Informazione

VENTI DI GUERRA (TANTO PER CAMBIARE...)

* MONTENEGRO/ALBANIA: Tutto pronto per nuove ondate di profughi
* TRIESTE: La portaerei Eisenhower in rada nel Golfo
* ALBRIGHT: Avvertimenti di stampo mafioso
* GRECIA: Voci contro i nuovi piani di guerra degli USA


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Da "il manifesto" del 21 Gennaio 2000:

BALCANI
PER L'ONU PROBABILE UNA GUERRA TRA SERBIA E MONTENEGRO A PRIMAVERA
Albania, riparte il circo "umanitario"
L'Acnur prepara i piani per accogliere migliaia di profughi a Scutari.
Mobilitate le Ong

- CLAUDIO BAZZOCCHI * -

Da alcuni giorni si è cominciato a parlare sulla stampa albanese di una
possibile guerra fra Serbia e Montenegro e delle sue ricadute in termini
di emergenza umanitaria. L'ufficio dell'Alto commissariato Onu per i
rifugiati (Acnur) di Tirana ha avviato una serie di incontri con le Ong
presenti in Albania per verificare la possibilità di creare una
"struttura latente" capace di far fronte per le prime due settimane a un
eventuale afflusso profughi dal Montenegro. L'Acnur dunque si sta
preparando a una nuova crisi umanitaria che potrebbe scaturire da una
guerra fra Serbia e Montenegro in primavera.

Gli scenari sui quali ci si sta preparando sono i seguenti: 1) afflusso
di 10/15mila rifugiati (gli abitanti dei villaggi vicini al confine
albanese; 2) afflusso di 45mila rifugiati (la maggioranza degli albanesi
del Montenegro); 3) afflusso di 80mila rifugiati (tutti gli albanesi più
metà della popolazione slavo-musulmana). A partire dal 28 gennaio
verranno costituiti dall'Acnur in Albania dei gruppi di lavoro sui temi
classici dell'emergenza - riparo, cibo, acqua, trasporto e logistica,
igiene, salute, ecc.). Potranno partecipare a questi gruppi le
organizzazioni che saranno in grado per quella data di offrire risorse e
mezzi propri.

Dalla sede dell'Alto Commissariato a Ginevra sappiamo che questa
esercitazione in Albania viene considerata molto importante, anche se i
segnali che giungono dal Montenegro non inducono a particolare
preoccupazione.

Ma l'eventualità di una crisi in primavera sta già dando i primi
risultati
politici. E' di venerdì scorso la notizia dell'impegno congiunto
albanese-montenegrino per l'apertura dei valichi di frontiera di Hani i
Hoti, Muriqani, e Vermoshi. La settimana scorsa il governo albanese ha
approvato un memorandum di collaborazione economica con il Montenegro
che
prevede la creazione di una commissione ad hoc albanese-montenegrina. La
stampa albanese definisce l'accordo fra i due governi come la mossa
necessaria da parte del Montenegro per entrare nel Patto di Stabilità
nei
Balcani tramite la porta della collaborazione con l'Albania.

Da questo punto di vista l'evento più importante si è verificato martedì
scorso, quando i tre primi ministri di Albania, Macedonia e Montenegro
si sono incontrati a Ohrid in Macedonia. Alcune importanti decisioni
sono state prese durante l'incontro. I tre premier si sono accordati
sulla necessità di allargare al Montenegro il pacchetto di aiuti
previsto dal Patto di Stabilità. Vujanovic, primo ministro montenegrino,
ha inoltre chiesto ai propri partner l'apertura di un corridoio di
comunicazione tra la Macedonia e il Montenegro attraverso il Kosovo.

In un articolo del quotidiano albanese Koha Jone il triplice incontro
viene definito come la prima scintilla dell'allontanamento di Podgorica
da Belgrado. La stampa albanese comincia d'altra parte a dare risalto a
una possibile nuova crisi balcanica. Sempre su Koha Jone di mercoledì
scorso è possibile leggere un ampio resoconto della missione
dell'ufficio Acnur di Tirana a Scutari. I responsabili dell'Alto
Commissariato si sono incontrati lunedì scorso con il sindaco ed il
prefetto di Scutari e hanno valutato assieme le possibilità logistica
per accogliere i profughi provenienti dal Montenegro. Scutari, nelle
parole del corrispondente da quella città, sarà la nuova Kukes della
prossima crisi che appare "ormai inevitabile", dal momento che Podgorica
- scrive il corrispondente - chiederà presto la secessione da Belgrado.
Addirittura nella città si respirerebbe già aria di guerra.

Insomma, i maggiori quotidiani albanesi stanno preparando la propria
opinione pubblica all'eventualità di una nuova guerra nei Balcani e ne
stanno già indicando i possibili vantaggi: ulteriore destabilizzazione
del grande nemico Milosevic, se non la sua caduta definitiva, nuovo
afflusso di aiuti umanitari assieme a quello dei profughi.

C'è chi in Albania sta facendo anche altri conti su una nuova possibile
guerra nell'area. Berisha è sempre pronto a sfruttare l'instabilità
politica che ne deriverebbe, i clan mafiosi preparano nuovi traffici
illeciti ai confini e la maggioranza di governo si aspetta di poter
usare la risorsa del nazionalismo e dell'odio contro i serbi per
rafforzarsi: il ricevimento con tutti gli onori di Thaci, leader
dell'Uck, la settimana scorsa a Tirana lo dimostra con sufficiente
evidenza.

Siamo solo all'inizio di una spirale di conflitto e riscontri oggettivi
in Montenegro di una crisi così estrema al momento non ce ne sono. Certo
è che l'uccisione di Arkan dimostra che forse la resa dei conti a
Belgrado èiniziata e una guerra a primavera può essere una risorsa anche
per il
potere serbo.

