Jugoinfo


Le persecuzioni antipartigiane in Italia, oggi

1) LA VERITA’ DOCUMENTALE SULLA FOIBA MOBILE DI ROSAZZO
Conferenza stampa smaschera l'operazione antipartigiana. La relazione di Claudia Cernigoi e il messaggio di Wu Ming
2) FOIBE. UN PROFESSORE DI STORIA CHE NEGA LA STORIA
Vietata la iniziativa di mercoledì 23 marzo a Massa, nuovo appuntamento in piazza per il 30 marzo


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LA VERITA’ DOCUMENTALE SULLA FOIBA MOBILE DI ROSAZZO

L'annuncio della conferenza stampa del 23/3/2016 a Udine: 

RELAZIONE DI CLAUDIA CERNIGOI
alla conferenza stampa del 23 marzo 2016 a Udine
scarica in formato Pdf: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2016/03/LA-PROVENIENZA-DEL-DOCUMENTO-SULLA-FOIBA-DI-CORNO-DI-ROSAZZO..pdf

TESTIMONIANZA DI NADIA FANTINI, FIGLIA DEL COMANDANTE MARIO FANTINI "SASSO"
alla conferenza stampa del 23 marzo 2016 a Udine – in risposta agli articoli di stampa che accusavano ingiustamente suo padre di essere stato responsabile di esecuzioni sommarie. La vita dei partigiani garibaldini e delle loro famiglie dopo la fine della guerra...

«NESSUNA FOIBA ALLA ROCCA: QUEI MORTI SI CONOSCONO GIÀ. BASTA INSULTI AI PARTIGANI» (di Davide Vicedomini, 23 marzo 2016)
La storica Kersevan: dobbiamo considerare il teatro di guerra dell’epoca. Nel passato già svolte indagini «per criminalizzare la Resistenza» 
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23/03/16

I puntini sulle i sul (non) caso della non Foiba di Rosazzo ed il messaggio di Wu Ming


Rosazzo potrà, finalmente, ritornare ad essere abbinata al suo vino? Dopo più di un mese di martellamento continuo alla ricerca della non foiba, della non fossa comune, dopo denigrazioni nei confronti della resistenza, soprattutto quella Jugoslava e filo-Jugoslava, attacchi ad alcuni storici, all'ANPI, alla storia, ad ogni principio di correttezza etica e morale, e diversi e mirati tentativi finalizzati a sovvertire uno dei principi cardini del nostro stato di diritto, quale la presunzione di innocenza, il caso della non foiba è sempre più chiaro. Abbiamo scritto tanto in materia, perché costretti a ribattere, colpo su colpo, a tutte le nefandezze che sono emerse. Una non storia, fatta, appunto, da tanti non. Determinante è stato il lavoro svolto per la Verità da Resistenza Storica, da GIAP del collettivo Wu Ming, dal collettivo Nicoletta Bourbaki, ed anche ANPI. 
Con la conferenza stampa del 23 marzo di Udine, organizzata da Resistenza Storica, sul non caso,sul non mistero, abbiamo messo definitivamente, si spera, i puntini sulle i. 
Ma non finirà, ovviamente, il tutto a tarallucci e vino. Delle ripercussioni ci saranno, a partire dalla credibilità e legittimazione di alcuni soggetti e soggettività che hanno avuto un ruolo di primissimo piano in tutta questa allucinante ed ufologica (non) storia.  La conferenza stampa si è svolta nella sala del Comune di Udine, un primo saluto, importante, vi è stato da parte del Sindaco della città, diversi i giornalisti presenti, importante la presenza del pubblico. La conferenza stampa si è svolta nella sala ove vi è l'attestato della medaglia d'oro al valor militare di Udine e del Friuli, il giusto contesto per restituire onore e dignità soprattutto a Mario Fantini "Sasso" e Giovanni Padoan "Vanni"ed a tutti i nostri partigiani e la nostra resistenza. 

In questo secolo, per qualcuno, pare essere ancora una colpa aver combattuto non solo per la nostra libertà, ma per ideali legittimi ed insieme ai partigiani Jugoslavi. E' nella resistenza che si è ritrovata la fratellanza minata dal nazionalismo, prima, e fascismo, poi.
Le parole di Nadia Fantini, figlia di " Sasso", sono state eloquenti sul non caso della non foiba di Rosazzo. Ha detto che tutta questa vicenda è una "grande porcheria" e che neanche dopo tutti questi anni lasciano in pace suo padre, che quando i fascisti, a guerra finita, misero le bombe dove loro vivevano, per farli andare via dall'Italia, Fantini disse che sarebbe rimasto in Italia perché ha combattuto per la libertà dell'Italia, del nostro Paese. 

Una sintetica rosa di puntini sulle i sulla non foiba di Rosazzo:


1) La famigerata documentazione, da cui è partito il tutto, non è inedita. E' già stata riesumata svariate volte e sempre con gli stessi intenti antipartigiani. 
2) La nota di cui ora si discorre è inaffidabile, inattendibile, piena di contraddizioni e tale nota e non solo questa ma anche altri documenti che risulterebbero essere "inediti" emersero a suo tempo in un famoso processo degli anni Novanta, e nonostante la gravità delle cose ivi riportate, la notina non ha avuto alcun seguito in quel processo e non solo.
3) Il (non) caso casualmente emerge nel momento in cui viene desecretato l'armadio della vergogna, dove si parla anche dei crimini italiani commessi nelle terre occupate, ivi inclusa la Jugoslavia, con tanto di nomi di militari italiani.
4) La notina della non foiba di Rosazzo nasce in quel contesto storico, come strumento di propaganda volto a demonizzare la resistenza Jugoslava con lo scopo di non consegnare i criminali di guerra italiani alla Jugoslavia, senza dimenticare la questione dei "confini" che era in piena ebollizione. 
5) La non foiba, appunto, non esiste. Non è stato compiuto nessun massacro contro la popolazione civile da parte dei partigiani.
6) In quel tempo quella zona è stata caratterizzata da durissime battaglie e rappresaglie nazifasciste. Vi era la guerra. 
7) I "morti" di Premariacco sono sconnessi dalla non foiba di Rosazzo e dalla notina del mese di ottobre del 1945 e non pertinenti a questa.
8) E' arrivato il momento per l'Italia di assumersi le sue responsabilità per i crimini compiuti e mai puniti nelle terre aggredite ed occupate, questa assunzione di responsabilità è il miglior modo di essere civili e rispettosi della verità storica e della nostra Costituzione e dei diritti umani.

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23.3.2016

La storia fatta coi piedi (mozzati), ovvero: 7 errori di metodo nella ricerca delle «nuove #foibe»


[Un piccolo vademecum per affrontare polemiche e campagne mediatiche a tema storico. Questo “eptalogo” è stato letto e distribuito oggi a Udine, durante la conferenza stampa di Resistenza Storica sulla presunta «foiba o fossa comune di Rosazzo» (l’ormai famigerata «foiba volante del Friuli orientale»). Sette punti che riteniamo utili anche al di là del caso specifico. Buona lettura.]

di Wu Ming

Tutti quelli che negli ultimi due mesi, nel territorio tra Udine e Gorizia, si sono riempiti la bocca con l’espressione «verità storica» o – peggio ancora – con «verità» senza aggettivi, dovrebbero leggere un libro, un saggio breve e di agile lettura considerato una pietra miliare della riflessione sulla ricerca storica. Si intitola Apologia della storia o Mestiere di storico, lo scrisse uno dei più grandi studiosi del Novecento, Marc Bloch.

Bloch era membro della Resistenza francese. Fu arrestato dalla Gestapo nella primavera del 1944, torturato e infine fucilato insieme ad altri 26 partigiani.  Apologia della storiauscì postumo, nel 1949. In quel libro, Bloch parla del metodo critico, di come maneggiare i documenti storici e di come nascano i falsi e gli errori.

Tra i primi insegnamenti che si possono trarre leggendo Bloch, ci sono questi:

1. L’autenticità di un documento non implica l’autenticità del suo contenuto. Un foglio trovato in un archivio può essere autenticamente del 1945, e al tempo stesso essere pieno di asserzioni prive di riscontro e di basi fattuali. In una parola: di fandonie. Il passato non conferisce veridicità a un documento, una panzana non diventa vera solo perché “vintage”. Ripetere che un documento «è autentico» senza distinguere tra questi due aspetti, anzi, confondendoli sistematicamente, è roba da storico della domenica… oppure da mestatore.

2. Nemmeno l’archivio conferisce veridicità a un documento, come non gli conferisce autorevolezza: gli archivi raccolgono di tutto, se un documento viene trovato in un archivio rinomato, non per questo dice il vero, né il suo contenuto ha alcun “sigillo di garanzia”. Che un documento trovato negli archivi della Farnesina venga definito tout court come «un documento della Farnesina» è, nella migliore delle ipotesi, un errore marchiano; nella peggiore, un miserabile espediente.

3. Ancor più cautela richiedono le testimonianze orali basate su ricordi e sulla frase «Io c’ero». L’esserci stato non conferisce autorità a un testimone né veridicità al suo racconto: bisogna capire dove è stato, e come, in quale condizione d’animo e a quanti “gradi di separazione” dall’evento che racconta. Non è nemmeno necessario che un testimone sia mendace perché la sua testimonianza sia priva di riscontri: ogni storico serio sa che i ricordi si modificano nel tempo, e l’esperienza di un testimone è sempre soggettiva e parziale. Per questo le testimonianze non vanno prese come oro colato ma indagate, smontate, confrontate tra loro. Soprattutto quando si parla di guerre, di tragedie, di eventi osservati in momenti di «violento turbamento emotivo», spiega Bloch, l’attenzione dei testimoni è «incapace di concentrarsi con sufficiente intensità su punti ai quali lo storico giustamente [attribuirà] un interesse preponderante».

4. Tutte queste trappole si fanno ancora più insidiose quando il ricordo dell’evento è in realtà ricordo del racconto dell’evento, cioè la testimonianza è di seconda mano, fornita dal figlio o dal nipote del presunto testimone diretto, o è ancor più lontana dai fatti. Per capirci: uno che dice «in paese si è sempre detto» o frasi simili, molto a fatica può essere definito un testimone. Se continuo a chiamarlo così, o sono disonesto o sono stolto… o entrambe le cose.

