70.mo Liberazione / 7: 
Ricordando Sergio Ricaldone

1) Sergio Ricaldone racconta la Resistenza ai giovani dell’ANPI (2012)
2) Sergio Ricaldone su Pietro Ingrao (2006)


Vedi anche: 

Ricordare il passato vigilando contro i pericoli del presente e del futuro (2005)
Testo dell'intervento di Sergio Ricaldone (21/09/1925 - 17/07/2013) in occasione di una celebrazione della Resistenza tenuta insieme a Giovanni Pesce e Nori Brambilla il 2 giugno 2005, a Cologno Monzese


Pietro Secchia: un ruolo di primo piano nell’antifascismo, la Resistenza e la Costituzione  (2005)
Nel 70° anniversario della vittoria del movimento di Liberazione in Italia, ci sembra doveroso ricordare una dei dirigenti comunisti che più hanno contribuito all’organizzazione della Resistenza partigiana. Lo facciamo proponendo il pregevole intervento che l’indimenticabile compagno Sergio Ricaldone pronunciò nel corso del convegno organizzato a Torino da “Nuovi Partigiani della Pace”, il 16 aprile 2005
http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/25459-pietro-secchia-un-ruolo-di-primo-piano-nellantifascismo-la-resistenza-e-la-costituzione.html


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25 aprile 1945 : vittorie, illusioni, sconfitte e speranze


24 Aprile 2012

Sergio Ricaldone
 racconta la Resistenza ai giovani dell’ANPI

Siccome appartengo ad una specie ormai in via di estinzione, confesso di essere un po’ imbarazzato a rappresentare simbolicamente una storia lontana anni luce dalle versioni con cui viene raccontata oggi da molta letteratura e dalle fiction televisive.
 
Sono costretto a misurarmi con la potenza di fuoco del grande apparato mediatico che ogni giorno ci bombarda con notizie false e storie inverosimili, ed è una impresa disperata. Proverò comunque, nel tempo disponibile, a riproporvene da testimone qualche passaggio significativo, senza nascondermi dietro ipocriti pentimenti.
 
Quando nel 1943 decisi di imbracciare il fucile, avevo 18 anni e lo feci richiamandomi ad una parola nella quale credevo e continuo a crederci. Questa parola, per me bellissima, si chiamava comunismo ed è stata per molti di noi il propellente ideale che ha alimentato le nostre scelte di combattere il nazifascismo con la guerra partigiana. Dunque partigiano e comunista ! Due parole oggi impronunciabili. Diventate un’accusa oscena e infamante che ci accomuna a quella coniata dai nazisti in tutta l’Europa occupata: banditi e terroristi. Il che conferma che la storia solitamente la fanno e la vincono i popoli ma poi la scrivono e la raccontano i padroni che comandano.
Allora, tutto il continente, da Capo Nord al Mediterraneo e dal Volga alla Manica giaceva sotto il tallone di ferro dei nazisti. Diventata totale, la guerra non poteva non assumere il carattere di una lotta di liberazione di Stati e di popoli, con sistemi sociali e politici diversi, saldamente coalizzati contro il pericolo mortale rappresentato dal nazifascismo. Perciò una lotta con profonde motivazioni universali, la civiltà contro la barbarie e la libertà contro la schiavitù, che ha coinvolto non solo gli eserciti combattenti ma gli stessi popoli dei paesi aggrediti rendendoli partecipi, con la lotta armata, delle vicende militari che hanno sconvolto l’Europa per cinque lunghissimi anni. Anni di ferro e di fuoco che ci hanno costretto a consumare le nostre giovani vite chi sui campi di battaglia, chi sulle montagne, chi nelle città occupate e chi nei lager nazisti.
 
Mi permetto qualche libertà di espressione e azzardo perciò, insieme alla mia testimonianza di partigiano, un bilancio. Bilancio di un quasi novantenne che, per ragioni biologiche sta per passare a miglior vita e si domanda – mi domando - se le decisioni prese di combattere, prima con le armi, poi, dopo che cessarono gli spari, con la militanza politica, per dare all’Italia una bellissima Costituzione, ne sia valsa veramente la pena.
 
