Jugoinfo

(deutsch / italiano)
 
L'Europa oscillante tra Carlo Magno e Altero Spinelli
 
1) Il Trattato di Aquisgrana all'ombra di Carlo Magno / Der Vertrag von Aachen im Schatten von Karl Der Grosse (LINKS)
2) Il “Manifesto di Ventotene”. Una decostruzione necessaria (di Italo Nobile / RdC)
 
 
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AQUISGRANA: RISORGE CARLO MAGNO E MUORE L’UE (Fulvio Grimaldi, 24 gennaio 2019)
I 5 Stelle denudano re Macron, Merkel lo riveste... sancito ad Aquisgrana, città dell’imperatore, sede del primo trattato De Gaulle-Adenauer, per l’egemonia nel continente, simbolo dalla potenza simbolica deflagrante. Sede anche dell’insigne Premio Carlo Magno, forse il più reazionario di tutti i premi... “Sacro Romano Impero di nazione tedesca” (SRINT), così Ottone I, erede di Carlo Magno, denominò l’aggregato di popoli dell’Europa centrale che forgiò in impero includendovi la Franconia Occidentale (Francia). Durò, alla fine simbolicamente, 1000 anni, 962-1806, quando venne beneficamente travolto dal laico Napoleone. Lì, però, iniziò una guerra civile europea che sarebbe durata quasi un secolo e mezzo e avrebbe vissuto le sue tragedie maggiori nei due conflitti mondiali. Condotta dalle aristocrazie feudali e poi dalle borghesie capitaliste, a spese di tutti noi, ha celebrato la sua rivincita, ovviamente ad Aquisgrana, con il trattato firmato da Merkel e Macron il 22 gennaio...
 
AQUISGRANA. IL SECONDO TRATTATO, OSSIA L’ULTIMA CAPITOLAZIONE (di Guido Salerno Aletta, 23 gennaio 2019)
... Nei confronti della Germania, il sogno francese è presto detto: vorrebbe sostituire l’Italia come sub-fornitrice nel settore della manifattura meccanica, mantenendo invece la leadership nel campo dell’industria militare e conquistando quella della tecnologie avanzate: informatica ed intelligenza artificiale...
 
DER VERTRAG VON AACHEN (GFP, 22/1/2019) 
Überschattet von Protesten gegen die französische Regierung steht an diesem Dienstag die Unterzeichnung des deutsch-französischen "Vertrages von Aachen" bevor. Das Abkommen, das offiziell als ergänzende "Aktualisierung" des Élysée-Vertrags aus dem Jahr 1963 bezeichnet wird, sieht unter anderem eine Ausweitung der bilateralen Zusammenarbeit bei der Militarisierung Europas vor. So sollen "gemeinsame Verteidigungsprogramme" erstellt und auf eine "gemeinsame Kultur" der Streitkräfte beider Länder hingearbeitet werden. Hinzu kommt eine bilaterale Beistandsverpflichtung, die auch jenseits von NATO und EU gilt. Zudem sagt Paris zu, Berlin beim Kampf um einen ständigen Sitz im UN-Sicherheitsrat zu unterstützen. Frankreich wiederum willigt in eine punktuelle Schwächung seiner traditionellen Zentralstaatlichkeit ein. Parallel fordern Experten eine breite deutsch-französische PR für eine offensivere Militärpolitik - TV-Auftritte der Verteidigungsminister inklusive. Unterdessen versagt Berlin Paris weiterhin jedes echte Zugeständnis in Sachen Austeritätspolitik...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7836/
 
FINALMENTE È STATO PUBBLICATO IL TRATTATO DI AQUISGRANA TRA FRANCIA E GERMANIA: ALCUNE CONSIDERAZIONI (di Giuseppe Masala, 18/01/2019)
... Alcune considerazioni sul Trattato Franco-Tedesco: 1) Strettissimo coordinamento sulle politiche europee... 2) Coordinamento per far ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell'ONU ai crucchi... 3) Istituzione del Consiglio dei Ministri franco-tedesco... 4) Istituzione di un Consiglio degli Esperti per le politiche economiche fondate sulla "competitività"... 4) Strettissimo coordinamento militare in Africa... 5) Istituzione di un Consiglio di Difesa franco-tedesco... 6) Istituzione di distretti "europei" tra le regioni confinanti dove si favorirà il bilinguismo e si amministreranno comunemente. Inutile dire chi sia il paese economicamente egemone e chi farà dunque la parte del leone in queste regioni unite...
 