* Consorzio italiano di solidarietà (Ics)

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Da NOTIZIE EST #301 - SERBIA/MONTENEGRO
9 febbraio 2000

(...) Il 14 gennaio, il quotidiano on-line
"Albanian Daily News" ha diffuso la notizia
secondo cui il ministro dell'ordine pubblico
albanese, Spartak Poci, aveva visitato il
giorno precedente due campi profughi, quello
di Rrushkull, a 37 chilometri da Tirana e in
grado di ospitare 5.000 persone, e quello di
Katund i Ri, a 34 chilometri da Tirana.
"Dobbiamo prenderci cura di questi campi,
perché potrebbero servire come centri per
accogliere profughi dal Montenegro,
nell'eventuale scenario peggiore dello
scoppio di un conflitto tra tale repubblica e
la Serbia", ha dichiarato Poci durante la
visita. Uno dei maggiori quotidiani albanesi,
"Koha Jone", ha subito ripreso la notizia con
grande evidenza in prima pagina, mentre un
altro importante quotidiano, "Gazeta
Shqiptare", citava le parole di un
funzionario della compagnia di trasporto
Alaska Cargo Company, che aveva appena
trasportato a Durazzo 6.500 tonnellate di
farina donate dagli Stati Uniti all'Albania
"per i profughi", secondo cui tale primo
contingente è solo una piccola parte degli
aiuti che verranno congelati in attesa della
crisi dei profughi. La società di trasporto
ha un contratto con il Dipartimento di Stato
per il trasporto in Albania di 40.000
tonnellate di grano e 10.000 tonnellate di
farina, riso e olio, ha affermato il
funzionario. Della distribuzione degli aiuti
dovrebbe essere incaricata la ONG Mercy
International. "Gazeta Shqiptare", citando
fonti anonime, ha affermato inoltre che le
due repubbliche jugoslave potrebbero "entrare
in conflitto tra la fine di febbraio e
l'inizio di marzo". Sempre il 14 gennaio, a
Podgorica si sono svolte pacificamente le
celebrazioni per il capodanno serbo, per le
quali molti avevano previsto lo scoppio di
gravi incidenti. Al termine delle
celebrazioni, il premier jugoslavo Bulatovic,
oppositore di Djukanovic, ha dichiarato in
una conferenza stampa: "Grazie alla mia alta
posizione, sono venuto a sapere che si sta
preparando un complotto internazionale per la
preparazione di campi destinati alla
deportazione di montenegrini in Albania"
("Monitor" [Podgorica], 21 gennaio 2000). Il
21 gennaio, infine, "Albanian Daily News"
riportava la smentita del premier Ilir Meta
che l'Albania si stia preparando a ricevere
un'ondata di profughi dal Montenegro. La
notizia è stata il primo della lunga serie di
"allarmi" relativi all'imminente scoppio di
un conflitto tra Serbia e Montenegro.
Trasmessa prima da un tam-tam di operatori
umanitari, è stata infine raccolta con
svariati giorni di ritardo da "Der Spiegel"
e, piano piano, da vari altri media europei.
Negli USA, gli organi di stampa e i politici
hanno cominciato a parlare di un ipotetico
imminente conflitto solo nei primi giorni di
febbraio. (...)

Il 21 gennaio la Reuters ha pubblicato un
servizio da Londra del suo "diplomatic
editor", Paul Taylor, che di norma scrive i
pezzi politicamente più rilevanti. Nel
servizio Taylor riferisce che un "alto
diplomatico NATO" ha dichiarato che "il
Montenegro non deve attendersi che gli Stati
Uniti o la NATO interverranno per salvarlo se
dichiarerà l'indipendenza dalla Jugoslavia,
scatenando un confronto con la Serbia". Il
diplomatico, prosegue Taylor, ha affermato
che "l'Occidente reagirebbe più probabilmente
limitandosi a rafforzare le sanzioni
economiche contro la Serbia, nel caso in cui
Milosevic dovesse lanciare un attacco contro
la repubblica". Secondo il giornalista della
Reuters, "Djukanovic si trova ad affrontare
pressioni interne sempre più forti per indire
un referendum sull'indipendenza". Il
diplomatico NATO anonimo citato dalla Reuters
ha proseguito dicendo che "il dilemma che
stiamo affrontando è quello di come agire per
prevenire una prova di forza [...]
[Djukanovic] dovrà stare molto attento a non
provocare una prova di forza, perché non
potrà contare su un salvataggio da parte
degli USA o dei suoi alleati". Taylor nota
che si è trattato del secondo avvertimento di
tale tono nel corso della settimana, il primo
essendo stato quello dell'alto inviato
occidentale in Bosnia, Wolfgang Petritsch,
secondo il quale ogni mossa verso
l'indipendenza scatenerebbe una guerra. Il
diplomatico NATO citato da Taylor, tuttavia,
conclude affermando di non vedere nuvole di
tempesta a breve termine in Montenegro,
perché entrambe le parti sono consce dei
rischi (Reuters, 21 gennaio 2000).
Successivamente, le dichiarazioni riguardo ai
possibili scenari di un precipitare della
situazione in Montenegro non si sono più
contate. Da quella di un altro funzionario
anonimo della NATO, citato dall'agenzia
SENSE, secondo cui l'Alleanza "segue la
situazione e non si farà cogliere
impreparata", alle raccomandazioni fatte da
Gran Bretagna e USA, rispettivamente al
presidente Djukanovic e al premier Vujanovic,
affinché non facciano in questo momento mosse
verso l'indipendenza, alla dichiarazione del
capo della CIA Tenet, secondo cui un
confronto tra Milosevic e Djukanovic è quasi
inevitabile - "sia Milosevic che Djukanovic
cercheranno di evitare un confronto serio,
per ora, ma sarà difficile evitare una prova
di forza finale, che ritengo avverrà in
primavera" (AFP, 3 febbraio 2000).

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TRIESTE: DI NUOVO NAVI STATUNITENSI NEL GOLFO...

