Jugoinfo
Il Tribunale circondariale di Kranj ha respinto l’istanza del governo sloveno per riottenere la proprietà del isolotto sul lago di Bled assieme ad alcuni immobili ivi situati. «È una questione oramai risolta», ha spiegato la portavoce del tribunale Anita Drev. Ora lo Stato sloveno ha 15 giorni di tempo per depositare le proprie osservazioni.
Ricordiamo che l’ex ministro della Cultura, Vasko Simoniti quattro anni fa ha donato, a nome dello Stato, alla parrocchia di Bled tre immobili situati sull’isolotto e contemporaneamente ha anche dato alla parrocchia in uso gratuito per 45 anni lo stesso isolotto. Lo Stato ora però ha chiesto l’annullamento di simili atti. E, almeno per ora, il tribunale dà ragione alla Chiesa. Nelle more però il vulcanico parroco di Bled, Janez Ferkolj ha dato il via alla ristrutturazione del negozio di souvenir e della trattoria presenti sull'isolotto. I lavori sono iniziati a fine gennaio e i nuovi locali sono stati inaugurati all'inizio di aprile. Un investimento da 300mila euro, in parte ricavati dal biglietto di "ingresso" di 3 euro che ciascun turista deve acquistare per accedere all'isolotto, in parte frutto di un mutuo bancario.
E così la vecchia e oramai fatiscente trattoria è diventata una "Poticnica" ossia una pasticceria in cui si produce solo la putizza, dolce tipico della Slovenia di origini mitteleuropee (lo sanno bene i triestini). L'idea la spiega lo stesso don Ferkolj: «Possiamo andare a mangiarci una pizza, un kebab, una bistecca alla viennese o una pasta crema (rinomate peraltro proprio quelle di Bled nd.), ma lo sloveno non poteva concretamente invitare un amico a mangiare la putizza». Da qui la pasticceria a specialità unica o "monomarca". La puttizza, è ovvio. Per ora servita solo fatta con le noci o con i ciccioli, ma per il futuro saranno sfornate putizze in 30 gusti diversi. Sull'isola tutte le bevande sono rigorosamente "made in Slovenia" così come la musica, rigorosamente tradizionale, che si può ascoltare.
Mauro Manzin
27 GIUGNO, 19:29
di Roberto Pignoni
Martedì scorso la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso una sentenza davvero storica. Dopo il ricorso presentato esattamente sei anni prima, il 26 giugno 2006, da un gruppo di «cancellati», la Corte ha ritenuto lo stato sloveno colpevole di alcune gravissime violazioni dei diritti umani, riferite all'art.8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), all'art.13 (diritto a un rimedio legale effettivo) e all'art.14 (divieto di discriminazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Pur rigettando, inspiegabilmente, alcune posizioni particolari, la Corte ha accolto in pieno le argomentazioni dei ricorrenti, un campione assai ridotto, ma significativo, delle decine di migliaia di cittadini che furono illegalmente privati della «residenza permanente» il 26 febbraio '92, così perdendo ogni diritto civile, politico, economico e sociale. Un'operazione di pulizia etnica in guanti bianchi, portata a termine con un colpo di mouse davanti ai terminali dei computer del Ministero degli Interni sloveno, e passata per anni inosservata nonostante gli effetti devastanti su migliaia di famiglie (l'ultima stima governativa ammette la «cancellazione» di 25.671 persone).
La decisione della Corte, assunta dalla Grande Camera e perciò irrevocabile, è notevole anche perché applica la cosiddetta «procedura pilota», imponendo al governo sloveno di predisporre, entro un anno, uno schema di risarcimento per tutti i «cancellati». Al di là delle implicazioni economiche «da panico» per i media di Ljubljana, il dato politico è di enorme rilevanza: da martedì scorso la «cancellazione» è ufficialmente riconosciuta come un crimine contro i diritti umani. La sentenza seppellisce una volta per tutte il mito della success story slovena, di una secessione incruenta, condotta nel pieno rispetto dei principi democratici. Vent'anni fa, a Ljubljana, fu fissato un paradigma che prefigura nella forma più estrema e crudele il processo di spoliazione progressiva dei diritti che minaccia la società europea. Perché dai «cancellati» abbiamo imparato che Kafka è un autore neorealista: si limita a fotografare la realtà - con 80 anni d'anticipo.