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Vedi anche:
L’Unione Europea. Un ambiguo inizio (di Italo Nobile, 24/01 2019)
 
 
 
Il “Manifesto di Ventotene”. Una decostruzione necessaria

di Italo Nobile (Rete dei Comunisti), 28 dicembre 2018
 

 

Nel 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati dal fascismo nell’isola di Ventotene, scrivono un documento per la promozione dell’unità europea che verrà poi pubblicato da Eugenio Colorni e viene oggi considerato uno dei testi fondanti dell’Unione Europea. A dire il vero, in ambito liberal-socialista spesso si è soliti dire che l’Europa abbia disatteso le idealità di questo scritto e un procedimento retorico di questo genere viene paradossalmente usato anche in uno dei tanti articoli polemici del “filosofo” rossobruno Diego Fusaro.

Tale manifesto di Ventotene era stato preceduto dal progetto di Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi che dopo la prima guerra mondiale aveva coinvolto numerosi uomini politici (Adenauer e poi Churchill) letterati (Rilke, Valery e Mann) scienziati (Einstein, Freud, Keynes) nel progetto paneuropeo, di ispirazione tecnocratica, che voleva l’unificazione economica e politica dell’Europa sotto forma di Confederazione con tutta una serie di istituti (Corte federale europea, un esercito europeo, una unificazione doganale progressiva, una moneta unica) e con una impostazione rispettosa delle diverse culture presenti in Europa e delle minoranze nazionali. 

Tuttavia la natura imperialista di tale costruzione è evidente laddove Kalergi parla di sfruttamento a livello unificato delle colonie (confermando in parte la previsione di Lenin secondo cui “In regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie”). Inoltre Kalergi, in altre sue opere, accennava ad un modello di uomo, ricco di spirito ma privo di carattere che costituisse il materiale ideale per sviluppare una società cosmopolita, a dimostrazione della ispirazione elitaria del suo progetto che voleva la contaminazione tra razze e culture non per potenziare le capacità degli individui ma per indirizzarle all’ossequio mediocre dell’ordine costruito da una minoranza di competenti (dunque una contaminazione a presupposto razzista).

Per quanto riguarda il Manifesto di Ventotene c’è da dire che nell’introduzione si avverte il lettore dicendo che “Le circostanze anormali in cui tutto questo materiale fu prodotto, l’evolversi degli avvenimenti la cui precisa valutazione non poteva essere data dal confino, han fatto si che oggi si possono notare varie lacune, ed alcune parti possono anche considerarsi superate. Sarebbe forse bene riscrivere tutto da capo in modo da presentare cose completamente aggiornate. Ciò implicherebbe però un lavoro di mesi. Ma la vita politica italiana è stata ridotta dal fascismo come un arido deserto, e chi può dare un qualsiasi contributo che l’aiuti a rifiorire non deve perdere un minuto di tempo, specialmente nell’attuale tragica situazione. Meglio perciò pubblicare questi scritti quali sono, affidando agli studi successivi il compito di correggere e di aggiornare, meglio anche correre il rischio di dire qualcosa di sbagliato ma indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire, anziché tacere per un eccessivo desiderio di adeguatezza alla realtà attuale”. 

E tuttavia pure in questa premessa la natura elitaria del progetto si avverte nel passo “ … indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire …”. Inoltre questo elitarismo si avverte anche nella rinuncia a formare un partito federalista e nel dire che “Il compito dei federalisti nelle attuali circostanze della nostra vita politica italiana deve essere invece quello di indicare ai partiti progressisti, i quali attirano su di sé le simpatie popolari, ma sono ancora più ricchi di fervore che di idee e propositi precisiquali debbano effettivamente essere questi propositi e come ci si debba concretamente preparare a risolvere i problemi politici attuali. Non si tratta più di formare un partito federalista., ma di aiutare i partiti progressisti italiani a diventare federalisti”. 

Nella Prefazione di Eugenio Colorni si dice che “Fu così che si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”.

Qui possiamo individuare l’illusione che la contraddizione sia essenzialmente culturale e politica. Non si va nella dimensione in cui questi processi politici si formano e si consolidano, quella dimensione dove processi di accumulazione capitalistica ridisegnano attorno a sé la società e i territori, ma ci si ferma all’apparenza e si propongono soluzioni che tengono conto solo dell’apparenza.

Nella Prefazione, Colorni critica l’opzione internazionalista dicendo che “benché le analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia e di collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché esistano interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità chiusa all’interno delle frontiere”, ma si illude che l’ipotesi federalista sia un modo alternativo di costruire un ordine internazionale, quando esso va incontro agli stessi problemi e forse a problemi ancora maggiori visto che si vuole applicare a paesi con regimi diversi e sistemi sociali diversi (i quali, a detta proprio di Colorni, non sarebbero sufficienti nemmeno se fossero identici). 