5. Senza questo approccio critico nei confronti delle testimonianze, si rimane al dettaglio che colpisce l’attenzione del profano, e si finisce per riportarlo senza filtri. Se un tale mi dice che sua sorella (nemmeno lui: sua sorella!), giocando su un prato quand’era ragazzina trovò un piede umano, io ho il dovere di chiedergli di approfondire: che anno era? Sua sorella chiamò i carabinieri? Fu perlustrata l’area? Si è poi scoperto di chi fosse quel piede? Non è altro che il vaglio giornalistico innescato dalla proverbiale “seconda domanda”. È l’ABC. Ma se non faccio la seconda domanda, quel piede resta un dettaglio macabro, morboso. Un dettaglio privo di contesto, insignificante e inutilizzabile a fini storiografici, ma molto buono per impressionare i lettori.

6. Una volta trovato un documento, per prima cosa devo chiedermi se sono il primo ad averlo trovato. Dopodiché, devo subito inserirlo nel contesto delle conoscenze e acquisizioni storiografiche sull’argomento. Solo a quel punto potrò divulgarlo e parlarne in modo serio e coerente. Se lo divulgo prima di ogni cosa, e in modo sensazionalistico, aggiungendoci gli errori trattati nei punti 1 e 2 e cercando pezze d’appoggio in testimonianze raccolte senza le cautele descritte ai punti 3, 4, 5,  non può che innescarsi una catena di reazioni come quella a cui abbiamo assistito in Friuli-Venezia Giulia a partire dall’autunno 2015.

7. Un’altra cautela da osservare per riconoscere l’errore, evitando di maneggiare la storia in modo irresponsabile, è chiedersi se una storia è plausibile o semplicemente suona plausibile perché si accorda con dicerie, sentiti-dire e stereotipi diffusi. Bloch scrive: «Quasi sempre l’errore è orientato in anticipo. Soprattutto esso si diffonde e prende radici solo se si accorda con le convinzioni preconcette dell’opinione comune; diventa allora come lo specchio in cui la conoscenza collettiva contempla i propri lineamenti».  E aggiunge: «Perché l’errore di un testimone divenga quello di molti uomini, perché una cattiva osservazione si trasformi in una voce falsa, occorre anche che lo stato della società favorisca questa diffusione».

Con le frottole circolate in questi mesi potremmo fare “ingegneria inversa”, e ci direbbero molto sulle idee correnti, su quel che si crede vero oggi in Friuli e lungo il confine orientale d’Italia. Bloch scrive che non vi sono solo individui mitomani, ma anche «epoche mitomani», nelle quali la maggior parte delle persone dà poca importanza ai fatti e molta a quel che piace sentire, a quello che conferma, rassicura e seduce. Noi viviamo in un’epoca mitomane. Smontare questi miti è certo più faticoso che adagiarsi e seguire la corrente, ma non dobbiamo rassegnarci.

Se ci sono ricercatori che in quest’epoca mitomane non si sono mai rassegnati, e hanno continuato a inchiodare quel che scrivevano ai fatti riscontrabili, sono quelli della collana Resistenza Storica delle edizioni KappaVu. Per la loro coerenza hanno subito attacchi e calunnie, e hanno sempre avuto la nostra solidarietà.

Di contro, chi commette o favorisce gli errori descritti sopra non è uno storico né capisce di ricerca storica, né probabilmente vuole capirne, e non può che avere la nostra disistima, e in certi casi il nostro aperto disprezzo.


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Foibe. Un professore di storia che nega la storia


di C.s.o.a. Casa Rossa - Massa

Mercoledì 23 Marzo avrebbe dovuto svolgersi a Massa, presso le stanze del teatro comunale Guglielmi, una conferenza dal titolo “Foibe: smontare una narrazione tossica”, tenuta da Sandi Volk, storico triestino che, da anni, si occupa delle vicende storiche legate alle terre Dalmate e Giuliane.

Il giorno prima della conferenza, l’amministrazione comunale di Massa, dopo aver concesso quasi da un mese i permessi per la sala, ha vietato lo svolgimento dell’iniziativa, definendo questa un evento “inopportuno” e che “per motivi di necessità” non poteva svolgersi in uno spazio comunale in centro città.

Riteniamo vergognoso questo divieto da parte dell’ amministrazione comunale, specialmente perché il sindaco di Massa, Alessandro Volpi, ricopre l’incarico di docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa. Non vogliamo entrare nell’ambito di un concetto ambiguo come quello della “libertà di parola”, vogliamo entrare nel merito della ricerca e della verità storica, che, in questo caso, un professore universitario è stato il primo a vietare.

Siamo stati abituati a vedere la figura dello storico, e dello studioso in generale, come una figura sempre pronta a mettere in discussione gli avvenimenti storici e ad analizzarli, non come una figura che si assoggetta al pensiero dominante accettando aprioristicamente ciò che viene imposto. Vietando una conferenza sul tema delle “foibe”, tema, tra l’altro, strumentalizzato per anni dalle varie organizzazioni di destra, che mirava a smontare, con tanto di prove documentate, un falso storico imposto nell’immaginario di gran parte della popolazione italiana, il sindaco Volpi e la sua giunta hanno dimostrato di essere perfettamente inchinati a una visione della storia di quei luoghi, che ha fatto propria la menzognera verità ufficiale.

Abbiamo deciso, come Centro Sociale Occupato “Casa Rossa”, di rilanciare l’iniziativa Mercoledì 30 Marzo in una piazza del centro di Massa, perfettamente consci che la conferenza potrebbe essere contrastata, oltre che dai quattro fascistelli locali, anche dalla stessa amministrazione comunale. E’ per questo che chiediamo la solidarietà a chi lavora all’interno del mondo della formazione, a chi, insomma, fa dell’ amore per la ricerca della verità e della conoscenza in generale il proprio mestiere, a tutti quei docenti che trovano inaccettabile il divieto perpetrato dal proprio collega.

“Il potere, lungi dall’ impedire il sapere, lo produce.” – M. Foucault

 

24 marzo 2016




VIDEO: Partizan - AEK 1999 Fuck NATO!
Brotherly Match Partizan - AEK 07.04.1999.



Belgrado 1999, un calcio alla guerra


27th Mar 2016

Il 7 aprile 1999, durante i bombardamenti Nato, a Belgrado si giocò un'amichevole contro la guerra tra Partizan e Aek Atene
Belgrado 1999, un calcio alla guerra


La sveglia è all’alba. La squadra si raduna e insieme si va all’aeroporto di Atene-Eleftherios Venizelos. I sorrisi a favore di telecamera e gli sguardi solo all’apparenza distesi nascondono un’ingente carica di tensione. Alle porte per i giocatori dell’Aek Atene non c’è una partita di cartello, né un’importante sfida europea che deciderà la stagione dei gialloneri. Anzi, il campionato in Grecia è fermo per la Pasqua ortodossa, di solito un’occasione che i giocatori sfruttano per stare con le proprie famiglie, per staccare la spina per qualche giorno. Ma la posta in palio questa volta è troppo alta per restare a casa, e così, quando ai giocatori è stato chiesto di partire, nessuno si è tirato indietro. Insieme a loro si metteranno in viaggio anche i dirigenti del club e una folta rappresentanza del tifo organizzato, che ha deciso di seguire la squadra in una partita dall’immenso valore simbolico. Ci siamo. Belgrado, stiamo arrivando.

Non sarà un viaggio di piacere, e non sarà facile arrivare in Jugoslavia. Il volo da Atene atterrerà a Budapest, con il viaggio che proseguirà riscendendo in pullman verso sud, attraverso il confine che divide l’Ungheria dalla Vojvodina. È l’unico modo, il più sicuro, per entrare in Jugoslavia. Perchè oggi è il 7 aprile 1999, il quattordicesimo giorno da quando, lo scorso 24 marzo, la Nato ha iniziato i bombardamenti sull’intero territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia. Neanche Novi Sad, che della Vojvodina è il centro principale, è stata risparmiata dalle bombe. Ed è strano, perchè la città, distante quasi 100 chilometri da Belgrado e circa 500 dal Kosovo, ha sempre mantenuto intatto il suo carattere multiculturale, terra di frontiera e confronto tra la comunità serba e quella ungherese. E poi, se vogliamo dirla tutta, è gestita da una delle amministrazioni locali più ostili all’establishment del presidente jugoslavo Slobodan Milosevic.

Quattro raid, ai quali presto ne seguiranno altri, in pochi giorni hanno devastato le principali infrastrutture della città che ha dato i natali a Vujadin Boskov, all’epoca allenatore del Perugia. È stato lo stesso Boskov, in un colloquio telefonico con Miodrag Lekic, l’ambasciatore jugolavo in Italia, a comunicare l’intenzione di continuare a giocare, manifestata dai giocatori jugoslavi impegnati in Serie A. Alla fine, l’idea di rifiutarsi di scendere in campo nei Paesi membri della Nato, avanzata tra gli altri da Savicevic – che da gennaio è tornato a giocare nella Stella Rossa – e Mihajlovic, non è stata ritenuta realistica. Sono professionisti legati al proprio club da regolare contratto. Giocheranno si, ma non perderanno occasione di manifestare il proprio dissenso verso questa guerra assurda.

Un bersaglio disegnato, una scritta, un’intervista che esplicitamente metta l’opinione pubblica a conoscenza di quanto siano illegali e immorali quelle bombe che dalla notte del 24 marzo cadono incessantemente sulla Jugoslavia. Affinché tutti possano avere anche solo la minima percezione di cosa significhi ritrovarsi a convivere con il terrore. Di cosa significhi avere la quotidianità violentata dagli urli delle sirene, dall’ansia, dalle corse nei rifugi o negli scantinati dei palazzi. Una volta, poi un’altra e un’altra ancora. Giorno dopo giorno.