Pirano, Slovenia, 1992. Un uomo svolta l'angolo sulla via di casa e intravvede dei poliziotti che gettano in strada le sue cose. Nato da genitori sloveni e cresciuto a Pirano, Milan Makuc si sente sloveno, ma per il nuovo stato indipendente è «solo jugoslavo». A sua insaputa, è stato cancellato dai registri di residenza permanente della Repubblica, perdendo tutto: casa, lavoro, assistenza sanitaria... Dall'appartamento, passa a una panchina del cortile. Sopravviverà grazie al buon cuore di qualche ex-concittadino. Quando l'abbiamo rintracciato, portava i segni di quattordici anni di «cancellazione»: un tumore gli mangiava il volto, nessun ospedale disponibile a curarlo. Dovettero farlo, quando sul tavolo della Corte di Strasburgo arrivò un fascicolo intitolato: «Milan Makuc e 10 altri c. Slovenia». Non era stato facile convincere Milan, temeva per la propria vita. «Sai, attraverso la strada, arriva una macchina, nessuno si accorgerà di niente...». Infine si decise, affidandosi all'ombrello della giustizia europea.
Il nostro gruppo si chiamava Karaula, come le caraule partigiane: piccole unità clandestine, ancorate ai colli fra Friuli e Slovenia. Avevano il compito di garantire i rifornimenti, assicurare i contatti fra le formazioni, raccogliere gli sbandati... La nostra si occupava di difendere i migranti. L'intervento spaziava dai campi rom della capitale agli scenari della memoria storica: con alcuni giovani di Ljubljana, girammo un documentario sui campi di concentramento fascisti in Friuli - compresi quelli di ultima generazione. Intervistavamo la gente all'uscita dalla messa di Pasqua, a Gradisca d'Isonzo, mentre il Cpt (oggi Cie) era in costruzione: «Scusi, ci sono dei campi di concentramento nei paraggi?» «Per adesso no...». Analizzando le tipologie di persone che finiscono nei lager attuali, che a volte (è il caso di Gradisca) vengono realizzati in perfetta continuità con quelli di ieri, c'imbattemmo nei «cancellati».
In Slovenia, con un'operazione segreta, decine di migliaia di cittadini erano stati trasformati in morti viventi, uomini senza diritti. Per mesi, a volte anni, molti di loro hanno continuato a esercitare, come per inerzia, le attività abituali. Un bel giorno venivano fermati dalla polizia, o entravano in un ufficio per rinnovare un documento. «Ci porti anche il passaporto...». Lo bucavano sotto i loro occhi, con un'apposita foratrice di metallo.
Le istituzioni europee fingevano di non vedere, compresi i nostri campioni, Romano Prodi e Riccardo Illy. Non c'era avvocato, in Slovenia, disposto a difendere i «cancellati». Così, anche dopo il primo articolo di denuncia di Tommaso Di Francesco sul manifesto del maggio 2004 che di fatto aprì la campagna, decidemmo di cercarlo in Italia. La caraula tenne fede al suo nome, assicurando un'efficace connessione fra movimento sloveno e italiano. I «cancellati» manifestavano a Gradisca, i compagni di Monfalcone in Slovenia. Ognuno fece la sua parte, dai centri sociali del Nord-Est alla Fiom, fino alla pattuglia di parlamentari del Prc a Bruxelles. L'idea del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani la dobbiamo ai rom del Casilino: aveva funzionato cinque anni prima, quando l'avvocato Luigi Lusi s'era fatto carico, su mandato di Rutelli, di ripulire la capitale dagli zingari nell'anno del Grande Giubileo.