Molti giornali italiani hanno parlato delle manovre militari congiunte
che alcuni paesi partecipanti alla missione KFOR terranno in Kosovo alla
fine di marzo. Per queste manovre - che esulano da qualsiasi mandato ONU
e suonano altamente ridicole in una situazione in cui i militari KFOR
"non riescono" nemmeno ad impedire le violenze quotidiane nella
provincia da loro stessi occupata - la Repubblica Federale di Jugoslavia
ha ripetutamente protestato.
Meno noto e' il programma di esercitazioni congiunte tra esercito
statunitense ed aviazione croata, che dovrebbe partire in questi giorni
ed interessare anche il lembo piu' meridionale della costa
dalmato-croata. Un inquietante segnale di questi movimenti si ha a
Trieste, dove da un paio di giorni e' ferma a poche centinaia di metri
dal centro cittadino la portaerei Eisenhower. Gli abitanti della citta'
si trovano cosi' ad incrociare un po' a tutte le ore drappelli di
marines in divisa o giovanissimi e ben riconoscibili yankees in libera
uscita.
Ma questa atmosfera, per la verita' non troppo nuova per Trieste, viene
vissuta davvero maluccio quest'anno, in particolare dalle migliaia di
lavoratori jugoslavi presenti in citta' e dai militanti della sinistra e
attivisti di iniziative di solidarieta' e contro la guerra, che provano
oggi profonda stizza ed angoscia guardando a questi soldati a causa del
ricordo dello shock della primavera dello scorso anno. Tra l'altro, i
bombardamenti della NATO contro la RFJ nel 1999 erano stati "annunciati"
a Trieste un paio di settimane prima che cominciassero proprio dalla
presenza massiccia di militari statunitensi...
Il gruppo regionale di Rifondazione Comunista ha immediatamente
presentato una interrogazione nella quale si fa presente che, tra le
altre cose, la Eisenhower e' a propulsione nucleare, e dunque la sua
presenza in quelle acque e' contraria ad ogni regolamento visto che
quello di Trieste non e' un porto attrezzato per la presenza del
nucleare - ma non e' nemmeno un porto militare!
Ovviamente di questo gli Stati Uniti d'America se ne fregano, cosi' come
se ne fregano anche i nostri governanti perche', se e' vero che Trieste
e' "italianissima" (?), e' anche vero che l'Italia e' lo zerbino degli
Stati Uniti d'America in Europa. (CRJ 11/3/2000)

Fonti: "Il Piccolo", 8-10/3/2000

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MESSAGGIO MAFIOSO DA MADELEINE ALBRIGHT:
"La primavera non sempre e' una bella stagione nei Balcani"

FreeB92 News for 03/10/2000
Albright "concerned" over Balkans

BRUSSELS, Friday - US Secretary of State Madeleine Albright said today
that she was very concerned about the situation in the Balkans region,
adding that spring was not always the best season in the Balkans.
Albright was speaking in Brussels where she will speak to US and EU
officials about lowering the temperature in the Balkans, especially
Kosovo. The US Secretary of State told media that she was in Brussels to
talk about how to help the UN Kosovo mission chief, Bernard Kouchner, to
do his job. The three things which needed to be done in Kosovo, she
said, were to establish self-management, create a broad autonomy and
hold elections.

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PREOCCUPAZIONE IN GRECIA: "FERMARE GLI AMERICANI"

"The clouds of war are gathering again around the Balkans..."
Democratic Social Movement Party leader Dimitris Tsovolas, minister with
the ruling PASOK party, assessed that Washington was preparing for a new
blow against Yugoslavia, and called for the Greek government not to
allow foreign troops or war material destined for Kosovo to pass through
Greece.
_______________________________________
Greeks Concerned About Kosovo Tensions
By Louis Economopoulos
CNS Correspondent
03 March, 2000
Athens, Greece (CNSNews.com) - Amid media speculation of new NATO
military action in the Balkans, a top Greek military official expressed
concern this week that a new conflict zone may develop in Kosovo, near
the border with the former Yugoslav republic of Macedonia.
Chief of the National Defense General Staff Manousos Paragioudakis told
a press conference on Thursday that tensions were rising in Prezovce
where 70,000 Albanians are situated and large number of Yugoslav
soldiers are reported to have gathered. The area is close to where U.S.,
British and Greek troops are stationed.
This new headache for the NATO-led KFOR peacekeeping forces may further
\plain\lang1033\f4\fs23\cf0 destabilize the strife-torn region, already
facing an explosive situation in the divided northern Kosovo town of
Mitrovica.
Paragioudakis said Greek soldiers aboard a passenger train had been
forced to fire warning to prevent a fracas between Serbian passengers
and ethnic Albanian employees on Wednesday.
Such occurrences have become routine and expressed concern that the
situation in Kosovo was "difficult and dangerous."
In the event of a military confrontation in Kosovo, similar to the one
involving NATO airstrikes last year, Greece would consider opting out,
as new NATO policy leaves it up to each member to decide, Paragioudakis
added.
In last year's conflict, Greece held back from actively taking part in
the military action, while allowing its territory to be used for the
transporting of NATO troops and equipment.
Greece has always maintained friendly ties with Yugoslavia, and the
Greek people, virtually all of the Orthodox Christian faith, have
religious ties with the Orthodox Serbs.
The country has sent some 1,200 troops into the Kosovo region as part of
the KFOR operation. A company of 100 Greek soldiers is currently serving
in Mitrovica.
Addressing a Foreign Press Association luncheon, Greek Foreign Minister
George Papandreou said the situation in Kosovo was of grave concern, but
denied reports in the Greek press that the international community was
planning another military confrontation with Yugoslavia.
The U.S.-born and educated minister called on the international
community to send a clear message to Kosovo and the Balkans that it
would not tolerate a change in regional borders and that it would uphold
respect for all ethnic minorities in a multi-cultural Kosovo.
Papandreou called on both sides in Kosovo to assume their
responsibilities for peace in the broader region. "In the Balkans,
either way, we are condemned to live together," he said.
He again urged the international community to allow Yugoslavia to
participate in the process of democratisation and inclusion in European
structures, and said sanctions against the Serbs impeded the process.
The situation in Kosovo remains tense, said Greek government spokesman
Dimitris Reppas, adding that the international presence in the area
guarantees stability and underlining that any flare-up of fighting in
the KFOR-controlled Yugoslav province would be disastrous to all.
The heightened tensions in Kosovo and NATO's plans to increase military
presence have raised concern in the socialist Greek government that
violence in the area could escalate during the election period. General
elections are scheduled for April 9 and the socialists are holding on to
a slim lead in the latest pre-election polls over the conservatives.
This fear has been strengthened by the fact that in the next few days
about 2,000 more NATO troops will be passing through the northern Greek
city of Thessaloniki on their way to Kosovo and could become the focal
point for anti-NATO and anti-government protests.
"The clouds of war are gathering again over the Balkans, and once again
the government is displaying great willingness to add its black
assistance to NATO's efforts," said Greek Communist Party leader Aleka
Papariga in a pre-election campaign speech.
Democratic Social Movement Party leader Dimitris Tsovolas, a former
minister with the ruling socialist PASOK party, assessed that Washington
was preparing a new blow against Yugoslavia and called on the Greek
government not to allow foreign troops or war material destined for
Kosovo to pass through Greece.
A government official told the conservative daily newspaper Kathimerini
that if NATO attacked the Serbs, the Greek opposition political parties
would make the Greek government's life extremely difficult.
"We will face a strong dilemma; either to stop facilitating NATO
operations - which will mess up our relations with the Americans - or to
risk losing the elections," the unnamed official said.