Per questo l’Aek Atene ha deciso di sfidare l’embargo e recarsi a Belgrado per giocare un’amichevole contro il Partizan, il cui ricavato andrà per intero alle associazioni umanitarie jugoslave. Il tratto in pullman, l’ultima tappa del viaggio, non è privo di tensione. Il giorno prima la Nato ha scatenato uno dei bombardamenti più duri dall’inizio dell’aggressione militare, colpendo, nella notte tra il 5 e il 6 aprile il quartiere operaio della città di Aleksinac, mentre da poche ore è arrivata la notizia secondo cui l’Alleanza ha rifiutato il “cessate il fuoco” proposto da Belgrado.

Con uno stato d’animo difficilmente immaginabile, la carovana proveniente da Atene entra finalmente in città, accolta dagli edifici anneriti e dalle macerie del palazzo che ospita il Ministero degli Interni a Kneza Milosa, colpito nella notte tra il 2 e il 3 aprile, con le fiamme che si sono estese danneggiando anche il vicino ospedale psichiatrico “Laza Lazarevic” e l’unità di ostetricia e psicologia. Lo Stadion Partizan, quel giorno, è probabilmente l’unico luogo di Belgrado in cui regna una seppur superficiale ed effimera serenità. Le tribune sono piene, bandiere greche e jugoslave si mescolano con gli striscioni del Partizan e dell’Aek, unite da quei bersagli che ormai tutto il mondo ha imparato a conoscere.

Sono i simboli di un’opposizione internazionale alla guerra, gli stessi che atleti sparsi in tutto il mondo indossano ogni domenica sotto le magliette, gli stessi che la gente comune espone notte dopo notte, quando sceglie di aspettare sui ponti di Belgrado l’arrivo dei caccia bombardieri della Nato. Dai ponti allo stadio, la paura è forte, ma la voglia di contrastare la guerra lo è di più. Così il tabellone luminoso, inquadrato dalla tv jugoslava, ripete il messaggio a chiare lettere prima della partita, «Stop the war, stop the bombing», trovando l’eco da parte dello striscione che i giocatori di entrambe le squadre srotolano in campo.

La partita finisce 1-1, ma il risultato è di certo la parte meno interessante della giornata. È più importante sapere che la partita non termina al 90′, perchè a undici minuti dall’inizio della ripresa l’arbitrio fischia tre volte, permettendo ai tifosi di entrambe le squadre di correre in campo. Un’invasione, questa sì, pacifica, un abbraccio collettivo in quel valzer di bandiere che per un pomeriggio ha colorato Belgrado. Ma il momento scelto per interrompere la partita non è casuale, lo sanno tutti, in campo come sugli spalti.

Vorremmo far dipendere la decisione da una chiara scelta in favore della solidarietà, ma non è così. All’undicesimo della ripresa la partita viene interrotta per permettere agli ospiti di rimettersi in viaggio e lasciare la Jugoslavia con la luce del giorno. Perchè poi, appena la notte tornerà ad occupare il suo posto nel cielo, torneranno loro. I boati assordanti, le sirene e i loro canti di morte. Stasera su Belgrado tornerà la guerra.

 A Milica Rakic




(italiano / srpskohrvatski)

Jugoslavenstvo poslije svega

1) Dragan Markovina (autor): Jugoslavenstvo poslije svega (Most Art, 2015)
2) Jugoslavismo oggi. Intervista a Dragan Markovina / Jugoslovenstvo danas


Isto pročitaj:

Srbija i Hrvatska: Antifašizam kao perverzija (Omer Karabeg - 04.01.2015
U najnovijem Mostu Radija Slobodna Evropa razgovaralo se o tome kakav je odnos prema antifašizmu u Srbiji i Hrvatskoj. Sagovornici su bili istoričari - Dragan Markovina, docent na Filozofskom fakultetu u Splitu, i Srđan Milošević, saradnik beogradskog Instituta za noviju istoriju Srbije...

Nekoć fanatični Jugoslaveni, a danas veliki nacionalisti (Emir Imamović Pirke, 3.1.2016)
Neke vijesti u vrijeme oko izbora sporije putuju: trebalo je, tako, proći mjesec i pol dana da se u Hrvatskoj uopće progovori o novoj knjizi doktora povijesnih znanosti, Dragana Markovine, naslovljenoj sa “Jugoslavenstvo poslije svega“ - objavljenoj i krajem listopada prvi puta promoviranoj na Sajmu knjiga u Beogradu. Vrijeme, naravno, nije učinilo svoje...


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Dragan Markovina (autor)

Jugoslavenstvo poslije svega

Izdavač: Most Art (Zemun, Srbija), 2015
Broširani povez – latinica – 21 cm, 155 str.
ISBN 978-86-84149-91-8

Govoriti danas, 25 godina nakon raspada zemlje, o Jugoslaviji i jugoslavenstvu kao takvom, u gotovo svim društvima na postjugoslavenskom prostoru, izlaže autora značajnom riziku od izolacija, preko prešućivanja, do otvorenih napada (...) Istinski demokratska društva u pravilu potiču razgovore o svim bitnim pitanjima koja doista zanimaju javnost. S te strane ova knjiga dokida šutnju o jednom važnom pitanju i realnosti koja se na kulturnom planu događa, sviđalo se to nekome ili ne. Na kraju krajeva, to što se neka tema ne problematizira, ne znači da je nema i da će je se šutnjom ukloniti.

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JUGOSLAVENSTVO POSLIJE SVEGA_14.12.2015_Sarajevo_BiH (DIOGEN pro culture magazine, 15 dic 2015)
Umjetnička galerija BiH, u saradnji sa Asocijacijom nezavisnih intelektualaca Krug 99, DIOGEN pro kultura magazinom i IP MostArt, je organizovala promociju knjige „JUGOSLAVENSTVO POSLIJE SVEGA“, autora Dragana Markovine. Ponedjeljak, 14.12.2015.g. u 18:00 sati
O knjizi su govorili:
Hidajet REPOVAC, član predsjedništva Asocijacije nezavisnih intelektualaca Krug 99, Sarajevo, BiH
Sabahudin HADŽIALIĆ, književnik, gl. i odg. urednik DIOGEN pro kultura magazina, Sarajevo, BiH
Dragan STOJKOVIĆ, urednik izdanja i direktor IP MostArt, Zemun, Srbija
i Dragan MARKOVINA, povjesničar, Split, Hrvatska
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=Tv4aJFlau1k

Promovirana knjiga Dragana Markovine “Jugoslavenstvo poslije svega” u Mostaru (tačno.net, 16.12.2015.)
Još od Alekse Šantića, Mostar nije imao mislioca s kojim se tako vezao kao s  dr. Draganom Markovinom. Mostarski princ, okupio je sinoć civilizovani, ujedinjeni, bivši Mostar, onaj Mostar kojeg nije mogla uništiti ni opsada, ni logori, Mostar koji se odupire teroru izetbegovićevskočovićevske šovinističke politike. Mostar koji je sinoć bio Grad...

Zašto se šuti o Jugoslaviji? (Mirsad Behram, 16.12.2015)
Da li je jugoslavenstvo kao ideja mrtvo i kakva je, zapravo bila Jugoslavija? Zašto se i danas, dvije i po decenije nakon njenog raspada u zemljama nastalim na njenom tlu o tom fenomenu malo govori i ponekad je čak o tome i opasno govoriti? ... Teme su to o kojima piše u najnovijoj, kontroverznoj knjizi „Jugoslavenstvo poslije svega“ splitski historičar mostarskih korijena Dragan Markovina, koja je ovih dana promovisana i u Mostaru...


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Intervista a Dragan Markovina, storico

Jugoslavismo oggi

 

“Queste società, con l’eccezione della Seconda guerra mondiale e di questa ultima guerra, non sono mai state in una situazione peggiore, naturalmente. Ma ciò non significa che non accada qualcosa di nuovo, soprattutto presso i giovani, che riflettono attivamente sull’eredità dello spazio jugoslavo, sul suo presente e soprattutto sul suo futuro. Credo sia ineluttabile, e che nei prossimi decenni questa “realtà parallela”  esisterà accanto a quella istituzionale e che sarà la nuova a divenire quella principale.  Forse sbaglio, ma si tratta di ciò che penso”.

Lo storico e pubblicista spalatino, Dragan Markovina, (Mostar, 1981), è apparso come una meteora sulla scena pubblica e culturale croata, e poi bosniaca. Pubblicamente e senza scuse, ha parlato sulla rete televisiva statale della idea di Jugoslavia e dello jugoslavismo come di fatti storici positivi, il che in Croazia rappresenta il massimo tra i tabù. Trattandosi di un giovane intellettuale, grandi sono state la costernazione e lo stupore nell’opinione pubblica dato che Markovina assume da antinazionalista radicale, le posizioni che i nazionalisti degli anni ottanta definivano riservate solo “ai figli dei militari e dei matrimoni misti”, che soffrivano per “la perdita dei privilegi di quell’epoca passata”.

Markovina ha insegnato storia all’università di Split, ma l’anno scorso è stato licenziato, con la scusa della conclusione del contratto,ma nessuno ci ha creduto. Oggi si occupa di pubblicistica, ed è autore di libri interessanti e il suo studio “Tra il rosso ed il nero: Split e Mostar nella cultura del ricordo” ha ricevuto il premio Mirko Kovač. Presso la casa editrice di Belgrado “Mostart” è di recente usciti il libro “Jugoslavismo dopo tutto (quelloche è successo), in cui in modo chiaro e abbordabile parla della ideadell’unione degli Slavi del sud, ma anche del suo futuro.

“VREME”: Ti chiedi nella introduzione una cosa  che in passato pochi hanno avuto il coraggi di fare – una domanda che in Croazia è stata tabu per molto tempo, e che resta tale ancora nell’odierno contesto: “E’ lo jugoslavismo così forte o sono gli stati di recente costituzione e le loro ideologie di sostegno così deboli che temono chiunque non gli canti le lodi e viva lo spazio jugoslavo come unità culturale?

Dragan Markovina: Penso che questi stati e le loro narrazioni nazionalistiche poggiano su basi coì fragili e povere che ciò è chiaro persino a coloro che li propagandano, e che questo discorso nazionalistico debba temere una vera sinistra e soprattutto l’idea jugoslava. Naturalmente, questa idea non è assolutamente talmente forte dacostituire la possibilità che qualcosa cambi immediatamente, ma sta di fatto che questa idea è affermata dalle persone più dotate di questo territorio. E questo nel profondo è chiaro anche ai nazionalisti: che sono culturalmente inferiori e che a lungo termine il loro discorso non potrà vincere.