La domanda non è retorica poiché oggi ho l’impressione di essere imbarcato, come tutti voi, su un Titanic chiamato pomposamente Europa che sta affondando, e mi domando a cosa siano serviti decenni di lotte del movimento operaio italiano. Mi domando come, quando e perché le grandi conquiste sociali e politiche , costate lacrime e sangue, siano state spazzate via. E quanto sia difficile mantenere in vita gli stessi ideali in cui crediamo.
 
Resistenza, Antifascismo, Costituzione sono le fondamenta su cui vorremmo edificare il futuro. Ma la destra è al potere in tutta Europa e, pur nelle sue differenze, nega e sopprime i valori sociali e democratici della nostra cultura resistenziale.
 
Per il modo come viene raccontata oggi nelle celebrazioni ufficiali, in certi libri e fiction televisive, la Resistenza appare, nel migliore dei casi, come un corpo morto al quale sono stati espiantati, uno dopo l’altro e buttati in discarica, gli organi vitali.
 
Tra i diversi soggetti politici che l’hanno combattuta credo però sia giusto ricordare in questa occasione quella che ne è stata la spina dorsale e la sua forza motrice, ossia il movimento operaio. Senza quel movimento, alimentato da grandi ideali rivoluzionari, non ci sarebbe stata Resistenza e guerra partigiana.
 
Dalla valle di Susa alle montagne del Friuli gli operai sono stati la componente più importante e cosciente della guerra partigiana e delle iniziative di sostegno che si sono svolte nei quartieri popolari e nelle fabbriche. Anche chi vi parla si è formato politicamente e militarmente a quella scuola. Si chiamava officina ed era un po' diversa dalle catene di montaggio robotizzate di oggi. Un complesso di macchine utensili e banchi di montaggio su cui operai giovani e anziani lavorando fianco a fianco, parlando e raccontando le loro storie, hanno preso coscienza dei loro diritti calpestati e della loro forza, si sono organizzati ed hanno lottato, prima con gli scioperi poi con le armi contro il tiranno. Mettendo in gioco la propria vita. Ci mancava ovviamente la preparazione culturale dei giovani di oggi ma sovente, senza che neppure ce ne accorgiamo, le cose accadono da sole. Sembrano fatalità, coincidenze, ma sono in realtà vibrazioni, impulsi, trasmessi dal mondo reale che ci circonda, che si mettono in moto e che poi si riuniscono e formano un unico, razionale pensiero che ci guida nelle grandi scelte che la vita ci impone di compiere. Si chiamava e si chiama tuttora ideologia. Ed era la nostra ideologia, quella proletaria, che ha sorretto per un secolo le grandi lotte sociali e politiche del movimento operaio, le grandi rivoluzioni, i movimenti di liberazione dei popoli oppressi.
 
Ed è grazie a quell’ideologia, sprigionata dalla rivoluzione d’Ottobre, che le sterminate periferie industriali di quel tempo sono diventate l’epicentro dei grandi eventi storici di cui stiamo parlando. Quella è stata la nostra scuola e il nostro primo campo di battaglia. 
Lo dobbiamo a giganti del pensiero come A. Gramsci, che hanno saputo formare uomini d’acciaio, come mio padre, che da modesto tranviere comunista ha saputo reggere, senza battere ciglio, due condanne del Tribunale Speciale a complessivi 18 anni di carcere, per diventare poi uno dei capi della Resistenza a Milano.
 
Spero che venga compreso lo stato d’animo di profonda amarezza di fronte ai ripetuti tentativi di falsare e capovolgere il senso delle scelte da noi compiute a quel tempo.
 
Persino le date più significative sono oggetto dei ripetuti tentativi di rimozione storica, fino a proporci di cancellare come giorno di festa il nostro 25 aprile.
 
Anche il giorno cruciale che celebra la fine della guerra, l’8 maggio 1945, e abbraccia in un'unica grande dimensione internazionale il sacrificio di tutti i popoli europei, dal Volga alla Manica, nonché i 56 milioni di morti pagati per porre fine a quella follia, è finito nell’oblio più assoluto.
 
La stessa scelta del 27 gennaio 1945 quale “giorno della memoria”, che mira a fare dell’olocausto del popolo ebraico l’evento centrale del conflitto, non è una scelta casuale e innocente ma concorre in qualche modo a stemperare, a scolorire e ridurre la reale dimensione europea e mondiale di quella immane tragedia che è stata la seconda guerra mondiale.

