la realtà ripetuta dai commissari di Bruxelles, Washington, Londra e Berlino. Per la Serbia, la realtà è molto più ampia e complessa. Invece di dichiarazioni disfattiste che rafforzano inconsciamente la posizione e l'intransigenza di Pristina, sono necessari maggiori sforzi e creatività per esplorare le direzioni per rafforzare la posizione negoziale della Serbia. Abbiamo abbastanza conoscenze ed esperienza per capire che l'appartenenza all'UE è utilizzata come mezzo per estorcere le continue concessioni della Serbia, che l'UE non è quella che era e che il suo ruolo e la sua influenza stanno rapidamente diminuendo. Pertanto, non abbiamo il diritto di fare affidamento su alcun tipo di sue garanzie e promesse. Questo potrebbe portarci in situazione dove Serbia consegna tutto e non ottiene nulla.
Zivadin Jovanovic, Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali
12 giugno 2018 - Traduzione di Jovanka A. per Forum Belgrado Italia/CIVG
СВЕДОЧИМ О ИСКУСТВИМА
Живадин Јовановић:
Одговори на питања новинара „Политике“ Дeјана Спаловића, о дипломатији
Да ли дипломата икада иде у пензију?
Зависи од личности. Ако не сви, онда већина нас који смо својевремено радили у дипломатији волела је тај позив, спремно је прихватала све изазове и била задовољна својим својим статусом и угледом како у земљи тако и у светској дипломатији. Отуда је природно што и после пензионисања настављамо да се интересујемо о спољној политици и међународним односима. Осећам се пријатно кад видим колико мојих колега, дипломата у пензији данас пише и иступа у медијима, објављује књиге, учествује на конференцијама, путује по свету. Пензија означава престанак редовног запослења, али није забрана за друштвено корисне активности, алиби за интелектуалну непокретност или јадиковање због немоћи.
[IMG: Prijem kod Premijera NR Kine Dzurondzija, decembar 1999.]
Чиме се данас конкретно бавите?
Пишем о спољној политици, мултиполаризацији, кинеској иницијативе „Појаса и пута“, решавању статуса Покрајине Косово и Метохија, хаосу у Европској унији, изворима угрожавања мира.
Сведочим о искуиствима Југославије и Србије и њиховом значају за политичку стратегију данас. Добро је што чешће одајемо пошту жртвама за одбрану, не ваља што као нико на свету, своју часну историју проглашавамо погрешном, митоманском, небеском. Чудимо се и жалимо Унији, Немачкој, Аустрији - свима, од Рејкјавика до Владивостока - што други, дрско, оправдавају обнову неонацифашизма, славе своје цивилизацијске падове и злочине, укључујући геноцид над српским народом, као да не схватамо да их ниподаштавањем наше историје и нације охрабрујемо да буду још дрскији према Србији. Ко на свету даноноћно тврди да је имао погрешну историју, да је зато све изгубио, али да непријатељима попушта зато што је јак!
Повремено иступате у име Београдског форума?
Волим рад у Форуму јер је слободан, независтан, непоткупљив. Основала га је 2000. године група интелектуалаца, дипломата и слободно мислећих људи из тадашње СРЈ и српског расејања. Међу оснивачима су били, сада покојни академик Михајкло Марковић, професор Гавро Перазић, писци Радош Калајић и Чедомир Мирковић. И данас у Форуму имамо научника, дипломата, професора, генерала, привредника, хуманиста. Сви до једнога волонтирамо.
[IMG: Jevgenij Primakov, raniji MIP, potom Premijer Rusije, bio je rado vidjen gost u Beogradu ]
А како се финансирате?
Од чланарине, продаје књига и помоћи српског расејања. Нисмо миљеници ни буџета, ни страних фондација. Није лако јер треба плаћати закупнину за седиште, комуналије, сале за конференције, штампање књига... Али је пријатно када не дугујете, нарочито, не у погледу мишљења која јавно заступате. Деси се да појединци, из Србије или иностранства, кад чују или прочитају нешто о нашем активностима, ставовима, књигама, затраже број рачуна Форума и уплате извесну помоћ. То нам далеко више значи као признање и охрабрење, него што нам решава финансијске тешкоће.
Пре две године основали смо Центар за истраживање повезивања на путу свиле (ЦИПО) који је партнер бројним удружењима у Европи, Кини и другим деловима света који подржавају Иницијативу Пута и појаса као стратешки важну за мир и развој. Она, поред осталог, омогућава Србији да свој геополитички положај, «кућу насред друма» први пут у историји претвори у важан фактор развоја. ЦИПО је издао књигу амбасадора Александра Јанковића «Повезивање на кинески начин», неку врсту приручника «Кина за почетнике из Србије». Поред тога, волонтирам и у хуманитарној организацији Расејање за матицу која је само за саниррање поплава у Србији и Републици Српској обезбедила преко милион евра.
Форум је члан Светског савета за мир, са седиштем у Атини и један од оснивача Светског удружења тинк танкова Пута свиле, са седиштем у Пекингу. Недавно сам учествовао на оснивачкој скупштини међународног удружења градова лука са седиштем у Тијенцину, Кина. Огранак Форума функционише и у Италији (Forum di Belgrado Italia).
Учествујем у раду Шангајског форума, једне с�
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