V: E’ affascinante come i tempi cambino e insieme la percezione delle posizioni. Boris Buden ha scritto e proposto le stesse posizioni sulla Jugoslavia già negli anni ’90, ma erano così radicali che i la Croazia li ha respinti come follie oppure li ridicolizzava come posizioni marginali. Oggi li proponi tu, e se ne parla perlomeno, e addirittura nel mainstream.

D.M. E’ vero che i tempi sono cambiati. La guerra è stata così brutale che di quello di cui parlava Buden a quell’epoca nessuno si interessava. Dopo venticinque anni è arrivato il tempo di fare i conti e di chiedersi “dove andare”. Il contesto è diverso, Un’altra cosa: mi considero parte di coloro che sono marginali, ma la differenza con Buden è che scriveva con un linguaggio che non poteva venir inteso dalle “grandi  masse popolari”. Inoltre, si è fatto avanti a partire da posizioni attribuibili alla sinistra radicale. Oggi i tempi sono diversi anche dal punto di vista mediatico: per capirci – se non fossi stato ospite alla trasmissione “Domenica alle due” da Aleksandar Stanković, non ci sarebbe stata alcuna eco.  Ciò che ho detto l’ha visto il pubblico croato e non solo, anche quello del territorio jugoslavo, qualcosa che una buona parte della gente pensa, ma non ha occasione di sentire.

V: Quando confronti gli anni ’90 ed oggi, dici che la situazione è assolutamente “promettente”. Non è invece che la situazione è più cinica- cioè si può dire tutto, ma niente in base a quanto detto, cambia?

D.M. Assolutamente. Tuttavia, penso che tutto l’approccio della scena post-jugoslava, di sinistra, civile, dovrebbe essere diverso: dovrebbe ignorare la realtà istituzionale – non così come fanno i piccoli partiti della sinistra radicale che farebbero la rivoluzione – è insensato- ma nel senso di chiarire semplicemente che non è la nostra storia. E che creiamo una realtà parallela, il che sta già avvenendo in realtà.

V: nel tuo libro serpeggia un ottimismo verso la cosa

D.M. Queste società, con l’eccezione della Seconda guerra mondiale e di questa ultima guerra, non sono mai state in una situazione peggiore, naturalmente. Ma ciò non significa che non accada qualcosa di nuovo, soprattutto presso i giovani, che riflettono attivamente sull’eredità dello spazio jugoslavo, sul suo presente e soprattutto sul suo futuro. Credo sia ineluttabile, e che nei prossimi decenni questa “realtà parallela”  esisterà accanto a quella istituzionale e che sarà la nuova a divenire quella principale.  Forse sbaglio, ma si tratta di ciò che penso.

V: Insegnavi all’Università a Split finché non ti hanno mandato via. Hai parlato con gli studenti di questi temi, e che cosa pensano i giovani di quel periodo e della stessa idea?

D.M. La controrivoluzione della HDZ negli anni ’90 dal punto di vista delle idee ha destrutturato Split, con l’aiuto anche se vogliamo del partito socialdemocratico. A tale attacco ad ogni patrimonio sociale e non solo del socialismo, a parte qualche individuo e il “Feral Tribune”, nessuno ha risposto, ed oggi a Split si ha una situazione tale che sul piano culturale, dalle pubblicazioni di libri ai dibattiti, tutto è nella mani della destra clericale. Dall’altra parte non c’è nessuno. Gli studenti nelle facoltà di storia e in generale nelle facoltà umanistiche pensano allo stesso modo, purtroppo. Si tratta delle generazioni nate all’inizio della guerra e dopo. Quelli intolleranti rifiuteranno in toto l’eredità jugoslava, quelli più tolleranti accetteranno qualcosa, ma useranno comunque l’argomento chiave: “I Serbi hanno assalito noi, e non era più possibile tenere insieme la cosa”. Narrazioni mitologiche, peraltro non totalmente errate, ma che non consentono pensiero alternativo. La cosa più tragica forse è stata quando una mia studentessa mi ha detto molto seriamente che nel loro gruppo di una ventina di studenti di Storia, una dozzina festeggiava il dieci marzo (il giorno della fondazione dell’NDH), e quattro di loro erano figli di matrimoni misti…

La Chiesa, che ritengo la più colpevole, i media e la scuola modificano la storia e molti giovani non sanno niente. Una delle prove più bizzarre di questo è che a Split, tra gli affiliati a Torcida (la tifoseria della squadra di calcio Hajduk) e tra i circoli della destra degli anni ’80, esiste la narrazione che afferma che Džoni Stulić (cantante rock jugoslavo e jugoslavista) sia stato un nazionalista croato e che la sua canzone Pavel sia stata composta in onore di Pavelić – e per questo fosse dovuto andare via…

V: Dici che i neo-stati in rotta tra di loro siano unite dalla cultura, dagli scrittori, e caratterizzi questo come positivo. Non ti sembra che molti su questi “legami” ci marcino già da decine di anni, e che il loro modus operandi sia: “noi ci incontriamo e distruggiamo i confini solo perché essi possano continuare ad esistere?”.

D.M. Sì c’è del vero in questo. Uno che la pensa così è Viktor Ivančić. Lui ha un editore a Belgrado e non vuole averne altri. Sicché è difficile trovare i suoi libri in Croazia, Bosnia e Erzegovina o in Slovenia, dato che i mercati sono frammentati, anche in tutto eccetto che nella cultura esiste lo scambio. La sua tesi è che se ha pubblicato un libro in una lingua, sul territorio che ritiene il suo paese, non è necessario avere un editore specifico in Croazia, e non vuole legittimare questa situazione solo per vendere mille libri in più. Hai qui i mondi paralleli dei cosiddetti processi integrativi: uno è il racconto partigiano-antifascista, classicamente nostalgico, che biologicamente sparisce ed esce di scena; l’altro è quello delle ONG che ha manifestato contro le guerre e poi ha cominciato a vivere di ciò, e poi c’è il terzo racconto, collegato con il precedente, , la scena intellettuale, scrittori, film e così via. Solo quando usciranno di scena, una nuova generazione, che non avrà alcun ricordo della Jugoslavia, realizzerà tutto, si legherà secondo la natura delle cose, creando un vero spazio culturale. E’ ineluttabile.

V: Oggi e negli anni passati ci sono stati alcuni intellettuali che hanno avuto se così possiamo dire, la tua stessa linea. Ricordiamo Boris Budenm Vjekoslav Perica, il linguista e radicale seguace della linea vukovista (del linguista Vuk Karadžić) Orsat Ligorio e qualche altro. Si tratta di “cavalieri solitari”, individualisti neppure tra coloro che la pensano in modo simile si trovano a casa. Si tratta di un paradosso: l’autenticità del pensare sullo jugoslavismo implica lasolitudine e la separazione.

D.M. Penso che all’idea jugoslava abbia paradossalmente fatto dei danni la forma statale, perché ha creato della Jugoslavia solo un progetto politico. Non è stato disatteso peraltro, soprattutto se parliamo della seconda Jugoslavia. Tuttavia l’autenticità di tale posizione è nell’isolamento e nell’antinazionalismo come piattaforma. Qualsiasi legame con la massa necessariamente comprometterebbe l’idea, così come è stato per il socialismo quando è arrivato al potere- il potere porta a compromessi e a corruzione che decompongono l’idea. L’idea è fatta propria da individui, che non desiderano essere parte del branco o della comunità. Non diventerà mai “mainstream”, qualcosa che potrebbe essere rappresentato dalla maggioranza della comunità. Nessuna rivoluzione o cambiamento è stato fatto dalla sola massa, ma è stato opera di un lungo lavoro di individui. Così per esempio Viktor Ivančić dice che il “Feral Tribune” si è sempre sentito come corpo separato all’interno della città di Split.

V: Nel trattamento riservato al “Feral Tribune” il giornale che è stato così significativo per molti, nel tuo libro si osserva la totale mancanza di critica. Affermi che il “Feral” sia stato sulla  linea dello jugoslavismo.  Mi pare che sia stato piuttosto sul piano pratico dell’unire ciò che era diviso (cosa comunque impagabile) che sul paino dell’affermare apertamente questo concetto.

D.M. E’ vero se guardiamo le cose fuori dal contesto temporale. Se guardiamo dalla prospettiva odierna,  penso non sia di cruciale importanza l’analisi del fenomeno del “Feral”. Per al semplice ragione che: anche loro si sono evoluti nel frattempo- parlo del nucleo originario.  Erano antinazionalisti dal primo giorno e non per finta, il presidente della SFRJ li aveva citati praticamente per “colpo di stato”. Ivančić in tribunale fu citato per “distruzione dell’ordine costituzionale” già nel 1989, cosa su cui nessuno scrisse nemmeno un rigo. Anche Lučić e Dežulović. E’ difficile aspettarsi che le persone nel giro di tre anni dimentichino le loro esperienze riguardo al sistema in cui vivevano fino a pochi anni prima. Certamente, c’era di tutto tra i collaboratori al giornale. Tuttavia penso che per il fine ultimo in questo modo la loro posizione fosse molto più produttiva. Tuđman aveva paura del Feral.

V: Questo scontro si vide durante i bombardamenti sulla Serbia nel 1999. Un intellettuale orientato a sinistra e filo-jugoslavo Frano Cetinić Petris in quel momento smise di collaborare con loro.

D.M. Ti ricorderai che allora nello stesso “Feral” ci furono delle divisioni. Una buona parte del “Feral” era d’accordo con i bombardamenti, ma lo stesso Viktor Ivančić scrisse alcuni pezzi in cui era profondamente contrario all’intervento della NATO; al punto che scrisse” Se siete così in gamba, perché non scendete a terra, ma bombardate dall’aria?”. Lo stesso Feral dunque aveva dubbi su quale posizione prendere. Il fatto stesso che ognuno di loro scrivesse cosa pensava personalmente ne è la prova.