Non c’è alcun dubbio che Auschwitz, liberato appunto il 27 gennaio, sia un monumento esemplare alla barbarie del nazismo e il celebrarne la liberazione rappresenta un doveroso omaggio e una sorta di palingenesi del popolo ebraico. Però attenzione ! Un corretto ricordo dovrebbe almeno accomunare i liberati di quel campo con i liberatori e raccontare senza reticenze quel che accadde prima quel 27 di gennaio 1945, quando due soldati dell’Armata Rossa si avvicinano di buon mattino alla barriera di filo spinato che circonda il campo di Auschwitz. Aprono il cancello, entrano e si trovano davanti l’ennesimo spettacolo simile e agghiacciante come quelli già visti durante la loro lunga marcia nei territori liberati.
 
Le immagini di Auschwitz le abbiamo viste, riviste e condannate negli ultimi decenni e continueremo a farlo nei prossimi anni, ma sono solo un parte del pesante bilancio di vite umane pagate dai soldati che liberarono quel campo, bilancio che supera di quattro volte i sei milioni di vittime dell’olocausto ebraico.
 
Quei due soldati che ho ricordato appartenevano al gruppo di armate del primo fronte ucraino comandate dal maresciallo Koniev. Avevano fatto molta strada prima di arrivare in quel piccolo villaggio polacco, davanti a quel filo spinato. Erano partiti da Stalingrado un anno prima, dopo che (come ha raccontato Pablo Neruda nel suo Canto generale) il sangue di più di un milione di giovani sovietici aveva colorato di rosso le acque del Volga e le rovine della città, prima di poter annientare la sesta armata nazista di Von Paulus e capovolgere le sorti del secondo conflitto mondiale.
 
Poi, quegli stessi soldati, hanno dovuto camminare per quasi tremila chilometri, combattendo e vincendo contro i panzer di Hitler le più feroci battaglie di tutta la guerra europea, lasciando sul terreno ancora milioni di morti prima di liberare la Polonia e di arrivare davanti a quel famoso cancello. E molta strada dovettero ancora compiere prima di poter schiacciare la belva hitleriana nel bunker di Berlino.
 
Tutta la lunga marcia di quei soldati è punteggiata da centinaia di altri spettacoli agghiaccianti allestiti dai killers con la svastica, compiuti senza la razionale perfezione industriale dei forni crematori e delle camere a gas di Auschwitz ma con mezzi più spicci e artigianali come il colpo alla nuca. Migliaia le fosse comuni, con milioni di corpi sepolti, segnano la ritirata nazista dai territori invasi dell’Ucraina e della Bielorussia. Sotto quei cumuli di terra sono stati sepolti i corpi massacrati di vecchi, donne, bambini, prigionieri di guerra, commissari politici, partigiani operanti alle spalle del nemico. La loro colpa quella di essere, oltre che ebrei, anche comunisti o più semplicemente russi che amavano il loro paese. Dunque, “untermenschen”, ovvero razze inferiori, sottouomini che bisognava sterminare.
 
Da vecchio partigiano devo molto a quelle “razze inferiori”. La nostra idea di resistenza è infatti germogliata durante gli scioperi di marzo, nel 1943, a Milano, Torino e Genova, non a caso due mesi dopo la fine della battaglia di Stalingrado e si è concretizzata dopo l’8 settembre quando l’Armata Rossa stava già dilagando verso ovest.

Come tutte le guerre anche quella combattuta nelle nostre città occupate dai nazifascisti non è stata un pranzo di gala ma una guerra spietata, una pratica di lotta estrema che dovevi imparare presto e bene. Sei solo e circondato da un nemico che non fa prigionieri. La pistola e l’esplosivo, gli agguati e gli attentati erano i mezzi con cui combattere l’invasore che occupava le città con la potenza soverchiante dei suoi panzer, la ferocia delle SS e dei brigatisti neri al loro servizio. Sai che sotto quelle divise ci sono belve feroci che hanno torturato, impiccato i tuoi compagni di lotta, hanno incendiato e raso al suolo villaggi, massacrato donne, vecchi e bambini senza alcuna pietà. Sai che se cadrai nelle loro mani non avrai scampo. Quella ferocia l’abbiamo subita quando siamo caduti nelle mani dei torturatori neri e della Gestapo e poi inviati incontro alla morte nei campi di sterminio.
 