Colorni asserisce che “Tutti i problemi, da quello delle libertà costituzionali a quello della lotta di classe, da quello della pianificazione a quello della presa del potere e dell’uso di esso, ricevono una nuova luce se vengono posti partendo dalla premessa che la prima mèta da raggiungere è quella di un ordinamento unitario nel campo internazionaleEgli però non motiva questo modo di vedere né si chiede se, per l’instaurazione di tale ordinamento, non si debba passare per uno o più dei problemi che invece con questo ordinamento si vorrebbero risolvere. 

Egli poi aggiunge “Un altro motivo ancora — e forse il più importante — era costituito dal fatto che l’ideale di una Federazione Europea, preludio di una Federazione Mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano”.. E questo abbiamo visto come fosse in realtà un pio desiderio. 

Ancora Colorni afferma che “Il nostro Movimento non è e non vuol essere un partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente caratterizzando, esso vuole operare sui vari partiti politici e nell’interno di essi, non solo affinché l’istanza internazionalista venga accentuata, ma anche e principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora sono stati così poco avvezziEcco che quindi ricompare la minoranza illuminata che opera sui e nei partiti politici.

Nel Manifesto vero e proprio (analizziamo in questo contesto anche una prima versione del Manifesto del 1943, perché a nostro parere essa rivela l’ideologia sottesa dei suoi estensori meglio di quella successiva e definitiva del 1944) si dice “L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”. 

Qui possiamo vedere come gli autori attribuiscano la nascita degli imperialismi ai nazionalismi, mentre l’analisi materialistica ipotizza che l’accumulazione di capitale ad un determinato livello condiziona il perimetro all’interno del quale il nazionalismo attecchisce e si sviluppa. 

Inoltre si reitera l’atteggiamento paternalista tra culture quando si dice “ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretratele istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili” (forse per giustificare la soggezione nella quale era tenuto il Meridione d’Italia?). 

Nella seconda e definitiva versione del Manifesto non a caso non si parla più di nazionalismoimperialista ma di imperialismo capitalista, quasi a voler sfumare un presupposto teorico sbagliato.

Si parla anche di “spazio vitale” (l’espressione fatta propria dal nazifascismo per giustificare l’innesco del conflitto mondiale), quasi fosse una sorta di desiderio irrazionale di espansione (e quindi derubricandolo ad espressione di mera volontà politica), quando si tratta dell’espressione ideologica che si collega all’esigenza imperialistica che è interna alle contraddizioni del capitale, per il quale anche l’ambito della nazione diventa angusto ed oppressivo. Perciò la libera circolazione delle merci, che essi vedono solo come “fattore progressivo”, è allo stesso tempo uno dei momenti della dinamica imperialista nel momento in cui ad essa (post hoc e propter hoc) segue quella dei capitali.

Gli autori hanno buon gioco ad evidenziare come anche nei periodi di pace il funzionamento degli ordinamenti che loro definiscono “liberi” (e cioè scuola, scienza e produzione) sia indirizzato totalmente alla guerra. Essi però, come in altre parti dell’elaborato, si fermano alla superficie delle cose. Non vedono che la proiezione bellica è proprio insita nella dinamica imperialistica (e quindi economica) che vede capitalismi in competizione tra loro che trascinano le nazioni con sé (e non nazioni che subordinano la produzione alla guerra). 

La guerra è nella sua accezione moderna un momento della fisiologia (che è dialetticamente una patologia) capitalistica. E la produzione non è affatto un ordinamento libero. Anzi, le modalità con cui si produce sono modalità militari, in quanto la fabbrica sin dal suo inizio (sin da quando si costringeva in Inghilterra a lavorare nelle fabbriche) è una istituzione totale.

E’ sintomatico come gli estensori del Manifesto attribuiscano tutti i mali all’iperbole politica, invece di guardare alla struttura economica: “Le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo”. 

Le madri sono fattrici di lavoratori e devono essere prolifiche per riprodurre “l’esercito” industriale di riserva. I bambini sono dalla più tenera età posti sul mercato del lavoro. Le libertà individuali sono nulla appena varcato l’ingresso della fabbrica. La produzione costringe ad abbandonare la famiglia ed a sacrificare spesso la vita per obbiettivi di cui nessuno capisce il valore. La guerra è l’immagine un po’ più brutta della matrice che la genera e cioè il modo di produzione capitalistico. Ma il Manifesto di Ventotene questa paternità la nega e anzi retoricamente ci disegna l’opposizione tra una produzione pacifica e una politica belligerante.