V: Il libro torna sempre alla Dalmazia, che è il tuo paese. In Serbia oggi vivono la Dalmazia come un posto sciovinistico, e Split come il simbolo del buio e della chiusura mentale.. Si sa poco del fatto che la storia di questa regione è del tutto al contrario, e che lo jugoslavismo è stato laggiù costitutivo ed “organico”, e per lungo tempo.

L’opinione pubblica attuale sa poco di tutto ormai, “eutanasizzata” dai media - e penso che il potere dei tabloids sia più forte in Serbia che altrove-in modo incredibile. Una conoscenza così superficiale compromette il dibattito su qualsiasi tema. Certo, al livello delle istituzioni accademiche e culturali è vero, a Split le posizioni le tiene la destra clericale e la città emana questa immagine, e tutto ciò si trasmette nell’opinione pubblica. Ma esiste un’altra Split che è fortemente divisa, e coì va avanti da tanto.  Il paradosso legato a Split e alla  Dalmazia è che proprio qui l’idea jugoslava – sia di destra sia di sinistra- è stata d’avanguardia e una  delle più forti. Quando pensi a chi è di Split, non sai perché la destra qui ha vinto.

V: Il primo jugoslavismo in Dalmazia, quello prima della prima Jugoslavia, era radicale e estremo. Vladimir Čerina  in un impeto di passione scrive “degli ottantamila abitanti di Zagabria, cinquantamila dovrebbero essere mandati al macello” per mancanza di coscienza unitaria.

D.M. Ci sono alcune ragioni. In generale la Dalmazia è radicale nelle sue espressioni, in qualsiasi direzione si vada, e questo per il codice culturale diverso rispetto alle regioni settentrionali. Ma se parliamo di idea jugoslava, era presente perché tra la Croazia continentale e la Dalmazia, non c’erano contatti importanti come esistevano tra Serbia e Montenegro.  Una regione separata dal monte Velebit, con una diversa eredità legislativa, una altra mentalità e regole differenti, commercialmente e culturalmente legata all’Italia e alla Bosnia. Così l’idea dell’unione jugoslava era naturalmente rivolta a Sarajevo e poi a Belgrado, e non verso Zagabria, che era un corpo estraneo. E inoltre, naturalmente date le pretese territoriali italiane, era logico sentirsi sicuri legandosi alla Serbia che perlomeno aveva un regno e uno stato piuttosto che alla Croazia, che stava sotto l’Austria.

V: In questo pezzo che citi, Čerina alla fine dice che occorre dare a Zagabria l’anima e il cervello della città eroica, Belgrado.

D.M. Il fatto che nel corso della storia ci fossero stati parecchi intellettuali di quel tipo, ha provocato proprio una politica della HDZ negli anni ‘9’ piuttosto rude nei confronti della Dalmazia, e soprattutto nei confronti di Split. Nel fondo della coscienza nazionalistica di Tuđman e di quelli a lui simili, c’era la consapevolezza che lo jugoslavismo è connaturato al territorio della Dalmazia. E’ per questo che oggi si lavora tanto allo scopo di distruggere la coscienza e il ricordo e l’idea attiva. Secondo me, Split ha  rappresentati nella prima e nella  seconda Jugoslavia un legame tra Croati e Serbi più forte che Zagabria. Del resto, le statue davanti al Parlamento federale, le ha fatte uno spalatino. Non è un caso.

V: Anche se si tratta della stessa idea, c’è voluto tempo perché si concludesse (e analizzasse) chepresso i Serbi e i Croati e gli altri c’è una differente concezione dello jugoslavismo, come afferma Predrag Matvejević che tu citi nel tuo libro.

D.M: Potremmo parlare a lungo di questo, tuttavia vi indirizzo a Latinka Petrović, che ha fissato molto bene tale differenza nel suo ultimo libro, ricollegandosi alla discussione e polemica tra Dobrica Cosić e Jože Pirjevac.  Tuttavia, in un nuovo contesto, l’idea di uno spazio culturale unitario sarà qualcosa di diverso, si formerà dal patrimonio culturale di uomini cresciuti e formati a partire dalla fine della Jugoslavia socialista. Le esperienze del mondo accademico, dell’élite e degli intellettuali diventeranno inessenziali, perché non ci sarà una tradizione a cui questi nuovi si potrebbero appoggiare.  Il sentimento jugoslavo che avevano per esempio, i “Šarlo akrobat” e gli “Haustor” (gruppi rock uno serbo l’altro croato della scena jugoslava) era il medesimo. I sentimenti delle élites nel 1918 e nel 1945 erano totalmente differenti, e adesso sono del tutto irrilevanti.

V: “Dove andiamo adesso, fratello?” ti chiedi nell’ultimo capitolo, secondo i versi di Džoni, e quindi ti faccio la stessa domanda.

D.M. Dobbiamo capire alcune cose: viviamo qui dove viviamo, e il nostro ambiente sociale è quello che è. Il compito di ogni essere umano che riflette su questi argomenti è di dare il meglio di sé per cambiare le cose. E dunque, qualcuno lo farà dal punto di vista scientifico, qualcuno politico, o giornalistico, o in qualsiasi altro ambito. E’ l’unica strada per fare il meglio e non comportarsi in modo conformistico. Queste società debbono capire che sono rivolte l’una all’altra, l’esperienza che abbiamo è al stessa, parliamo la stessa lingua, checché qualcuno ne dica.

Đorđe Matić

(trad. di Tamara B. per Jugocoord ONLUS)



--- ORIGINALNI TEKST ---


Intervju – Dragan Markovina, istoričar:


Jugoslovenstvo danas

"Sva ova postjugoslavenska društva nikad nisu bila u goroj situaciji, naravno sa izuzetkom Drugog svjetskog i ovog poslednjeg rata. Ali to ne znači da se ne događa nešto novo, pogotovo kod mlađih ljudi koji aktivno promišljaju i nasljeđe jugoslavenskog prostora, njegovu sadašnjost, a posebno budućnost. Mislim da je to nezaustavljivo i da će sljedećih desetljeća ta ‘paralelna stvarnost’ naprosto postati mejnstrim. Možda grešim, ali to je moje mišljenje"

Splitski istoričar i publicist, doktor Dragan Markovina (Mostar, 1981), pojavio se gotovo "meteorski" na javnoj i kulturnoj sceni Hrvatske, a onda i Bosne i Hercegovine. Javno i bez tipične isprike, progovorio je na državnoj televiziji o ideji Jugoslavije i jugoslavenstva kao pozitivnim historijskim činjenicama, što u Hrvatskoj predstavlja tabu iznad svih drugih. Budući se radi o mladom znanstveniku, tim su veće bile konsternacija i zbunjenost javnosti što Markovina s pozicija radikalnog antinacionalizma zastupa stavove koje su nacionalisti devedesetih označili kao rezervirane za "djecu vojnih lica i miješanih brakova" koji "pate za privilegijama" onoga doba.

Markovina je predavao povijest na splitskom Sveučilištu, ali je prošle godine otpušten, navodno zbog istjecanja ugovora, u što je malo tko povjerovao. Danas se bavi publicističkim radom, autor je nekoliko zapaženih knjiga a za studiju Između crvenog i crnogSplit i Mostar u kulturi sjećanja dobio je Nagradu Mirko Kovač. Kod beogradske izdavačke kuće "Mostart" izašla mu je nedavno knjiga Jugoslavenstvo poslije svega, u kojoj kroz seriju eseja i portreta ličnosti koje su, kako kaže, "plivale protiv struje" govori jasno i pristupačno o prokazanoj ideji jedinstva Južnih Slavena – ali i o njenoj budućnosti. 

"VREME": Pitaš se u uvodu nešto što su se ranije usuđivali rijetki – pitanje koje je u Hrvatskoj dugo bilo tabuoma takvo ostaje i u današnjem kontekstu: "da li je jugoslavenstvo toliko jako ili su novonastale države i njihove potporne ideologije toliko slabe da se boje svakoga tko im javno ne pjeva laude i doživljava jugoslavenski prostor kulturno jedinstvenim"?

DRAGAN MARKOVINA: Mislim da su te države i njihovi nacionalistički narativi na toliko krhkim i jadnim temeljima da je to jasno i onima koji ih propagiraju, i jedina dva neprijatelja kojih se taj nacionalistički diskurs treba realno pribojavati je istinska ljevica a posebno ideja jugoslavenstva. Naravno da ta ideja nije ni blizu toliko jaka da bi se netko trebao stvarno bojati da će se zbog nje odmah nešto promijeniti, ali stoji da ideju, otvoreno ili ne, afirmiraju najtalentiraniji ljudi ovih prostora. I to je negdje u dubini svijesti jasno nacionalistima: da su kulturno-intelektualno inferiorni i da na duge staze taj diskurs ne može pobijediti. 

Fascinantno je kako se vrijeme mijenja i s time i percepcija stavovaBoris Buden pisao je i iznosio iste stavove o Jugoslaviji još devedesetihno oni su bili tako radikalni da ih je Hrvatska tada odbacila kao sulude ili im se smijala kao marginiDanas ih iznosiš tia o njima se bar razgovarai to u mejnstrimu

Istina je da se vrijeme promijenilo. Rat je bio toliko brutalan da o tome što je Buden iznosio u ono doba nitko nije ni razmišljao. Nakon dvadeset i pet godina došlo je vrijeme svođenja računa i pitanja "kamo dalje". Kontekst je drukčiji. Druga stvar: sebe doživljavam isto tako dijelom margine, ali razlika s Budenom je što je on pisao rječnikom koji "široke narodne mase" nisu mogle razumjeti. Osim toga, nastupao je, za to doba, s unaprijed otpisanih pozicija radikalne ljevice. Danas je drugačije vrijeme i u medijskom smislu: da se ne lažemo – da nisam gostovao kod Aleksandra Stankovića u emisiji "Nedjeljom u 2", to ne bi odjeknulo nigdje. Ono što sam tamo rekao vidjela je tada hrvatska i regionalna, jugoslavenska javnost i čula nešto što dobar dio ljudi misli, a nije imao gdje prilike čuti. 

Kad uspoređuješ devedesete i sadakažeš da je situacija "definitivno obećavajuća". Nije li zapravo situacijanaprotivmnogo ciničnija – da se "sve može reći", ali se ništa time ne mijenja?