--------- COORDINAMENTO ROMANO PER LA JUGOSLAVIA -----------
RIMSKI SAVEZ ZA JUGOSLAVIJU
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SEGNALAZIONE

E' uscito in questi giorni il numero di Febbraio 2000 de "l'Ernesto",
contenente un importante speciale sull'imperialismo. La rivista si
occupa di fornire materiali per un rilancio dell'analisi teorica
nell'ambiente comunista, con particolare attenzione al contesto
internazionale. Nei numeri passati sono stati pubblicati ad esempio
importanti articoli sulle vicende dell'Europa Orientale, dell'Asia
centrale e della Cina, con analisi rigorose - e coraggiose, assai
controcorrente rispetto al "pensiero unico" che paralizza la sinistra
sulle questioni internazionali.

L'ERNESTO - mensile comunista
direttore: Fosco Giannini
redazione: Via Lagrange 26, 28100 Novara, tel. (0321)468511
distribuzione: per abbonamento
per abbonarsi: versamento su c.c postale n. 18385104
annuale ordinario: lire 30.000
annuale sostenitore: lire 50.000

Dall'ultimo numero riceviamo, e volentieri diffondiamo, il seguente
contributo dedicato alle conseguenze ambientali della aggressione della
NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia.

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C'est trop facile quand les guerres sont finies
d'aller gueuler que c'etait la derniere.
Amis bourgeois vous me faites envie,
vous ne voyez donc point vos cimetieres.
(Jacques Brel, 1955)

Durante la guerra aggressiva condotta dal mondo occidentale e ricco
nei confronti della Jugoslavia, i colpi sono stati diretti soprattutto
verso le risorse economiche, gli stabilimenti produttivi, e le fonti
di energia. Evidentemente, gli obiettivi del bombardamento andavano
ben oltre quello dichiarato della difesa dei diritti umani: i nostri
governanti intendevano piegare un paese moderno e sviluppato, e farlo
regredire ad un livello da Terzo Mondo.

I terribili veleni che sono stati liberati nell'ambiente fanno
prefigurare una lenta agonia delle popolazioni balcaniche e del
territorio, ben oltre la durata dell'azione militare propriamente
detta. Con il bombardamento di impianti chimici e raffinerie sono
state immesse nell'aria e nei fiumi grandi concentrazioni di
pericolosi cancerogeni quali cloruro di vinile monomero, benzopirene e
diossine, e di sostanze pericolose per il sistema respiratorio quali
ammoniaca e anidride solforosa. Quest'ultima e' anche la principale
responsabile del fenomeno delle piogge acide, che degradano le
foreste di tutta l'Europa Centrale. Bisogna anche considerare che
tutti questi composti procurano danni enormi alla produzione agricola,
e si inseriscono nella catena alimentare. Ma l'assoluto spregio per le
popolazioni da parte dei paesi della NATO e' simboleggiato dall'uso di
armi contenenti uranio impoverito, metallo debolmente radioattivo che
diventa cancerogeno quando viene inalato, in quanto si fissa per
sempre nei polmoni e nelle ossa, agendo lentamente ma inesorabilmente.
Il primo conflitto dell'era NATO si prefigura quindi come GUERRA
ECOLOGICA.

Inoltre, i bombardamenti incessanti da parte degli Stati Uniti e
dell'Europa, che per tre mesi dello scorso anno hanno martoriato il
territorio balcanico, hanno messo in evidenza la necessita' di
interpretare gli avvenimenti internazionali oltre la scala locale.
Possiamo affermare che gran parte del pubblico non ha gli strumenti
conoscitivi ed ideologici adatti a vedere oltre la sfera piu' interna
degli avvenimenti. Questa visione miope si limita alla questione dei
nazionalismi ("etnie diverse impregnate di odi atavici non possono
convivere"), delle vere o presunte violazioni dei diritti umani
("quanto e' cattivo Milosevic"), degli interessi affaristico-elettorali
dei leader dei paesi coinvolti nelle guerre ("la Russia bombarda la
Cecenia in vista delle prossime elezioni presidenziali") e ad
interpretazioni psicologiche ("gli USA bombardano Bagdad ogni
qualvolta torna alla ribalta il sexygate"). Tutte interpretazioni
estremamente elementari e semplificate, al punto che ci arrivano anche
i giornalisti ed i politicanti. Per chi decide la guerra e la pace,
questi aspetti sono del tutto marginali: essi hanno importanza solo
per la loro funzione psicologica nei confronti dell'opinione pubblica.

Chi e' piu' attento, tuttavia, non ha potuto non estendere la propria
visione per lo meno alla scala regionale. Non lo hanno fatto soltanto
le "frange estremiste" ed i "pacifisti politicizzati": questo passo,
anzi, e' stato compiuto soprattutto dagli strateghi militari, nonche'
dai settori piu' attenti del mondo imprenditoriale e della Farnesina
(insomma, quelli che amano definirsi "i geopolitici"). Con lo sguardo
concentrato sulla scala regionale, la visione cambia radicalmente. I
dati di fatto sono l'affermarsi della Turchia come potenza regionale,
la retrocessione di una Russia umiliata e costretta a cedere uno dopo
l'altro i territori dell'ex-URSS, e l'aggressivita' economica della
Germania riunificata. Emerge cosi' l'importanza fondamentale dei
Balcani come luogo di passaggio per le merci, fra la Mitteleuropa e la
Turchia cosi' come fra il Caucaso ed il Mediterraneo, e diventa
indispensabile prendere in considerazione i vicini pozzi di petrolio
del Mar Caspio, per il controllo dei quali e' in atto una competizione
formidabile che coinvolge stati e grosse imprese petrolifere (si veda,
per esempio, Michel Collon, POKER MENTEUR, Editions EPO, Bruxelles
1998, libro di cui e' in corso di preparazione la traduzione italiana).