Anche quando si riferisce alla Germania, il quadro che fa il Manifesto riproduce uno stereotipo dove le considerazioni, fatte anche all’interno degli ideologi liberali (si pensi a Keynes), circa le responsabilità dei vincitori della Prima Guerra Mondiale nel determinare il trionfo del nazismo in Germania sono del tutto sottaciute.

Nella prima parte (“Crisi della società moderna”) ci sono anche analisi che si ricollegano alla tradizione socialista e che cercano di ricollegare il totalitarismo nazifascista alla oppressione delle classi diseredate, ma la tendenza elitaria ricompare quando si dice, all’inizio della seconda parte “Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti …

Troviamo poi anche un principio ambiguo (perché utilizzabile in molti modi) quando si dice “Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei”.

Questo principio, ripreso dall’antifascismo, è stato poi uno dei fattori ideologici che ha permesso le guerre Usa contro l’Iraq, la Serbia e la Libia. Non a caso questo principio è stato fatto proprio dal fondamentalismo neoliberista dei Radicali Italiani, che sono stati sempre in prima fila nel sostegno ideologico e politico alle guerre condotte da Usa ed Europa dopo il crollo del socialismo reale.

Singolare poi è la teoria sostenuta in questo passo dove si dice “Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc:, che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie”. 

Infatti si pensa che l’unificazione europea contribuirebbe a risolvere i problemi interni a vari Stati, mentre la questione catalana è la dimostrazione che la tendenza alla concentrazione dei fattori produttivi – resa possibile dalla libera circolazione degli stessi a livello europeo (senza meccanismi di compensazione) – lacera ancora di più il circuito di solidarietà interno ai singoli Stati, a meno che qualcuno non riesumi il patriottismo nazionalista, per cui il processo di unificazione si configura come una sorta di fuga in avanti.

Fa sorridere ed inquietare l’atteggiamento degli estensori verso la democrazia. Essi combinano la critica al totalitarismo nazionalistico ad un atteggiamento minoritario ed illuministico che non può che mostrarsi scettico verso le possibilità dei popoli di autodeterminarsi. Infatti dicono “I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sugli i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono solo essere ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro”. 

Il popolo per questi signori è sempre confuso. I milioni di teste li ossessionano ed hanno dunque bisogno di ridurre la complessità democratica con l’accetta. 

Infine in questo passo si intravede la tendenza (in altre parti meno accentuata) di assimilare l’Urss alla situazione spagnola e tedesca, quasi rimpiangendo che il socialismo rivoluzionario russo non abbia avuto miglior sorte. E la critica alla burocrazia sovietica fa intravedere un’altra matrice astrattamente internazionalista, oltre quella del liberalismo ispirato dalla concezioni massoniche (si pensi a Briand e allo stesso Kalergi).

Non finisce qui. Il Manifesto aggiunge “Nel momento in cui occorre la massima decisione ed audacia, i democratici si sentono smarriti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare” e ancora “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”.

Giunti a questo punto, gli estensori del Manifesto si preparano a criticare il concetto marxista di lotta di classe ed affermano: “Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi. Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine a cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano a tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario”. 

Dunque, per gli estensori del Manifesto, gli operai ispirati al principio della lotta di classe non farebbero una politica delle alleanze e quindi non riuscirebbero a raggiungere il potere. Questo assunto falso (l’alleanza tra operai e contadini nella rivoluzione russa come si dovrebbe considerare?) serve per introdurre un più sostanziale interclassismo funzionale alla ideologia elitaria degli autori. Anche questo passo non a caso viene in buona parte espunto nella versione definitiva, ma rimane il passo in cui si dice “Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche”, in cui compare un astratto politicismo che derubrica la lotta di classe a rissa.

Essi aggiungono “Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono nei momento decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto”.

Non sapendo quali siano queste altre forze rivoluzionarie, ci meravigliamo di come gli estensori del Manifesto credano in una rivoluzione di qua da venire e critichino quelli che prudentemente parlano di una rivoluzione di là da venire. L’anticomunismo del Manifesto si rende evidente quando si dice “Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paeseUna situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”. 

Anche questo passo viene omesso nella versione definitiva (probabilmente si sceglie un atteggiamento più sfumato verso il partito comunista italiano per quanto Altiero Spinelli fosse stato espulso dal Pci nel 1937). 