Da fatti realmente vissuti e raccontati dai testimoni oculari, ormai in via di sparizione, Resistenza e antifascismo si stanno trasformando, come è giusto che sia, in cultura storica, e perciò percepiti oggi dal senso comune in una dimensione diversa. Ma anche esposti al rischio di pessime riduzioni celebrative. E questo toglie valenza anche all’entità geopolitica complessiva di un fenomeno che è stato soprattutto europeo ed ha riguardato i popoli dell’Europa intera. Quella di allora beninteso non quella di oggi, ossia quella delle banche che riduce molti di voi a dei senza lavoro, precari o disoccupati per tutta la vostra vita futura.
 
E’ un ciclo involutivo che sta entrando in una fase molto preoccupante. Non è più solo revisionismo ma si chiama più realisticamente negazionismo. Ed è la fase terminale di un lungo processo di distruzione della memoria storica che accompagna analoga distruzione delle nostre conquiste sociali e politiche.
 
La liberazione dall’invasore diventa guerra civile, la risposta armata dell’aggredito all’aggressore diventa terrorismo, i partigiani sono canaglie, ladri, assassini, stupratori, si chiede uguale rispetto per i morti, siano vittime o carnefici. L’aveva intuito Jean Cocteau quando ha scritto che la storia sono fatti che finiscono per diventare leggende e le leggende sono bugie che finiscono per diventare storia.
 
Ricordo, per inciso, di avere parlato dell’argomento nel 1966, con Gillo Pontecorvo, (vecchio compagno di lotta partigiana), all’uscita del suo film, “La battaglia di Algeri”, quando ad una mia domanda mi rispose che, tra le tante ragioni che lo avevano spinto a raccontare la resistenza del popolo algerino, aveva il fondato timore che, prima o poi, tutte le guerre di liberazione, inclusa quella che avevamo combattuto insieme, sarebbero state catalogate come terrorismo, criminalizzate e poi dimenticate. Parole profetiche.
 
Ricordo che mentre migliaia di gaglioffi nazifascisti sono stati sottratti alla giustizia e poi arruolati nella Cia, nella Nato e nella Gladio, persino un resistente come Nelson Mandela è stato tenuto iscritto per molti anni ancora nel registro dei terroristi tenuto dalla Cia persino quando è diventato Presidente del Sudafrica.
 
L’ondata diffamatoria e negazionista ha investito altri movimenti di liberazione in l’Algeria, Vietnam, Cuba, l’intera Africa australe e mezza America latina. Che poi per fortuna hanno vinto ! Ma ora alimenta, purtroppo, anche i movimenti neonazisti che stanno formandosi e dilagando in molti paesi dell’Unione europea.
 
Sono decenni che la cosiddetta cultura europeista ci presenta il vecchio continente come una grande casa comune, un giardino fiorito di nazioni democratiche e pacifiche, rispettose le une della altre, dalle cui culture sarebbero stati sradicati una volta per tutte i fantasmi dei 4 cavalieri dell’Apocalisse che hanno funestato il 20° secolo : il nazifascismo, l’antisemitismo, la fame, la guerra.
 
Il guaio è che ciò che rimane dell’illusorio progetto di Unione Europea è l’immane disastro che stiamo vivendo e pagando. Abbiamo una magnifica Costituzione repubblicana ma subiamo, senza via di scampo (come tutti i paesi dell’Unione Europea) il potere delle banche, centrali e non. La destra, intesa come braccio secolare del capitale finanziario (e madre prolifica dei movimenti neo nazisti) è al potere in tutta Europa. Nei paesi baltici “liberati dal comunismo sovietico” e ammessi a pieno titolo nell’Unione europea, riappaiono i monumenti alle SS, si celebra l’invasione hitleriana e si occulta persino il massacro di decine di migliaia di ebrei.
 