Proprio quest'ultima considerazione sul petrolio dovrebbe portare ad
estendere ulteriormente l'orizzonte, dalla sfera regionale a quella
mondiale e globale. Purtroppo questo ulteriore passo viene compiuto di
rado, ed i fenomeni su questa scala vengono sottovalutati o presentati
in forma edulcorata. Eppure essi riguardano argomenti della massima
importanza: il commercio mondiale, il debito estero, i flussi
migratori, le risorse del Pianeta e le materie prime. All'era del
bipolarismo e della guerra fredda e' succeduta non una fase monopolare,
come talvolta fa comodo pensare, bensi' un'epoca multipolare, che vede
affrontarsi (anche se non ancora sul piano militare, e spesso lontano
dai riflettori) colossi come la Cina, l'India, la Russia, l'Europa, e
la superpotenza leader degli Stati Uniti. A questi cinque giganti
(tutti localizzati nell'emisfero Nord) bisogna poi aggiungere le
multinazionali, nonche' tutto il Terzo Mondo, che malgrado sia
estremamente diviso sta prendendo coscienza della propria forza.

Desidero affrontare in particolare la questione delle risorse, e piu'
precisamente dell'energia, traendo spunto dallo studio pubblicato da
Alberto Di Fazio e che raccomando a tutti di leggere (A. Di Fazio, "Le
connessioni fra la guerra dei Balcani e la crisi energetica prossima
ventura", in IMBROGLI DI GUERRA, il libro di "Scienziate e scienziati
contro la guerra", Odradek 1999). Anche limitandoci a questa sola
questione, la situazione appare gia' terrificante. Da una parte, il
dato di fatto e' che non vengono quasi piu' scoperti nuovi giacimenti di
greggio; e che poiche' quelli noti fino ad oggi sono limitati, si
prevede che tra dieci anni circa comincera' il lento ed inesorabile
declino della produzione di petrolio che ci lascera' "a secco" fra
quaranta o cinquanta anni (con conseguente ritorno al carbone).
D'altra parte, bisogna cominciare a considerare anche l'aria come una
risorsa limitata: non tanto l'aria da respirare quanto quella da
inquinare. Il riscaldamento della Terra e la modifica del clima
avanzano sotto l'azione dell'effetto serra, ed aprono la strada a
disastri spaventosi quali l'innalzamento del livello del mare,
l'aumento della frequenza degli uragani, il propagarsi di pericolose
epidemie, la desertificazione, lo squilibrio nella produzione
agricola, eccetera. Il problema, anche se ignorato dal grande
pubblico, e' all'ordine del giorno nelle sedi dell'ONU, dove si
svolgono aspre negoziazioni sulla necessita' di limitare la
combustione, responsabile della maggior parte delle emissioni di
anidride carbonica. Il processo sotto accusa e' proprio quello della
produzione di energia.

Sia la fine delle risorse petrolifere sia le limitazioni alle
emissioni di anidride carbonica colpiscono al cuore il modello di
sviluppo vigente e universalmente celebrato: meno energia, infatti,
significa meno PIL, una conseguenza inaccettabile per un sistema
basato sull'aumento dei consumi e sulla CRESCITA perenne. Se da un
lato la soluzione apparentemente ovvia consiste nella drastica
riduzione del tenore di vita e del sistema di mercato in tutti i paesi
del mondo (in particolar modo in quelli piu' ricchi ed avanzati),
d'altra parte alcuni potrebbero ingenuamente pensare di potersi
"salvare" puntando sulle disuguaglianze e l'esclusione, costringendo
altri alla miseria. Questa sembra in effetti essere la politica
perseguita dagli Stati Uniti d'America, il che ne spiega la
propensione al dominio economico, politico e militare.

Le circostanze che favoriscono lo svilupparsi delle guerre sono
molteplici: e' troppo facile trincerarsi dietro a visioni parziali e
slogan semplicistici, quali quello della "guerra etnica" e della
"guerra per il petrolio". Quest'ultimo, in particolare, non ha
importanza solo per il suo valore economico, bensi' soprattutto per il
suo interesse strategico. Le guerre sono fenomeni complessi e sono
determinate da una serie di cause che agiscono a diversi livelli, come
in un sistema di sfere concentriche: sono le sfere piu' esterne a
determinare il comportamento ai livelli piu' interni (e raramente il
viceversa). La gravita' della situazione a livello di fattori globali
mette in evidenza la posta in gioco nello scontro fra le potenze. Di
fronte ad essa non vi sono diritti umani che tengano, e per i piu'
forti non possono esserci interventi che meritino di essere presi in
considerazione, se non vanno nella direzione della costruzione di una
gerarchia totalitaria di nazioni.

Concludendo, le guerre moderne sono allo stesso tempo la causa e
l'effetto della degradazione dell'ambiente sulla Terra, con la quale
sono avvolte in una pericolosa spirale che potrebbe portare la nave ad
affondare. In un goffo tentativo di salvaguardarsi dalle crisi
ambientali, alcuni stati percepiscono la guerra e l'oppressione come
gli unici strumenti utili per la propria sopravvivenza. E'
indispensabile, oltreche' urgente, sensibilizzare il pubblico sulla
tematica dei problemi globali, da cui viene accuratamente tenuto
all'oscuro. In particolare, bisogna puntare il dito sulla
responsabilita' del mondo scientifico, che invece di dedicarsi ad un
uso piu' razionale delle risorse e ad una piu' giusta distribuzione dei
frutti del lavoro dell'uomo, fornisce all'Impero le armi e le
innovazioni tecnologiche, nonche' l'impostazione di pensiero atta a
giustificarlo in tutte le sue azioni e malefatte (guerre "necessarie",
"chirurgiche" e "supertecnologiche"). La minaccia per l'Umanita' puo'
essere scongiurata soltanto se si prende coscienza del fatto che i
problemi vanno affrontati complessivamente e nell'interesse collettivo
di tutti gli abitanti del Pianeta.

Franco Marenco


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LA CINA HA RAGIONE!


"Il governo americano dovrebbe tener d'occhio i problemi relativi ai
diritti umani all'interno degli USA, occuparsi delle sue faccende e
smetterla di interferire negli affari interni degli altri paesi
utilizzando il pretesto dei diritti umani"

(Agenzia di informazione Xinhua, Inside China Today Daily Brief
Tue, Feb. 29, 2000 - http://www.insidechina.com/ )

> Quote of the Day: "The American government needs to
> keep an eye on its own human rights problems, mind
> its own business and stop interfering in the internal
> affairs of other countries by utilizing the human
> rights question" -- Xinhua news agency, the
> government's Information Office of the State Council.