Tuttavia la crescente inclinazione di Spinelli verso il liberismo (complice la lettura di Luigi Einaudi, che già dal 1893 parlava di Stati Uniti d’Europa e che, con lo pseudonimo Junius, nel 1920 aveva scritto delle lettere sull’unificazione europea) è evidente quando si dice “Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individualenon vanno spente nella morta gora della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni nei salari, e con gli altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività

Gli autori sognano un’alleanza tra la classe operaia e gli intellettuali, che eviti agli intellettuali una sorta di impotenza sociale e agli operai di appiattirsi sul classismo dottrinario, senza notare che la classe operaia aveva già nei suoi gruppi dirigenti intellettuali di alto livello e che, nel frattempo, Antonio Gramsci aveva già delineato un modello di intellettuale collettivo (proprio quel partito che gli elitari del Manifesto trattavano con ingiustificata supponenza). 

Questa parodia di un bolscevismo in giacca e cravatta così conclude: “Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidateEsso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società modernaDà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia. Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere”. 

Nella versione definitiva a “questo partito” si sostituisce “questo movimento”, aumentando nel lettore l’impressione di un pasticcio. Non si vuole fare il partito per velleità di entrismo, ma al tempo stesso si pretende di dirigere senza imporsi a propria volta una organizzazione. Il Manifesto di Ventotene, contrariamente a quello di Marx, invece di abbandonare la dissimulazione, intende perpetrarla rifiutando un contatto diretto con le masse e nascondendosi nelle istituzioni che pure considera compromesse dalla guerra.

Perché tale ingenua e presuntuosa visione delle cose potesse avere il suo infelice successo, si è dovuto aspettare che essa si piegasse alla Forche Caudine del nascente imperialismo europeo, quell’imperialismo che essa vedeva solo nei cosiddetti totalitarismi e che invece si fa presente anche nelle democrazie liberali sempre meno democratiche e sempre meno liberali.

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(français / english / italiano)
 
Cos'è un nome?
 
1) De quoi la Macédoine est-elle le nom ? (par A. Manessis / PRCF, 31/1/2019)
2) Grecia: ΚΚΕ vota contro il governo e l'accordo Tsipras-Zaev / Cortei militanti e di massa contro l'Accordo Tsipras-Zaev, i piani della NATO e il nazionalismo (gennaio 2019)
3) Cos’è un nome? Tutto e niente (di W. Madsen / SCF 21.06.2018)
 
 
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De quoi la Macédoine est-elle le nom ?
 

Imaginons qu’à la frontière entre la France et l’ Allemagne, celle-ci décide de baptiser Alsace du nord, la partie allemande du Bade-Wurtemberg de Fribourg à Karlsruhe.

On pourrait supputer sans être paranoïaque quelque pensée irrédentiste.

Or c’est exactement ce qui se passe avec la “République de la Macédoine du Nord” avec la complicité du gouvernement de Tsipras devenu la serpillère de l’Union Européenne c’est-à-dire de l’ Allemagne tout particulièrement dominante dans les Balkans.

L’irrédentisme slavo-macédonien de Skopje, avec ses aspirations sur les territoires prétendument slaves en Grèce (Macédoine historique) et aussi en Bulgarie (Macédoine du Pirin) existe depuis fort longtemps au moins depuis que Tito essaya d’obtenir une sortie dans la méditerranée (dans le cadre d’une Fédération balkanique) en créant une République socialiste de Macédoine qui avait des revendications sur le territoire grec. Les nationalistes de Skopje, après la mort de Tito, firent la promotion des visées expansionnistes territoriales sur la Grèce (élaboration de cartes, manuels scolaires, livres d’histoire, etc., illustrant des territoires grecs sur le territoire d’une “grande” République Yougoslave de Macédoine). Sur le plan symbolique, les emblèmes de la Macédoine hellénique de l’ Antiquité comme  le soleil de Vergina de Philippe et Alexandre le Grand (dix siècles avant l’arrivée des Slaves dans cette région) furent récupérés par les nationalistes de Skopje.

Le Grèce ne pouvait pas accepter une telle situation potentiellement extrêmement dangereuse.

Mais la perspective d’une adhésion de Skopje à l’UE et à l’OTAN, que l’ Allemagne soutient, a amené Tsipras, une fois de plus, à capituler. L’Allemagne, après avoir fait exploser et dépecer la Yougoslavie en soutenant les nationalistes croates, slovènes et après avoir avec les autres pays impérialistes et l’OTAN, écrasé la Serbie sous les bombardements, s’est emparé de la région qu’elle domine totalement. La France ayant servie de marche-pied à cette hégémonie en trahissant la Serbie, son allié historique dans les Balkans.