Apsolutno da. Međutim, mislim da bi čitav pristup cijele postjugoslavenske, lijeve, građanske scene trebao biti drugačiji: morao bi ignorirati institucionaliziranu stvarnost – ne tako kao što čine male radikalne lijeve partije koje bi dizale revoluciju, to je besmisleno – nego ignorirati u smislu da kažemo da to naprosto nije naša priča. I da stvaramo paralelnu stvarnost koja se već spontano događa. 

Uopće u tvojoj knjizi vidi se jedan optimizam spram stvari.

Ova društva, s izuzetkom Drugog svjetskog i ovog poslednjeg rata, nikad nisu bila u goroj situaciji, naravno. Ali to ne znači da se ne događa nešto novo, pogotovo kod mlađih ljudi koji aktivno promišljaju i nasljeđe jugoslavenskog prostora, njegovu sadašnjost, a posebno budućnost. Mislim da je to nezaustavljivo i da će sljedećih desetljeća ta "paralelna stvarnost" postojati pored ove institucionalne i da će ona naprosto postati mejnstrim. Možda griješim, ali to je moje mišljenje.

Predavao si na Sveučilištu u Splitu dok te nisu otpustiliJesi li razgovarao sa studentima na ove temei što ti mladi ljudi misle o onome periodu i samom konceptu?

HDZ-ova kontrarevolucija devedesetih u idejnom smislu destruirala je Split, pri čemu joj je pomogla i socijaldemokratska partija. Na takav atak na socijalnu i svaku drugu baštinu socijalizma, osim par ljudi i "Feral tribunea", nije nitko odgovorio, i danas u Splitu imaš situaciju da na intelektualnom planu, od izdavanja knjiga do tribina, sve vodi klerikalna desnica. S druge strane nema nikoga više. Studenti na povijesti i humanistici razmišljaju, nažalost, u tom smjeru također. To su generacije rođene početkom rata i kasnije. Netolerantniji će odbaciti cjelokupno nasljeđe Jugoslavije, a tolerantniji će prihvatiti nešto, ali će ipak upotrebiti "krunski argument": "nas su Srbi napali i sve je bilo neodrživo". Mitološki narativi, dakle, koji i nisu posve netočni, no koji ne dopuštaju drugo mišljenje. Možda najveća tragedija s kojom sam se sreo bila je kad mi je jedna studentica rekla vrlo ozbiljno da od njih dvadesetak s odsjeka za povijest dvanaestero slavi Deseti travanj (dan osnivanja NDH, op.a.), a pritom četvero su djeca iz miješanih brakova. 

Crkva, koju držim najodgovornijom, mediji i škole iskrivljavaju dakako čitavu povijest i mnogi mladi ne znaju ništa. Jedan od najbizarnijih dokaza toga je što u Splitu, kod dijelova Torcide i krugova desnice osamdesetih, postoji još uvijek narativ koji tvrdi da je Džoni Štulić bio hrvatski nacionalist koji je pjesmu Pavel spjevao – Paveliću, i zato morao otići. 

Kažeš da su posvađane novonastale države danas povezane preko kulturepreko pisaca najvećmai to karakteriziraš kao pozitivnoNe čini li ti se da mnogi na toj "povezanostiuspješno parazitiraju već preko desetljeća i da im je modus operandi "mi se srećemo i rušimo granice samo tako da bi one ostale". 

Ima tu nešto. Jedini čovjek kojeg znam da je to isto ovako formulirao jest Viktor Ivančić. On, recimo, ima izdavača u Beogradu i naprosto ne želi imati druge. Zato je do njegovih knjiga teže doći u Hrvatskoj, Bosni i Hercegovini ili Sloveniji jer su tržišta fragmentirana, iako u svemu osim u kulturi postoji razmjena. Njegova teza je da ako je izdao knjigu na jednom jeziku, na prostoru koji smatra svojom zemljom, nema potrebe imati posebnog izdavača u Hrvatskoj i ne želi zbog hiljadu knjiga više legitimirati ovaj poredak. Svi drugi imaju više izdavača. Tu imaš paralelne svjetove takozvanih integrativnih procesa: jedna je ova partizansko-antifašistička priča, klasično nostalgična, koja biološki izumire i odlazi sa scene; druga je endžioovska koja je iznijela antiratne kampanje a onda počela živjeti od toga, i kao treća, s njom vezana intelektualna scena, pisci, filmovi i tako dalje. Tek kad svi oni odu sa scene – potpuno nova generacija, koja neće imati nikakvo pamćenje na Jugoslaviju, provest će sve, povezati se po prirodi stvari i ostvariti jedinstven kulturni prostor. To je neminovno. 

Danas i prošlih godina izdvojilo se nekoliko intelektualaca iz Hrvatske na tojako se može reći tako, "liniji". Osim tebetu su spomenuti Boris BudenVjekoslav Pericalingvist i radikalni vukovac Orsat Ligorio i par drugihRadi se o redom "usamljenim jahačima", individualistima koji se čak ni među onima sličnih mišljenja ne osjećaju sasvim kao kod kućeTo je paradoks jedne vrsteautentičnost razmišljanja o jugoslavenstvu podrazumijeva dakle osamljenost i izdvojenost neke vrste.

Ja mislim da je jugoslavenstvu kao ideji, također paradoksalno, najviše štetila upravo državotvornost – da se poslužim tim hrvatskim izrazom – jer je od Jugoslavije stvorila "samo" politički projekt. On nije bio promašen, posebno ako govorimo o drugoj Jugoslaviji. Međutim, autentičnost te pozicije je u izdvojenosti i antinacionalizmu kao platformi. Bilo kakvo vezivanje u mase nužno bi dezavuiralo ideju, isto kao sa socijalizmom kad je došao na vlast – vlast vodi kompromisima i korumpiranosti koji ideju razgrađuju. Nju su uvijek zastupali i zastupaju specifični ljudi, koji ne žele biti dio stada ili zajednice. To nikad neće postati mejnstrim, nešto što bi zastupala većina zajednice. Nijednu revoluciju niti društvenu promjenu nije izazvala sama masa nego dugotrajni rad određenih ljudi – individua. Tako na primjer Viktor Ivančić kaže da je "Feral tribune" duž čitavog njegovog postojanja osjećao kao "strano tijelo" u Splitu. 

U tretmanu "Feral tribunea", lista koji je tolikima tako mnogo značiou tvojoj se knjizi osjeća izvjesno odsustvo kritičnostiKažeš i da je "Feralstajao na pozicijama jugoslavenstvaČini mi se da je to bilo više djelovanjem na praktičnom spajanju rastavljenog (što je bila neplativa stvar dakakonego što bi se otvorenodeklarativno spominjao taj koncept.

To je istina promatramo li stvari iz konteksta vremena u kojem su se stvari događale. Ako gledamo iz današnje perspektive pak, mislim da nije presudno značajno za analizu fenomena "Ferala". Iz prostog razloga: i oni su, zaboga, evoluirali u međuvremenu – govorim o jezgri koja ga je osnovala. Bili su antinacionalisti od prvoga dana i to ne ovi fingirani, sami su imali iskustvo da ih je predsjednik Predsjedništva SFRJ tužio, praktično, za "državni udar". Ivančić je na sudu tužen za rušenje ustavnog poretka Jugoslavije još osamdeset devete godine, o čemu nitko nije objavio ni retka. Lucić i Dežulović također. Teško je očekivati da ljudi u roku od tri godine zanemare vlastito iskustvo sistema u kojem su živjeli do prije par godina. Naravno, bilo je i dosta šarenila kod suradnika u tim novinama. Za krajnji cilj pak mislim da je njihova pozicija bila puno produktivnija. "Ferala" se Tuđman bojao. 

Taj sukob se najbolje vidio tokom bombardiranja Srbije 1999Recimojedan vrlo lijevo i jugoslavenski orijentiran hrvatski intelektualacFrano Cetinić Petrisprekinuo je tada suradnju.

Sjetit ćeš se da je i sam "Feral" tada bio podijeljen unutar sebe. Dobar dio "Ferala" bio je na liniji podržavanja toga, ali sam Viktor Ivančić je napisao nekoliko tekstova koji su bili izrazito protiv intervencije NATO-a, čak do te mjere da je napisao: "Ako ste takvi frajeri, što se ne spustite na zemlju, nego bombardirate iz zraka?" Tako da je sam "Feral" imao dilema kako se postaviti. Pri čemu sama činjenica da je svatko od njih napisao samo ono što misli, govori za sebe. 

Knjiga ti se najčešće vraća na Dalmacijukoja je tvoj krajU Srbiji je danas doživljavaju kao izrazito šovinističkua Split kao simbol mraka i zatucanostiMalo je znano da je povijest toga kraja upravo obrnuta i da je jugoslavenstvo tamo bilo upravo konstitutivno i "organičko", i to dugo vremena.

Ovdašnje javnosti znaju sve manje o bilo čemu, ovako eutanazirane tabloidnošću – s tim što mislim da je moć tabloida u Srbiji jača nego drugdje – ona je naprosto nevjerojatna. I takvo površno znanje destruira raspravu o svakoj temi. Na razini razumijevanja institucionalno-akademskog i kulturnog, ta je slika točna, u Splitu pozicije

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(srpskohrvatski / english / italiano)

24 MARZO. NOI NON DIMENTICHIAMO

1) LE INIZIATIVE
– Oggi 22/3 in streaming su RCA: VOCE JUGOSLAVA
– У Београду 23–24.3.: ”ДА СЕ НЕ ЗАБОРАВИ”
– Torino 24/3: SERATA DI MEMORIA STORICA
– The Gang: GLI ANGELI DI NOVI SAD
2) MARZO 1999: L'AGGRESSIONE USA-NATO ALLA JUGOSLAVIA (di Mauro Gemma)
3) NATO AGGRESSION ON SERBIA (FRY) 17 YEARS AFTER (Beogradski Forum)


=== 1 ===

Oggi 22/3 in streaming su RCA

VOCE JUGOSLAVA ★ JUGOSLAVENSKI GLAS 
"Od Vardara do Triglava - Dal fiume Vardar al monte Triglav" 

Svakog utorka u 16,30 sati,(petnaest minutna) na sajtu www.radiocittaperta.it   emisija  "Jugoslavenski glas".
Emisija je dvojezična, po potrebi i vremenu na raspolaganju. Podržite taj slobodni i nezavisni glas! Pišite nam na email, jugocoord@... ili Jugocoord ONLUS, C.P. 13114 Uff.Postale 4, 00100 Roma,  potražite na www.cnj.it ... Odazovite se!