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http://www.egroups.com/group/crj-mailinglist/
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* Quanti sono i soldati delle truppe di occupazione in Kosmet (Albanian
Daily News / AFP / Notizie Est)

* Bilancio della distruzione delle chiese cristiano-ortodosse nel Kosmet
per opera dell'UCKFOR (THE MONTREAL GAZETTE)


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I NUMERI DELLA KFOR IN KOSOVO
("Albanian Daily News", 29 febbraio 2000)
(trad. su "Notizie Est" #307, 1/3/2000)

BRUXELLES - La KFOR, la forza multinazionale di
mantenimento della pace, ha attualmente in
Kosovo 37.200 soldati, mentre altri 5.600
forniscono supporto logistico in Macedonia,
Albania e Grecia.

Secondo le ultime cifre fornite dalla NATO, in
Kosovo gli Stati Uniti hanno il numero piu' alto
di soldati dispiegati sul campo, con 5.400
effettivi, seguiti dall'Italia (4.200), dalla
Germania (3.900), dalla Francia (3.900), dalla
Russia (3.150) e dalla Gran Bretagna (3.000).

Nel totale di 36 stati che contribuiscono alla
missione, gli altri paesi che hanno fornito
contingenti sostanziosi sono stati l'Olanda
(1.400), gli Emirati Arabi Uniti (1.300), il
Canada (1.100), la Grecia (1.100), la Norvegia
(1.000) e la Spagna (900). I paesi NATO coprono
circa i quattro quinti degli effettivi totali,
con circa 30.000 uomini.

I contingenti di supporto si trovano in
Macedonia, dove ci sono 4.000 militari KFOR, in
Albania, dove ve ne sono 1.400, e in Grecia,
dove sono 100.

Il Kosovo e' stato diviso in cinque settori,
ognuno sotto il comando di una diversa forza
partecipante: i francesi nel settore nord, gli
americani in quello est, i tedeschi in quello
sud, gli italiani in quello ovest e i britanni
in quello centrale.

La KFOR attualmente e' amministrata dal
Landcent, le forze di terra NATO nell'Europa
Centrale, con sede a Heidelberg, in Germania,
sotto il comando del generale tedesco Klaus
Reinhardt. Lo stato maggiore della KFOR e'
composto da circa 1.500 uomini di tutte le
nazionalita'.

Il Landcent verra' sostituito in aprile dallo
stato maggiore dell'Eurocorps, formato da
ufficiali di Belgio, Francia, Germania e Spagna.
La KFOR sara' a partire da allora comandata dal
generale spagnolo Juan Ortuno, che e' diventato
comandante dell'Eurocorps il 26 novembre 1999.


Eternera Mailing List - http://get.to/eternera
KFOR troop numbers in Kosovo

BRUSSELS, Feb 24 (AFP) - KFOR, the multinational peacekeeping
force in Kosovo, currently has 37,200 troops deployed in the
southern Serbian province and a further 5,600 troops providing
logistical support in Macedonia, Albania and Greece.
According to the latest figures supplied by NATO, the United
States has the largest number of soldiers deployed, with 5,400
troops in Kosovo, followed by Italy (4,200), Germany (3,900), France
(3,900), Russia (3,150) and Britain (3,000).
Among a total of 36 contributing nations, substantial
contingents have been provided by the Netherlands (1,400), the
United Arab Emirates (1,300), Canada (1,100), Greece (1,100), Norway
(1,000) and Spain (900).
NATO countries account for around four-fifths of the total,
contributing some 30,000 troops.
Support teams are based in Macedonia, where there are 4,100 KFOR
troops, Albania where there are 1,400 and Greece with 100.
The province has been divided into five sectors, each under the
command of a different contributing force: French in the northern
sector, American in the east, German in the south, Italian in the
west and British in the centre.
KFOR is currently administered from Landcent, NATO's land forces
in central Europe based at Heidelberg, in Germany, under the overall
command of German General Klaus Reinhardt.
The KFOR general staff comprises around 1,500 men of all
nationalities.
The Eurocorps general staff, comprising officers from Belgium,
France, Germany, Luxembourg and Spain, is due to take over from
Landcent in April.
KFOR will then be headed by Spanish General Juan Ortuno, who
took over as commander of Eurocorps on November 26, 1999.

---

THE MONTREAL GAZETTE, Sunday, February 27, 2000

God's houses in ruins: The world keeps silent as Serb churches,
monasteries are
destroyed in
Kosovo under noses of peacekeepers

MARK ABLEY
The Gazette

The Orthodox Church of St. Nicholas, in the Kosovo village Banjska, was
probably not an international treasure.

As far as we know, it was just a modest house of God in an area dotted
with the same.

But no one may ever be sure. On Jan. 30, 11 kilograms of explosives were

detonated at the altar,
leaving much of the building in ruins.

The explosion forms part of a sad and continuing pattern. Since a wary
peace took shape in Kosovo in June 1999, nearly 80 of its Orthodox
churches and monasteries are known to have suffered heavy damage or
destruction. The total may be higher, given that a lot of churches are
located in remote areas where few, if any, Serbs still live.

These attacks did not occur during the North Atlantic Treaty
Organization's
bombing campaign
last spring. They have happened since the return of Kosovo's Albanian
majority. Extremists, usually assumed to be linked to the Kosovo
Liberation Army, have carried out a systematic campaign of destruction
under the eyes of international peacekeepers.

The unanswered question is why this devastation has caused so little
outcry.
British and French
media have paid some attention to the attacks; but the North American
media have carried few reports. Dozens of non-profit groups are now
working in Kosovo; they have said next to nothing.

"The Western world is rather fed up with the Balkans," suggested Colin
Kaiser, chief of the unit for southeast Europe and the Arab states in
UNESCO's Division of Cultural Heritage. "The wars, first in Croatia,
then
in Bosnia and most recently in Kosovo, became more and more intense in
terms of damage. But the cumulative effect has been that the Western
sensibility to it all has been dulled."

True enough. But beyond that, it also seems true that after the wars of
the past decade, few Westerners dare to sympathize with anything
Serbian.