Reste que la “République de Macédoine du Nord” est une menace contre l’intégrité territoriale de la Grèce et une menace de déstabilisation de la région. En effet d’autres puissances régionales pourraient manipuler l’irrédentisme macédonien. On pense évidement  d’abord à la Turquie qui a par ailleurs des exigences totalement contraires au droit international sur les eaux territoriales et l’espace aérien en mer Égée. On ne s’étonnera pas que les Grecs soient à 70% contre l’accord que le parlement grec vient d’approuver. Les Grecs ne sont pas effrayés en soi par Skopje et ses ambitions irrédentistes, mais par les forces étrangères qui pourraient utiliser ce nouvel État pour asseoir leur pouvoir sur la région et en particulier l’OTAN qui pourrait redessiner la carte de la région en fonction des intérêts impérialistes.

La Grèce a trop souffert, a été trop envahie, trop occupée pour que la moindre naïveté soit autorisée.

En revanche il faut dire clairement que c’est la droite (ND) et l’extrême-droite (AD) qui se sont engouffrées dans la brèche. La social-démocratie (Syriza) ayant une fois encore trahi le patriotisme populaire. Le nationalisme grec utilise cette situation pour préparer son retour aux affaires, les élections étant prévues en septembre 2019. Mobiliser entre 60.000 et 100.000 personnes à Athènes est incontestablement un signe d’adhésion que les sondages confirment.

Sous-estimer la question nationale dans un pays comme la Grèce qui fut occupée quatre siècles par l’empire ottoman et, depuis son indépendance (1820-1930), dominée par différentes puissances impérialistes et où le patriotisme est, par réaction, extrêmement puissant, serait une erreur historique.

Les forces progressistes grecques doivent se souvenir et helléniser la phrase célèbre du marxiste irlandais James Connolly : “La cause de l’Irlande est la cause du Travail, la cause du Travail est la cause de l’Irlande.”

Le KKE l’a bien compris qui a voté contre l’accord  de Prespa qui vise l’expansion sans encombre de l’OTAN dans les Balkans occidentaux, la montée de la pression sur la Serbie pour adhérer à l’OTAN et à l’UE, et à la promotion du gouvernement de Tsipras en “appui politique et militaire des Etats-Unis le plus stable de l’arc géopolitique allant de la Pologne à Israël” selon les déclarations de l’ambassadeur américain à Athènes Geoffrey Pyat.

Par Antoine Manessis.
Secrétaire de la Commission internationale du PRCF
 
(31/1/2019)
 
 
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www.resistenze.org - popoli resistenti - grecia - 21-01-19 - n. 698

Il ΚΚΕ vota contro il governo e l'accordo Tsipras-Zaev

Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/01/2019

Nel suo bollettino sugli sviluppi politici, l'ufficio stampa del CC del KKE afferma quanto segue:

«La contrattazione dei giorni passati tra Tsipras (SYRIZA) - Kammenos (ANEL) si è conclusa con la ricerca di un voto di fiducia in Parlamento. Si tratta di un esito conveniente per entrambe le parti coinvolte, poiché offre da un lato la possibilità al Sig. Tsipras di salvare il suo governo con voti dei deputati di ANEL in parlamento, e d'altro canto, consente al Sig. Kammenos di mantenere il suo gruppo parlamentare, apparendo in contrasto con una politica che ha sostenuto durante tutto il recente passato.

Inoltre, l'accordo di Prespa, che ha costituito il catalizzatore di questi sviluppi politici, è un aspetto chiave del piano globale USA-NATO per la regione, che sia il signor Tsipras che il signor Kammenos hanno servito con grande coerenza, al punto di trasformare la Grecia in una vasta base militare USA-NATO.

Il KKE vota contro il governo e indipendentemente da qualsiasi sviluppo si verifichi nel Parlamento tra i potenziali collaboratori di Tsipras, la questione cruciale è che il popolo respinga questo governo perché continuerà le stesse barbare e pericolose politiche anti-popolari in continuazione ai precedenti..

È un governo che ha assunto impegni concreti con gli Stati Uniti, la NATO, la Germania, nei confronti delle classi dirigenti nazionali ed europee. Questi impegni - la ristrutturazione anti-popolare e il sostegno dei piani euro-atlantici - devono essere completati entro le elezioni, e per questo motivo tutti i soggetti sopraccitati sono i primi a dare un "voto di fiducia" al governo SYRIZA, come aveva fatto Trump in precedenza e ora la cancelliera Merkel.

Per quanto il governo definisca l'accordo Prespa come "progressista", la realtà è completamente diversa.

Gli Stati Uniti, la NATO e l'UE hanno voluto imporre l'Accordo di Prespa a ogni costo per promuovere l'integrazione euro-atlantica nei Balcani occidentali e indebolire l'influenza di altri centri, come la Russia, ecc.