I 4 cavalieri dell’Apocalisse rispuntano e dilagano. Ci ritroviamo a fare i conti con il nazifascismo, l’antisemitismo e la povertà ma anche con la guerra. Anche se per ora le bombe ci limitiamo a scaricarle su Tripoli in nome di una democrazia diventata merce di esportazione. Dunque attenzione ! Le ambizioni di dominio planetario dell’imperialismo sono ancora ben presenti. I bilanci militari sono in crescita e prima o poi un nemico contro cui usarle queste armi, la Nato e il Pentagono lo troveranno e vi offriranno un’occupazione mettendovi in mano un fucile. Le prossime tappe delle future guerre sono Damasco e quasi sicuramente Teheran.
 
Sta a voi rifiutare questa prospettiva. Il ricordo della Resistenza per essere autentico non può essere celebrativo ma impegno sociale e politico nel presente. Non abbassate la guardia e difendete il vostro diritto a un futuro di lavoro sicuro e pacifico. I veri nemici non sono i popoli di altri continenti ma i banchieri e i padroni “modello Marchionne” e i loro governi che parlano la nostra lingua ma negano i vostri diritti, la vostra dignità e vi vogliono servili e ubbidienti. La vostra ultima trincea democratica è la Costituzione della Repubblica così come è stata scritta col sangue di 48 mila partigiani caduti perché l’Italia garantisse il futuro delle giovani generazioni.

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www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 28-09-15 - n. 558

In occasione della scomparsa di Pietro Ingrao (27/09/2015) riproponiamo questo articolo dell'indimenticato quadro comunista Sergio Ricaldone, scritto quasi 10 anni fa, che ci aiuta a ricostruire il percorso politico di questa figura "mitica"  della sinistra italiana.

"Volevo la luna" : ultima, discutibile fatica editoriale di P. Ingrao

Sergio Ricaldone

19/09/2006

Ho il vago sospetto che tra l'uscita del libro di Pietro Ingrao "Volevo la luna" e l'imminente assemblea costitutiva del partito della Sinistra europea, sezione italiana, ci sia un linkage molto ben calcolato.

Nel cuore dell'autunno dovrebbe nascere il futuro partito del quale si percepisce il sapore e la volontà  di un radicale cambio di regime interno a Rifondazione, già in atto da tempo ed ora in fase galoppante, ma ancora senza una direzione ben definita né identikit.  Insomma, un appuntamento con molte incognite.  Nessuno sa quale sarà la bussola del nuovo partito.   La sola cosa assodata è il taglio netto con il comunismo finora conosciuto in tutte le sue varianti planetarie.   Non sarà un passaggio facile.   Soprattutto ora che il trono lasciato vacante da Fausto Bertinotti è stato occupato da un modesto re travicello, Franco Giordano, incapace di superare lo schema antiunitario della "maggioranza pigliatutto" e incline ad usare la clava delle misure disciplinari contro le minoranze interne, quale soluzione ad una congiuntura politicamente difficile da gestire.

La presenza di Ingrao come sponsor e testimonial di questo nuovo soggetto politico europeo postcomunista diventa perciò un fattore di sostegno importante per la sua riuscita, soprattutto perché con questo suo ultimo libro l'autore porta un personalissimo contributo ad una definitiva rottura dei ponti tra Rifondazione e il comunismo storicamente conosciuto.

Mi è bastato leggere, prima ancora del libro, l'ampia intervista rilasciata da Pietro Ingrao a Repubblica, l'8 settembre scorso, per domandarmi per quale ragione una rispettabile figura della sinistra decida di spendere gli ultimi spiccioli della sua esistenza biologica per scrivere un libro così apertamente distruttivo della storia del comunismo italiano.  Forse per un eccesso di vanità senile e perché – come lui stesso dice – "ho amato troppo l'applauso" .

Questo tentativo ingraiano di raccontare la storia della propria vita passando e ripassando in lavatrice le proprie scelte di milizia politica e inzuppando il pane in un banalissimo gossip che riduce Togliatti ad un sottomesso "compagno di merende" di Stalin, riceverà senza dubbio tantissimi applausi dalla platea che sanzionerà la nascita della "Sinistra europea".    Questo suo libro sembra infatti scritto apposta per concludere il ciclo di autoseparazione da tutta l'esperienza storica del comunismo novecentesco portando in discarica anche i personaggi che hanno animato e guidato le grandi battaglia politiche e sociali e resistenziali del movimento operaio italiano.