Per mesi, a Ljubljana, un gruppo di giovani ha intervistato persone, raccolto dati, interpretato e tradotto leggi, certificati, circolari. Lavoro militante, senza un centesimo in cambio. Al più una birra e un piatto di cevapcici offerti dai «cancellati». Periodicamente ci fiondavamo a Roma a concordare con gli avvocati, Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, la strategia da seguire. Carla Casalini ci ospitava la domenica, nella pagina europea del manifesto, dandoci modo di perfezionare lo stile e affilare le armi. Ne uscì un'iniziativa robusta, per la qualità della documentazione e l'eccellente contributo tecnico dei legali dello studio Lana.
Non era un compito facile: le regole della Corte paiono fatte apposta per tenere alla larga chi ne ha veramente bisogno. Al fine di garantire l'ammissibilità del ricorso, selezionammo undici casi fra centinaia di «candidati». Il 26 giugno, a Strasburgo, degli undici siluri lanciati nel 2006, sei hanno centrato il bersaglio.
Fra quelli che non ce l'hanno fatta, Velimir Dabetic. Nato a Capodistria (Slovenia) nel '69, era in Italia per lavoro e dopo la «cancellazione» non è potuto rientrare nel suo paese. Da dieci anni s'aggira per la riviera romagnola facendo il saltimbanco: i suoi due collaboratori sono in regola, iscritti all'anagrafe canina, ma Velimir non ha uno straccio di documento. Ogni tanto i poliziotti lo fermano, lo tengono dentro per un po', poi lo mollano. Un paio d'anni fa gli hanno notificato un decreto di espulsione verso... la Romania.
La Corte di Strasburgo aveva atteso quattro anni, prima di dar ragione a Velimir, nel 2010. L'altro giorno ci ha ripensato: a vent'anni e quattro mesi esatti dal 26 febbraio '92, ha deciso che Velimir Dabetic, apolide e senza mezzi di sussistenza, deve restare «cancellato» a vita.
Nemmeno Milan Makuc godrà i benefici della sentenza. Fu trovato morto qualche anno fa, nella misera stanza che gli aveva concesso la municipalità di Pirano. Il suo corpo venne cremato a tempo di record, senza informare i familiari. Accade anche in Italia, fra rom e «clandestini» - i nostri «cancellati».
Al funerale parteciparono una decina di persone. Con involontaria ironia il prete ricordava ai presenti che non abbiamo, su questa terra, «residenza permanente». Si formò un piccolo corteo, preceduto da un becchino in uniforme, con una bandiera nera. Dopo la cerimonia, abbiamo scoperto che era un «cancellato» pure lui. Reggeva il vessillo con la fierezza di un alfiere, scortando l'urna di Milan lungo i viali del magnifico cimitero di Pirano - un'isola di luce, battuta dalla brezza marina, dove le lapidi parlano tutte le lingue d'Europa.
da Il Manifesto, 29 Giugno 2012
http://www.b92.net/eng/news/crimes-article.php?yyyy=2012&mm=05&dd=01&nav_id=80039
Tanjug News Agency - May 1, 2012
Serbia, RS commemorate Croatia exodus
BELGRADE: Serbia and the Serb Republic (RS) are on Tuesday remembering Serb victims who died in western Slavonia during Croatian military's Operation Flash.
According to the data gathered by the Documentation Center Veritas, 280 people were killed and 15,000 driven out of their homes in only 36 hours on May 1 and 2, 1995.
Croatia's military and police forces carried out an aggression against the area that was at the time under UN protection (known as Sector West).
The UN forces were warned of the attack in advance, and instead of preventing it, withdrew to safe locations.
Croatia sent 16,000 members of its forces to attack less than 4,000 members of the military of the former Republic of Serb Krajina. The citizens were asleep and outnumbered four to one at 05:30 CET on May 1, 1995, when their towns of Pakrac and Okučani and their surroundings were attacked and cut off.
This resulted in an exodus, with refugees pouring over a bridge on the Sava River that led to the Serb Republic (RS), in Bosnia-Herzegovina. But as they were escaping, the Croatian forces attacked them from warplanes, helicopters, and with mortar shells and snipers. There were reports of injured people being run over by tanks, or "finished off" with knives.
The Veritas data shows that 283 Serbs were killed or are still listed as missing as a result of Operation Flash, of whom 57 women and nine children under the age of 14.