Queste forze e le alleanze criminali imperialiste che hanno sparso sangue nei Balcani ed esacerbato le divisioni etniche, ridefinendo i confini con il sangue dei popoli, non possono essere garanti della pace e della sicurezza. Né possono essere protettori dei diritti sovrani del paese, come mostra la storia delle differenze greco-turche. Per questo motivo, anche all'interno dell'Accordo Prespa, vengono preservati i germi dell'irredentismo, al fine di costituire una "fonte" continua di destabilizzazione a seconda degli interessi di volta in volta espressi dalle potenze.

Per questi motivi il KKE vota contro l'accordo di Tsipras-Zaev e difende la solidarietà e la lotta comune dei popoli contro i disegni degli Stati Uniti e della NATO.

Questi piani non vengono contestati dalla ND (Nuova Democrazia, partito conservatore, ndt), né da coloro che pescano nelle torbide acque del nazionalismo e del fascismo, giocando il gioco degli imperialisti sia in Grecia che nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia.

La propaganda governativa sulle "misure positive" che devono ancora essere attuate nel restante periodo di governo, ossia le "briciole caritatevoli", vengono gettate come polvere negli occhi della gente. Anche quelle non verrebbero distribuite se non fosse per le lotte dei lavoratori e dei movimenti popolari, con il contributo decisivo del KKE. Queste misure, tuttavia, non guariscono le ferite inflitte dai memorandum, come sostiene il governo, né impediscono l'ulteriore approfondimento di queste ferite. Non si tratta di altro se non della restituzione in minima parte dell'immenso furto a spese del popolo, che continua ad aumentare. La prova di ciò è la conservazione delle leggi sui memorandum, i profitti estratti sul sangue versato dai lavoratori, l'intensificazione di una imposizione fiscale da rapina, la generalizzazione del lavoro part-time, la restrizione delle tutele sulla prima casa e l'accelerazione dei processi di pignoramento, i nuovi privilegi consegnati al grande capitale, ecc. Per questo motivo le chiamiamo briciole: perché scompaiono prima ancora che vengano distribuite.

Il governo SYRIZA così come ND e gli altri partiti servono costantemente questa politica. Il comune denominatore è la dedizione all'obiettivo della redditività capitalista che richiede il sacrificio del lavoro e dei diritti popolari. Cercano di nascondere la loro convergenza strategica, facendo mostra di vecchie dualità e superate dicotomie, come "progresso - conservazione", dal momento che il presunto fronte "progressista" di Tsipras include persone che negli anni passati si sono distinte come ministri e funzionari nei governi della ND e del PASOK, con significative esperienze di "successo" in politiche antipopolari. Mentre altri dirigenti del partito (SYN/SYRIZA), hanno attraversato il PASOK, POTAMI e DIMAR, per finire ancora una volta in SYRIZA. SYRIZA è un partito amorale, avventurista, dedito alle politiche dei memorandum.

I recenti sviluppi, con trasferimenti di deputati del parlamento da un partito all'altro e il rimescolamento della scena politica, rivelano, al di là dell'avventurismo di alcuni, che le differenze tra i partiti borghesi sono minime e le loro convergenze così forti, che saltare da un partito all'altro è a questo punto estremamente facile.

Se si guarda alla composizione del Parlamento con i suoi 300 deputati nel corso di questi 4 anni, si conferma che l'unico partito stabile è il KKE. E questo è un ulteriore criterio che le persone devono tenere in considerazione nelle prossime elezioni.

Il vero dilemma dal punto di vista del popolo greco e dei suoi interessi è: perseverare sulla stessa strada, che ha dimostrato di portare sempre nuova sofferenza e distruzione, o intraprendere una lotta di massa e decisiva, ovunque, in modo che questo marcio sistema di sfruttamento cambi radicalmente una volta per tutte?

Il popolo greco non deve cercare le sottili differenze tra partiti fatti della stessa stoffa, ma fare veramente la "differenza", con un KKE più potente. Per rafforzare la lotta, la speranza, l'obiettivo del rovesciamento radicale».
 
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En français: 
KKE: Rassemblements de masse militants contre l’accord Tsipras-Zaev, les plans de l’OTAN et le nationalisme
 
 
www.resistenze.org - popoli resistenti - grecia - 29-01-19 - n. 699

Cortei militanti e di massa contro l'Accordo Tsipras-Zaev, i piani della NATO e il nazionalismo

Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

25/01/2019

I lavoratori, i giovani e i pensionati che si sono radunati nelle manifestazioni del KKE giovedì 24 gennaio hanno espresso il loro "NO" all'accordo Tsipras-Zaev, ai piani USA-NATO-UE, all'irredentismo e al nazionalismo, ma anche il loro "SI" all'amicizia, alla solidarietà e alla lotta comune dei popoli.