Un ciclo di rimozione che, all'interno di Rifondazione, era stato iniziato da Bertinotti a Livorno, nel 2001, quando l'egocentrico segretario del partito, per regolare i conti una volta per tutte con i suoi oppositori interni (Ernesto in primis) cominciò a sparare a zero contro lo spettro di Giuseppe Stalin che sembrava aggirarsi ancora minaccioso dentro Rifondazione.  Dopo di che, attingendo in preordinata sequenza nella abbondante letteratura "pre", "post" e "anti" prodotta dal revisionismo storico di destra e di sinistra, Bertinotti ha ridotto il secolo delle grandi rivoluzioni e del comunismo ad un cumulo di macerie fumanti.

Pietro Ingrao che, fino a poco tempo fa, sembrava considerare, diversamente da Bertinotti, il comunismo italiano di Gramsci e Togliatti una incolpevole ed apprezzabile eccezione rispetto allo stalinismo ha ora cambiato opinione e ci racconta invece di un Togliatti allievo mediocre e subalterno del feroce georgiano emulo di Gengis Kan.

Mi rendo conto del rischio che corro toccando la "mitica" figura di Pietro Ingrao, ovvero l'oppositore sempre e dovunque di Sua Maestà.  E chi meglio di lui può raccontarci i fasti e i nefasti del vecchio PCI ?    Nel popolo di sinistra abbondano ancora oggi gli ingraiani che pendono dalle sue labbra e lo applaudono ogni volta che apre bocca anche se le frasi di sinistra che pronuncia con forbito eloquio sono sempre innocue  e sempre più distanti dal "gorgo" dello scontro politico e sociale spesso evocato.

Ci sono, ovviamente, anche gli antingraiani convinti che i suoi comportamenti politici siano stati spesso segnati dall'egocentrismo, dall'opportunismo e da una scarsa coerenza con gli impegni presi con i suoi compagni di avventura, spesso galvanizzati da un suo "armiamoci e partite" e poi piantati in asso nei momenti cruciali, come capitò al gruppo del Manifesto al momento della sua radiazione dal PCI.

Quando 15 anni fa, dopo la Bolognina, costituimmo Rifondazione comunista eravamo convinti che Pietro Ingrao, superando le tante indecisioni, ci aiutasse a ricomporre una leadership in grado di salvare e ricostruire una presenza organizzata dei comunisti in questo paese, capace di ridare una prospettiva di trasformazione nel solco di una continuità, doverosamente critica e senza sconti, con la storia che, dall'Ottobre sovietico in poi, ha, comunque, sorretto ed animato le grandi battaglie politiche ed ideali del movimento operaio, dei movimenti di liberazione antimperialisti e le grandi rivoluzioni che hanno radicalmente cambiato la geopolitica del pianeta.   Ne eravamo convinti perché ci sentivamo figli di quella storia e di quel movimento che, malgrado errori ed orrori e le inevitabili dinamiche di "un passo avanti e due indietro" insite in ogni rivoluzione, aveva saputo comunque spostare in avanti, e di molto, le frontiere del progresso economico e sociale dopo avere inflitto colpi severi al nazifascismo, al colonialismo e all'imperialismo.

Pietro Ingrao, pur non avendo mai smesso di parlarci di masse, di operai, di lavoro liberato, di democrazia e di non violenza, preferì, ancora una volta, recitare la parte del libero pensatore offrendosi unicamente – come fanno i grandi predicatori domenicali – alle riflessioni collettive di quanti (dubbiosi e non) hanno continuato ad interrogarsi sul significato da attribuire alla parola "comunismo".  Salvo poi lasciare ad altri il compito di costruire il soggetto politico in grado di organizzare nei faticosi giorni feriali la grande massa dei salariati, dei precari, dei cassaintegrati, dei licenziati, dei pensionati al minimo.

Ti siamo comunque grati, carissimo Ingrao, per le tante parole gratificanti che ci hai trasmesso da tanti pulpiti in più di mezzo secolo.   Ma continuiamo ad essere convinti che dalle prestigiose poltrone politiche  ed istituzionali che hai occupato avresti potuto fare molto,  molto di più.