Ogni martedì alle ore 16:30, per la durata di 15 min, via internet, sul sito www.radiocittaperta.it potete ascoltare la trasmissione "Voce jugoslava". 
La trasmissione è bilingue, a seconda del tempo disponibile e della necessità. Sostenete questa voce libera ed indipendente! Scriveteci all'email jugocoord@... o Jugocoord ONLUS, C.P. 13114 Uff.postale 4, 00100 Roma. Leggeteci su www.cnj.it ... Sosteneteci con il 5 x mille!

Program  22. III. 2016 Programma
24 III 1999
- 17. godisnjica NATO agresije na Jugoslaviju
- 17-esimo anniversario dell' agressione NATO alla Jugoslavia


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Nel 17.mo anniversario della aggressione NATO contro la RFJ sono in programma a Belgrado:
– 23 marzo Conferenza
– 24 marzo ore 12:00 deposizione corone al monumento dei bambini vittime innocenti - parco Tašmajdan
– 24 marzo ore 13:00 deposizione corone al monumento di tutte le vittime - parco Ušče) 


http://www.subnor.org.rs/da-se-ne-ponovi

Да се не понови – Објављено под Актуелно |  19. марта 2016.

АГРЕСОРИ ИЗ ЗАСЕДЕ

Пре 17 година, у смирај мартовског дана, натовска војна армада је мучки, ракетама углавном са бродова на безбедној удаљености, напала незаштићену нашу отаџбину.
Ту 1999. годину наш народ, верујемо и сав слободарски поштени свет на планети, никад неће заборавити.
Србија обележава оне тешке дане неспокоја да се никад и нигде не би поновили. Тим пре што и сада, по ко зна који пут, влада снага топуза, а колоне бескућника, неки и инструирани, пролазе и пред нашим очима тражећи мир и кров над главом у туђини.
Све организације СУБНОР-а ће се, у својим срединама, присетити и са пијететом, залажући се против рата и агресора из заседе, жртава напада НАТО снага на недужни наш народ и државу.

У Београду ће, удружени Републички одбор СУБНОР-а Србије са колективним члановима Београдским форумом за свет равноправних и Клубом генерала и адмирала Србије, организовати Округли сто под насловом ”Да се не заборави”.
Скуп је предвиђен у среду, 23. марта, од 10 часова, у дворани Општине Нови Београд, Булевар Михаила Пупина 167. Говориће еминентни стручњаци из области спољне политике и безбедности.

У четвртак, 24. марта, представници више организација слободара положиће венце на споменик Буктиња слободе на Ушћу у Новом Београду, у Парку пријатељства. Свечаност ће почети у 13 часова.

У парку на Ташмајдану, у четвртак 24. марта, у 12 часова, пред спомеником страдалој деци у натовском бомбардовању, одаће пошту и стране амбасаде и многе друштвене организације, студенти, средњошколци, сви људи добре воље.


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Torino 24/3: I bombardamenti sulla Jugoslavia. NOI NON DIMENTICHIAMO

Da: "info  @civg.it
Data: 22 marzo 2016 11:43:46 CET
Oggetto: Serata Per non dimenticare. 24 marzo 1999- 24 marzo 2016, i bombardamenti sulla Jugoslavia

24 marzo 1999 – 24 marzo 2016 

I bombardamenti sulla Jugoslavia. NOI NON DIMENTICHIAMO

Serata di memoria storica con 

l’Associazione SOS Yugoslavia – Kosovo Methoija

Al SOVIETNIKO – V. Cibrario 9 – TO – Ore 20.00

A seguire degustazione di grappe slave e dolci

Per Info: info @skaski.it – info @civg.it


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http://www.the-gang.it/wordpress/2014/12/gli-angeli-di-novi-sad-in-free-download/

“GLI ANGELI DI NOVI SAD” in free download! 

In free download il primo brano estratto da Sangue e Cenere!

15DIC2014 – Realizzato insieme all’Orchestra Pergolesi diretta dal Maestro Stefano Campolucci, si intitola “Gli Angeli di Novi Sad” ed è senza dubbio uno dei momenti più struggenti del nuovo album “Sangue e Cenere” in uscita a febbraio 2015, a distanza di 14 anni dal precedente album di inediti in studio.
“E’ una canzone che punta dritto e mira all’ultimo inferno di Novi Sad. Alla guerra contro la Jugoslavia, ai bombardamenti sul Kosovo, al capro espiatorio del popolo serbo, all’abbattimento dei Ponti come strategia militare e soprattutto culturale…” (Marino Severini)
La possibilità di ascoltare e scaricare gratuitamente la traccia su questo sito e tramite il nostro canale SoundCloud vuole essere un primo riconoscimento ai tanti sostenitori che hanno contribuito alla realizzazione definitiva del nuovo album attraverso la piattaforma di auto finanziamento BeCrowdy.
Realizzato tra gli Stati Uniti e le Marche e prodotto da Jono Manson, “Sangue e Cenere” sarà disponibile in formato digitale e in CD a partire dal 18 Febbraio e verrà anticipato da un singolo in uscita a metà Gennaio 2015. Il formato LP sarà invece riservato esclusivamente alle persone che hanno contribuito al finanziamento delle registrazioni.

Buon Ascolto!

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La pagina che abbiamo dedicato al lavoro dei Gang
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/Gang2014.htm

Scheda sull'album “Sangue e cenere” 
http://www.the-gang.it/wordpress/crowdfunding-sangue-e-cenere/

N.B. E’ morto Velimir Teodorović “Il pescatore”, che salvò con la sua barchetta 9 persone rimaste appese sul ponte sventrato dalla NATO
https://www.facebook.com/105426516250913/photos/a.116109995182565.13479.105426516250913/650830898377136/


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http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/26727-marzo-1999-laggressione-usa-nato-alla-jugoslavia

Marzo 1999: l'aggressione USA-NATO alla Jugoslavia

20 Marzo 2016

di Mauro Gemma

Sono passati 17 anni dallo scatenamento della guerra di aggressione alla Jugoslavia, che ha inaugurato la lunga catena di massacri e distruzioni che hanno caratterizzato tutte le innumerevoli campagne belliche della NATO destinate ad annientare interi popoli e Stati.

Il 24 marzo 1999,  l'Alleanza Atlantica, guidata dagli Stati Uniti (sotto la presidenza del più noto esponente del clan Clinton e in presenza di un'amministrazione “democratica” - in cui si distingueva per ferocia e cinismo il segretario di Stato Madeleine Albright - che si è macchiata dei più atroci crimini di guerra), senza alcun mandato delle Nazioni Unite (Russia e Cina minacciarono il veto nel Consiglio di Sicurezza, impedendone il pronunciamento favorevole), avviava la campagna militare, definita “Allied Force”, che, terminata due mesi dopo con la capitolazione delle autorità di Belgrado, avrebbe determinato in breve tempo il completo collasso della Repubblica Federale della Jugoslavia.

L'anno seguente, attraverso una “rivoluzione colorata”, finanziata in particolare dal faccendiere George Soros (e sostenuta anche, incredibilmente, da settori della “sinistra radicale” dell'Europa occidentale), il legittimo governo jugoslavo veniva rovesciato da un moto di piazza e il presidente Slobodan Milosevic arrestato (nel 2001) e deferito al Tribunale dell'Aia per un processo farsa, conclusosi con la sua morte in carcere; il Kosovo sarebbe stato trasformato in uno stato fantoccio, guidato dai capi delle bande di trafficanti di organi umani dell'UCK, che, in un clima intimidatorio di discriminazione nei confronti delle minoranze nazionali (a cominciare da quella serba), ha consentito la costruzione della più grande base militare USA del nostro continente, utilizzata anche come campo di prigionia, una sorta di Guantanamo europea.
Mentre la NATO avrebbe accelerato la sua “marcia trionfale” verso est, con l'incorporazione di quasi tutti gli ex stati socialisti dell'Europa centro-orientale, fino a incombere minacciosamente alle frontiere stesse della Federazione Russa, non esitando a tale scopo a sostenere un colpo di Stato in Ucraina che ha fatto calare nuovamente le ombre del nazifascismo in Europa, e ad appoggiare una guerra di sterminio contro le popolazioni russe e russofone del Donbass.

Fu una campagna condotta unicamente dal cielo, costellata di atrocità inaudite, di massacri della popolazione inerme attraverso vigliacchi bombardamenti che non hanno risparmiato le strutture civili, come case, ospedali, scuole, fabbriche,  centrali e la stessa sede della Televisione jugoslava, ridotta in macerie, il 23 aprile 1999, da un'incursione che provocò 16 morti. A Belgrado furono allora colpite persino le ambasciate di paesi contrari all'avventura militare, come quella della Repubblica Popolare Cinese, con alcuni morti sotto le bombe: certo non un “errore” come ci si affrettò a comunicare, ma piuttosto un primo deliberato e minaccioso avvertimento, da parte dei fautori di un mondo “unipolare”, al grande paese socialista che stava emergendo come protagonista di primo piano della scena mondiale.

Si trattò di una campagna, iniziata molto tempo prima con l'avvio del processo di disgregazione della Jugoslavia socialista, e caratterizzata dalla massiccia intossicazione mediatica dell'opinione pubblica occidentale. Si era avviata così la stagione di quella “guerra di propaganda” che, in seguito, avrebbe distinto la preparazione di tutte le aggressioni imperialiste - da allora succedutesi nelle più diverse regioni del mondo e tragicamente in corso anche in questo momento - contro paesi e popoli che, come quello della Repubblica Federale della Jugoslavia, non intendono piegare la testa di fronte al “nuovo ordine mondiale” - con i massacri USA-NATO della popolazione civile sistematicamente presentati come “effetti collaterali”, mai come delitti deliberatamente portati a compimento.