Last September, Bishop Artemije, the head of the Orthodox diocese of
Raska and
Prizren, charged
that while the first aim of the Kosovo Albanians "is to expel all Serbs,
the second is to eradicate all traces and witnesses that could serve as
evidence that the Serbs have existed at all.

"But who and what are the witnesses? Churches, monasteries and holy
places. So
they set out to
destroy the witnesses, to obliterate the traces. In 21/2 months more
than 70
monasteries and
churches were burned or demolished. Among them were the churches built
by
our illustrious and holy ancestors in the 12th, 13th and 14th centuries.
The churches and monasteries, which survived 500 years of Turkish
occupation, did not endure two months in the presence of a 50,000-strong
international 'peacekeeping' force."

Peacekeeping troops from the United Arab Emirates, serving in the United

Nations' multinational
KFOR mission, had been stationed near the Church of St. Nicholas. But in
late January they withdrew, leaving the church unprotected. It was soon
blown to pieces.

The presence of the UN soldiers has slowed the rate of destruction in
recent months, but foreign troops can provide no guarantee of safety. On
Jan. 14, for instance, the Church of St. Elias, in a village called
Cernica, was partly destroyed by explosives. It stood just 70 metres
from
a checkpoint of U.S. soldiers.

Almost everyone would agree that the destruction of St. Elias's and St.
Nicholas's churches is regrettable. But what has so far escaped much
notice, particularly in North America, is that dozens of the earlier
victims were not just Serbian village churches, but buildings of great
beauty and historical significance. Among them:

- The Church of the Holy Virgin in Musutiste, built in 1315. Frescoes
painted in the following years were among the finest examples of
medieval
wall-painting in the entire region. The church was looted, burned and
mined by explosives.

- The Church of St. Nicholas in Prizren, which is said to date to 1348
or
earlier, and which contained medieval icons. Five explosives went off,
causing extensive damage.

- The Monastery of the Holy Trinity near Musutiste, built from 1465 on.
It
held a unique library of manuscripts as well as a collection of recent
icons. The monastery was first plundered, then burned and finally
leveled
with explosives.

- The Monastery of the Holy Archangels in Gornje Nerodimjle, built in
the
14th century, renewed and extended in 1700. The monastery was looted and
burned; a great pine tree, said to date from 1336, was chopped down and
burned; the cemetery was desecrated.

The stories go on and on. The pattern is undeniable - and for once, no
one
is even trying to claim that Yugoslavia's notorious president, Slobodan
Milosevic, is behind it.

So far, thanks to a 24-hour guard by foreign soldiers, the greatest of
all
treasures in the region - the monastic churches of Gracanica and Decani
-
have survived. Writers have waxed eloquent about them for generations;
Rebecca West, for one, called Gracanica "as religious a building as
Chartres Cathedral. The thought and feeling behind it were as complex.
There is in these frescoes, as in the parent works of Byzantium, the
height of accomplishment."

Some of the buildings were jewels of European civilization. Now they are

rubble.
- - -
Throughout the Balkans, politics and art, history and myth, oppression
and
religion are intertwined. The ruined Orthodox buildings of Kosovo were
not
only centres of worship and art; they were political symbols.

Since the mid-1980s, writes Michael Sells, professor of comparative
religion at
Haverford
College in Pennsylvania, "Serb nationalists have manipulated concern for
the (Kosovo) shrines to motivate, justify and implement 'ethnic
cleansing'
and annihilation of centuries of non-Serb artistic and religious
monuments.

"In exploiting Serbian monasteries and the heritage they represented to
foment hate and violence, they desecrated a great Serbian heritage that
deserves better."

It must also be said that if the KLA is behind the devastation, it's
following
a path already
trod by Serbs themselves. In Sarajevo, Banja Luka and other Bosnian
cities, the
Serbs blew up
historic mosques and Islamic shrines, as well as burning the Oriental
Institute and the National Library.

Moreover, between March and June last year, while NATO was bombing
Serbia and
hundreds of
thousands of Albanian-speaking Kosovars were seeking foreign refuge,
many
buildings in Kosovo
were subject to deliberate Serbian attack.

The main targets, however, do not seem to have been mosques. Serbian
forces
aimed most of their
destruction at Albanian houses and marketplaces.

Now the Serbs are reaping the whirlwind. Since the Kosovars poured back
into their ravaged homeland, any buildings where Serbs lived or prayed
have been vulnerable - even if they were homes built in Ottoman style
during the long centuries of Turkish rule.

Another of the recently damaged buildings is the Kosovo Battle Memorial,
built on the famous battleground of 1389. That losing fight against the
invading Turks became a cornerstone of Serbian memory and folk history.
It
also became a useful symbol for Milosevic when he wanted to stir up
nationalist fervour in the 1980s.

In recent months, the Yugoslav government has bitterly protested against
the desecration of Orthodox buildings in Kosovo. But the protests have
fallen on deaf ears.

"I don't know how many times we have said this already," complained
Ljiljana
Milojevic
Borovcanin, first counselor at the Yugoslav embassy in Ottawa. "We have
raised the issue at the United Nations and also bilaterally, with the
countries participating in KFOR."

Those countries include Canada. About 1,450 Canadian troops are now in
Kosovo, serving mostly in the central and northern areas alongside
soldiers from Britain, Finland,

Norway, Sweden and the
Czech Republic. The international community has a lot at stake in the
peacekeepers' success.

Under KFOR, Kosovo has been divided into five sectors, each run by a
NATO-led
brigade. The
peacekeeping force is made up of 42,500 soldiers from 28 countries, in
addition to a further 7,500 troops based in neighbouring countries. For
each soldier in the KFOR mission, only about two Serbs remain in Kosovo.

Borovcanin says she has spoken to Canadian officials about the
continuing
destruction of
Orthodox churches, "and the response was always diplomatic. The Canadian

government says it
regrets all the damage, but at no time will it take any action.

"Yet it's the non-implementation of the UN resolution that has enabled
this barbarism to occur."

She was alluding to Security Council Resolution 1244. Under its terms,
the
mandate of the KFOR troops involves "demilitarizing the Kosovo
Liberation
Army (KLA) and other armed Kosovo Albanian groups - establishing a
secure
environment in which refugees and displaced persons can return home in
safety - (and) ensuring public safety and order."

UNESCO has been in touch with KFOR leaders, Kaiser told The Gazette.

"We provided them with lists of heritage sites that were much longer
than what
they could
actually handle. We were told that they have many responsibilities, and
can't possibly station soldiers in front of every monastery."