Those civilians who could not or would not leave their homes were placed in camps, while Serb property and holy places were pillaged and destroyed.
Neither courts in Croatia nor the Hague Tribunal ever raised any indictments for war crimes committed during this attack on Serb areas of western Slavonia. In Bosnia and Serbia, two cases related to the operation are being "analyzed", or are in the phase of "information gathering".
Operation Flash completed the ethnic cleansing of Serbs from the region, that saw 67,000 people leave their homes from 1991 until 1995, while in the decade and a half that have passed since, only 1,500, mostly elderly people, returned.
In Croatia, representatives of the state gather in Okučani every May 1 to celebrate the day which they mark as day of victory when they took over western Slavonia, losing 42 members of their forces during the operation.
A Donji Rajic in Croazia oggi è iniziata l’esumazione
A Donji Rajic, nel comune di Novska in Croazia, oggi è iniziata l’esumazione delle salme dei serbi che sono stati uccisi nell’azione militare dell’esercito croato Lampo nel maggio del 1995, ha comunicato la commissione per le persone scomparse dell’esecutivo serbo. L’esumazione a Donji Rajic è cominciata nel giugno del 2010. Finora sono stati trovati i resti di 110 vittime. All’inizio dell’esumazione, per la quale si suppone che durerà tre giorni, ha presenziato il presidente della commissione per le persone scomparse dell’esecutivo serbo Veljko Odalovic.
nei 1035 seggi elettorali aperti per il referendum sullo status della lingua russa, i "NO" sono stati 821.722, contro 273.347 "SI". L'affluenza definitiva si è invece attestata al 69%.
Il russo rimane quindi una lingua straniera in Lettonia, malgrado essa sia la lingua madre del 40% degli abitanti.
La consultazione popolare è stata una risposta alle azioni dei nazionalisti lettoni, che avevano organizzato, senza successo, una raccolta di firme per la trasformazione di tutte le scuole pubbliche di lingua russa in centri di studio di lingua lettone.
Gli organizzatori del referendum ammettono che raccogliere settecentosettantamila voti a sostegno della lingua russa era molto difficile non potendo contare sui voti di circa trecentoventimila persone di lingua russa "non cittadini" che, dopo la separazione della Lettonia dall'Unione Sovietica, sono stati privati della cittadinanza e non hanno diritto di voto .
(fonte: Fabio Muzzolon)
Nel Baltico, il nazionalismo mira a contestare l'esito della Seconda Guerra Mondiale e addirittura invertire, se potesse, i processi di Norimberga. Il razzismo, il culto delle armi e del militarismo, il disprezzo per le minoranze, la xenofobia e l'odio verso gli ebrei e rom, sono sempre più presenti in questa zona e in altre regioni dell'Europa orientale. La tolleranza verso gli atti di glorificazione del nazismo e del fascismo, il razzismo nazionalista e il disprezzo per le minoranze, coesiste con la repressione del comunismo e con una preoccupante deriva antidemocratica che dovrebbe preoccupare i cittadini e le istituzioni europee perché, inoltre, i segnali d'allarme non vengono solo dagli Stati baltici, anche se questi sono diventati il fulcro più preoccupante. Tentazioni simili sono apparse in Romania, Ungheria, dove regna una violenta persecuzione dei comunisti e nella Repubblica Ceca (dove la destra cerca di mettere fuori legge il partito comunista, uno dei più grandi del paese) e la Polonia. E come risultato della politica nazionalista e conservatrice, crescono i movimenti fascisti. Mentre continua la caccia alle streghe nel Mar Baltico contro i comunisti, non è stato avviato alcun processo fino ad oggi, contro i criminali nazisti originari dell'Estonia, della Lettonia o Lituania e la persecuzione e la diffidenza contro gli ebrei, le minoranze e la sinistra continuano ad essere l'ordinaria condotta dei governi di questi paesi. Il veleno del serpente fascista prosegue ad avvelenare il continente: nessuno può immaginare, senza turbarsi, l'idea che sfilino di nuovo i soldati nazisti in Germania e per questo dovrebbe inquietare che gli emblemi nazisti ancora svolazzino al vento nei paesi Baltici.