A questa criminale impresa diede un apporto decisivo anche l'Italia - guidata allora da un governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D'Alema - non solo con il supporto logistico ai 600 micidiali raid giornalieri contro le città e i villaggi jugoslavi, ma anche con la partecipazione diretta di piloti e aerei del nostro paese ai bombardamenti, smentita in un primo tempo dalle fonti ufficiali ma confermata da numerose testimonianze, a cui da parte governativa non si esitò a rispondere con arroganza.

Mai in seguito, dall'allora presidente del Consiglio (e da coloro che ne avallarono le scelte nel suo partito) sono venuti segnali di ripensamento autocritico rispetto a decisioni che hanno coinvolto il nostro paese in una vicenda bellica dalle così tragiche conseguenze, sul piano delle vittime civili (oltre 2.000 secondo alcune fonti), delle micidiali distruzioni che si proponevano di annientare ciò che rimaneva della Jugoslavia, ed anche dei devastanti effetti sull'ambiente, che non hanno risparmiato neppure le acque del Mare Adriatico che bagnano le nostre coste, inquinate da quell'uranio impoverito che, in quantità massicce, fu sganciato nel corso dell'aggressione.

Occorre opportunamente rammentare che fu proprio dalle basi USA-NATO collocate sul territorio italiano che partirono le operazioni di una impresa militare che violava tutte le più elementari norme del diritto internazionale, nel disprezzo assoluto del ruolo delle Nazioni Unite, della sua Carta costitutiva e dello stesso articolo 11 della nostra Costituzione repubblicana. Come pure non va assolutamente dimenticato che l'aggressione imperialista ebbe l'avallo sostanziale ((oltre che della gran parte dell'opposizione di centro-destra) di tutta la coalizione parlamentare che sosteneva il governo italiano e che allora non ne mise in discussione la tenuta, in un contesto vergognoso di ipocriti distinguo, patetiche giustificazioni e spudorate menzogne - smentite in seguito dalle più autorevoli testimonianze -, utili a criminalizzare la Jugoslavia aggredita, allo scopo, da un lato, di carpire l'appoggio dell'opinione pubblica e, dall'altro, di ridimensionare la portata dell'intervento italiano nella guerra.

Oggi, mentre il nostro paese è sul punto di partecipare all'ennesima operazione militare a guida USA/NATO, riteniamo doveroso rinfrescare la memoria su quella pagina oscura della storia patria, perché sono ancora troppi quelli che ne rivendicano la legittimità, come pure quelli che fingono di essersene dimenticati.


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http://www.beoforum.rs/en/nato-agression-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/463-nato-aggression-on-serbia-fry-17-years-after.html

March 2016.     

NATO AGGRESSION ON SERBIA (FRY) 17 YEARS AFTER

This March 24rth Serbia marks the 17th anniversary since the start of the NATO military aggression on its (FRY) territory. The Belgrade Forum for a World of Equals and some other independent civic organizations will host Conference titled “NATO aggression in 1999 and globalization of interventionism”, coming Wednesday, March 23. Following, Thursday, March 24th, wraths and flowers will be laid to the monuments of children-victims of the aggression and “Eternal Fire” monument. An Exhibition of photographs featuring the scenes from the aggression will be opened the same day in Belgrade.  Guests from Bulgaria and Belorussia, as well as diplomats from a number of friendly countries announced their attendance.

NATO 1999 aggression against Serbia (FRY) was a turning point in world relations towards negating of the World order established after Second World War, weakening of United Nations and International Law, globalization of the interventionism, new arms race and West-East confrontation.  Nevertheless, multi-polarization of global world relations is inevitable process based on the rising potentials and roles of Russia, China, the BRICS and other independent countries. In this  period of profound global changes the danger and risks for peace and stability come from those forces which have long enjoyed privileges in world relations and which believe that it is possible to protect the privileges using their military power. This kind of reasoning is misleading. The only way to safeguard peace and stability today is in shared responsibility in solving all major international problems, return to respect of the basic principles of International law, primarily, principle of sovereign equality of nations, democratization instead of militarization of international relations, respect of the role of United Nations. 
NATO aggression on Serbia (FRY) lasted 79 days and resulted in at least 2,500 dead civilians, plus 1.008 dead soldiers and policemen and more than 12,500 wounded. The aggression was conducted in alliance with the terrorist KLA.
The attacks on Serbia started on March 24, 1999, and the last one took place near Kosovska Kamenica on June 10 at 13:15 CET. 
NATO has never disclosed its losses.
The list of civilians killed by NATO has not as yet been completed. Civic Associations like Belgrade Forum for a World of Equals, Generals and Admirals Club of Serbia, Veteran Association of Serbia, Serbian Host Society, Association of Families of Missing and Abducted Persons and others, have been repeatedly demanding competent authorities to complete the list of civilian victims, but so far without results.

There is no record as to how many of wounded people died as a consequence of injuries during aggression or unexploded cluster bombes in the period after the end of bombing. It remains unknown also how many persons have died in the past years as a consequence of depleted uranium missiles used by NATO. On February 2nd, 2001, the Federal Government established special Committee, headed by the Federal Minister Miodrag Kovac, mandated to “investigate long term consequences of depleted uranium missiles on the health of people and on natural environment. It never came to the public with its findings. Later the Federation of Yugoslavia (Serbia and Montenegro) was dissolved. It is noteworthy to remind that former NATO Secretary General Xavier Solana played key role in the process of separation of Montenegro from Serbia.
The total economic damage was estimated in 1999 at 100 billions of US dollars. Many civic associations have addressed initiative to the competent Serbian authorities to demand war damage compensation from NATO and governments of NATO member countries. The more so that NATO leaders have publically recognized that NATO has violated international Law instigating aggression against Serbia (FRY). Serbian President Tomislav Nikolic in his public address last year declared that NATO is obliged to pay war compensation to Serbia. Many scholars, International law specialists, public figures and politicians from around the world, consider also that Serbia is entitled and should demand war compensation. So far, the public received no information about concrete steps undertaken by the Government.

The decision to attack Yugoslavia was the first in history to be made without the approval of the UN Security Council, and the order was given to U.S. General Wesley Clark, the allied commander at the time, by NATO Secretary General Javier Solana. 

Later on, in his book “Waging Modern War”, Clark revealed that the plans for the air strikes against Yugoslavia were well under way in mid-June 1998 and completed in late August of that year. 

Yugoslavia was attacked under the pretext of failure of the talks on the future status of the southern Serbian province of Kosovo and Metohija, held in Rambouillet and Paris in January and March 1999. In fact, plans to launch military attacks on Serbia (FRY) were finalized already in August 1999, while so called Rambouillet and Paris negotiation served as mere alibi to make the chosen victim responsible.

The 19-member Alliance launched projectiles from ships in the Adriatic Sea and four military bases in Italy, all with the support of strategic air bombers which took off from bases in Western Europe and latter in the U.S. The first targets were barracks and air defense forces in Batajnica, Mladenovac, Priština and other locations. NATO planners predictions were that they would finish with President Slobodan Milosevic`s defense forces within a couple of days but those estimates proved to be inaccurate. This was prompted NATO to changed the tactics. Its politicians and generals concluded that “in order to protect Alliance’s credibility”, it was necessary to launch massive attacks on civilian targets, including cities, towns hospitals, schools, electricity transformers, passenger trains… 

There is practically no city in Yugoslavia which was not targeted on a number of occasions during the 11-week aggression.
Thus, 50th anniversary of NATO`s foundation, celebrated at the Washington Summit, was marked by a total war against small independent European country, in contravention of the basic principles of international law. At the same time, it was the war against UN, OSCE and Europe itself. It was precedent for ensuing wars in Afghanistan, Iraq, Libya, Mali, Yemen, and Syria. Military interventionism has become globalized and the world less secure. It was the start of militarization of Europe and world relations in general. From 19 members at the time of aggression on Serbia (FRY), NATO has become military monster of 29 members and several dozen associated members through so called Partnership for Peace and other forms of associations. USA military bases have been mushrooming form South East and Central Europe toward Russian borders. It is NATO strategy of expansion towards East that led to Maiden tragic events and coup in Ukraine.
It was the tactics of financing, arming and training of extremists and terrorists forces first applied in Kosovo and Metohija to destroy territorial integrity and over through legitimate government in Serbia (FRY) that later were used as a blueprint in Syria and elsewhere.
The bombing caused damage to 25,000 houses and apartment buildings and destroyed 470 kilometers of roads and 595 kilometers of railway tracks. A total of 14 airports were damaged, as well as 19 hospitals, 20 healthcare centers, 18 kindergartens, 69 schools, 176 cultural monuments and 44 bridges, while 38 more were completely destroyed.

During the campaign, 2,300 air attacks were carried out on 995 facilities around Serbia and 1,150 fighter jets fired nearly 420,000 missiles to the total weight of 22,000 tons. 

NATO fired 1,300 cruise missiles, dropped 37,000 cluster bombs. Alliance’s forces also used banned depleted uranium missiles. 

A third of the electric energy capacity of the country was destroyed, two oil refineries, in Pančevo and Novi Sad, were bombed, and NATO forces used for the first time so-called graphite bombs to disable electrical power systems. 

Facing mounting diplomatic pressure, NATO ended the bombing with the signing of the Military Technical Agreement in Kumanovo on June 9, 1999, and the latest missiles fell near Kosovska Kamenica on June 10 at 13:30 CET. 

The NATO secretary general issued an order to stop the bombing on June 10, after which Yugoslav forces began to withdraw from Kosovo. 

On that day, the UN Security Council adopted Resolution 1244, and a total of 37,200 KFOR soldiers from 36 countries were sent to the province, with a mission to preserve peace and security.

About 250.000 of Serbs and other non-Albanians have been forced out of Kosovo and Metohija since KFOR and UNMIK took over control of this Serbian Province. Even 17 years after they have not been allowed to safely return to their homes and estates. Great many of them still live in so called Centers for collective shelter in suburbs of Belgrade, Nis, Kraljevo, Kragujevac and other Serbian cities. Those who stayed in the Province continue to be threatened, attacked, and even killed on a daily basis by  extremists.

The Belgrade Forum for a World of Equals