Speaking from Pristina last week, KFOR spokesman Lt.-Commander Philip
Anido said that "KFOR and its soldiers have static guards on the sites
that are active. Some of the churches are guarded by moving patrols, and
it's up to the brigade commander to decide on the level of sensitivity
and
the level of risk."

About 800,000 Albanian refugees are thought to have fled Kosovo before
and
during the war last spring. Perhaps it's not surprising that Canada – a
full participant in the NATO bombing campaign - should be reluctant to
speak out publicly against the Kosovo Albanians whom it spent so much
time, effort and money in helping.

Canada even contributed $200,000 to help pay for a cultural festival in
Kosovo last September. On hand along with international stars like
Mikhail
Baryshnikov, Meryl Streep and Elton John was the Cape Breton choir Men
of
the Deeps, flown in to sing coal-mining songs.

"Canada is helping rebuild Kosovo," Foreign Affairs Minister Lloyd
Axworthy
said at the time.
"That rebuilding effort must not only focus on bricks and mortar; we
must also
help rebuild the
human spirit."

But as elements of the KLA were quick to realize, the best way to crush
the spirit of Kosovo's remaining Serbs was to destroy significant chunks
of their bricks and mortar. The day after the cultural festival ended,
the
14th-century church of Saints Cosma and Damian in the village of Zociste
was razed. The church was noted for its frescoes of Old Testament
prophets.

On the same day, near the town of Vitina, the remnants of the
14th-century
monastery of the Holy
Archangel Gabriel were destroyed by explosives. The monastery had
already been
looted and
burned.

So much for the human spirit.

- - -

What is surprising, if not downright shocking, is that the destruction
of
churches and monasteries in Kosovo has aroused so little attention from
international groups that are supposedly dedicated to the preservation
of
cultural treasures.

To an outsider, it looks very much as though the ancient buildings and
artworks are somehow tainted by their association with present-day
Serbia.
When it comes to the monasteries and churches of Kosovo, silence has
become an unofficial policy.

Consider the following:

- The World Monuments Fund (a private, non-profit group based in New
York and
funded extensively
by American Express) placed no Kosovo buildings on its recent list of
the
100 most endangered sites around the world.

- The fund has given money for architectural restoration and
preservation to
165 projects in 51
countries - not including Kosovo. Its Web site includes no mention of
Kosovo, and a request for an interview with its president, Bonnie
Burnham,
was turned down.

- If you believe the Web site of the International Centre for the Study
of
the Preservation and Restoration of Cultural Property, this awkwardly
named group is a "catalyst for action." But it has remained silent about
the dangers to cultural property in Kosovo. An E-mail asking for an
explanation went unanswered.

- At UNESCO's headquarters in Paris last July, a six-day official
meeting took
place under the
auspices of the Convention Concerning the Protection of the World
Cultural and
Natural Heritage.
Member nations debated the threats to heritage sites in no fewer than 55

countries, including
Canada (a proposed open-pit mine near Jasper National Park came under
scrutiny); but Kosovo received only a brief general mention.

UNESCO did sponsor two missions of inquiry to Kosovo in July and
November. Yet
Colin Kaiser, who
led one of them, admitted that "UNESCO is not tooled to work quickly for

emergencies."

Part of the problem, he said, is that proper documentation is not
available for
Kosovo. The
agency intends to resume work there in co-operation with a Swedish group
called Cultural Heritage Without Borders.

"But we can't become involved in saying who did what," Kaiser
emphasized.
"UNESCO cannot take
sides."

- Last April, at the height of the war in Kosovo, a statement went out
from the International Committee of the Blue Shield (a joint endeavour
that unites librarians, archivists, museum curators and preservation
officials). The statement expressed a generalized "concern about all
damage to the cultural heritage of the peoples of Yugoslavia." Once the
war was over, the Blue Shield Committee had nothing more to say.

Last week, Manus Brinkman, the secretary-general of the International
Council of Museums, told The Gazette that "ICBS has not issued any new
appeals, because the first one is still as valuable as ever."

Asked about the response to the April statement, Brinkman said that
"there have
been a lot of
positive reactions and the appeal invoked much discussion. Sadly enough,
there was no reaction from the parties involved in the fighting in
Kosovo,
neither from the official Serbian or Albanian side, nor from NATO."

- Canada is one of many nations represented on ICOMOS, the International

Council on Monuments
and Sites, whose aim is "the conservation of the world's historic
monuments and
sites." The Web
site of ICOMOS Canada includes statements from 1997 onward. None
mentions
Kosovo.

The Canadian group's administrative secretary, Victoria Angel, said that
ICOMOS Greece has tried to raise awareness about the cultural monuments
in
Kosovo. But Greece was not one of the NATO members that bombed
Yugoslavia;
and anyway, a little-known non-profit group based in Athens can scarcely
be expected to kindle public attention in other countries.

"North America is still stuck with the message that there's a good guy
and
a bad guy in Kosovo," said Dinu Bumbaru, the head of Heritage Montreal
and
a vice-president of ICOMOS Canada. "And what the good guy does at the
end
of the movie is fine with us."

Bumbaru noted that while a great deal of information is available about
the Kosovo destruction, especially on the Internet, "there's no
communications campaign. Frankly I just wonder if, in the West, this is
of
interest."

In 1992, following Yugoslavian attacks on the magnificent Croatian city
Dubrovnik during a previous Balkan war, Bumbaru led a UNESCO-sponsored
mission to assess the damage. International funds were provided to help
Croatia, and Dubrovnik has largely been rebuilt.

But Croatia was widely seen as a victim, so, in the case of Dubrovnik,
it
was politically easy for other countries to do the right thing.

The Serbs, on the other hand, were widely seen as aggressors. Now
they're
outnumbered in Kosovo
nearly 20 to 1; and in Kaiser's words, "the problem is that ultimately,
the defence of anything depends upon local people.

"Ideally, both Albanians and Serbs in Kosovo will realize that the loss
of
the monasteries and churches, like the loss of the mosques and Ottoman
houses, will impoverish the whole area."

But that's a remote ideal. In the meantime, there appears to be no
political
will outside Kosovo
to stand up for an Orthodox heritage so fraught with beauty, so redolent
of pain.

- Reporter Mark Abley can be reached at (514) 987-2555 or by E-mail at
mabley@....



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