Fotohttps://inter.kke.gr/export/sites/inter/.content/images/news/sugkentrosh-kke-56.jpg_2126691551.jpg

Il Segretario Generale del Comitato Centrale del KKE Dimitris Koutsoumpas è intervenuto durante la manifestazione ad Atene; immediatamente dopo i manifestanti hanno marciato in corteo verso l'ambasciata americana. Quando la testa del corteo ha raggiunto l'ambasciata, i manifestanti hanno bruciato le bandiere della NATO, degli Stati Uniti e dell'UE.

Videohttps://youtu.be/O_DXpI9onRk

Sotiris Zarianopoulos, rappresentante del KKE al Parlamento europeo e candidato sindaco di Salonicco, ha parlato alla manifestazione a Salonicco, a cui è seguito un corteo verso il consolato americano.
Mobilitazioni simili si sono svolte a Larissa.

Videohttps://youtu.be/JWAi_QHFtNo

Rafforziamo con il KKE l'opposizione del popolo ai disegni imperialisti, alla NATO, all'UE

"Siamo qui per dichiarare il nostro" NO "all'accordo Tsipras-Zaev e ai disegni antipopolari euro-atlantici. Siamo qui per affermare il nostro" SI" alla pace, all'amicizia, alla solidarietà del popolo greco con i popoli vicini. Dall'Acropoli, eterno simbolo della cultura greca e mondiale, sono state riprese questa mattina le immagini che hanno fatto il giro del mondo e che esprimono ora il vero "NO" e il vero "SI", ha dichiarato il Segretario Generale del KKE.

Koutsoumpas ha sottolineato anche che "il governo SYRIZA si appresta a votare per l'accordo di Prespa, progettato, attuato e firmato con il governo della FYROM su richiesta della NATO, degli USA e dell'UE, dei grandi capitali, per consentire loro di fare affari nei Balcani".

In conclusione ha sottolineato: "Chiediamo ai lavoratori, ai disoccupati, al popolo degli strati popolari di intensificare l'opposizione ai piani imperialisti, alla NATO, all'UE. Chiediamo di lottare per la rimozione delle basi NATO dalla Grecia, per il disimpegno del nostro paese dalle organizzazioni imperialiste, in modo che nessun'altro popolo possa entrare in questa prigione.
Di prendere il posto di combattimento accanto ai comunisti, al fine di rafforzare la solidarietà e la lotta comune dei popoli, per seguire la nostra via per assumere il potere, il potere dei lavoratori".
 
 
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ORIG.: What’s in a Name? Everything and Nothing (by Wayne Madsen, 21.06.2018)
 
 
Cos’è un nome? Tutto e niente
di Wayne Madsen, SCF 21.06.2018
 
Secondo tutti i resoconti da Grecia e Macedonia, la maggioranza di entrambi i Paesi sarà felice del nuovo nome per la Macedonia concordato dai governi di Atene e Skopje. Dopo anni di veti greci all’adesione ad Unione Europea e NATO col nome di “Repubblica di Macedonia”, il governo greco accettava di abbandonare l’opposizione fintanto che la Macedonia cambi nome in “Macedonia settentrionale”. I greci credevano che fosse obiettivo di macedoni slavi e albanesi rivendicare la regione della Grecia settentrionale, chiamata anche Macedonia. Da quando la Macedonia dichiarò l’indipendenza dalla Jugoslavia 25 anni fa, la Grecia insistette a che le Nazioni Unite chiamassero il Paese “ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia”, nell’acronimo FYROM. Alcune nazioni la riconobbero come Repubblica di Macedonia, mentre altri optarono per ex-Repubblica jugoslava di Macedonia. I macedoni dichiararono anche Alessandro Magno, eroe nazionale greco, uno di loro e denominarono il loro aeroporto internazionale dall’antico conquistatore. Col cambio del nome della Macedonia, l’aeroporto internazionale Alessandro Magno diventava aeroporto internazionale di Skopje. I libri di storia macedoni vanno modificati per dire che i macedoni del nord non sono gli antichi macedoni. I macedoni veri, sostiene Atene, sono i greci del nord o “macedoni egei”. I macedoni, governati dall’agente di George Soros Zoran Zaev, subiscono il cambio culturale visto in Ruanda dopo che il generale Paul Kagame, un espatriato ruandese proveniente dall’Uganda, prese il potere dopo il sanguinoso genocidio del 1994. Il Ruanda costrinse i ruandesi a sostituire il francese con l’inglese, il tricolore nazionale simile a quello francese con una nuova bandiera, e il Ruanda aderì al Commonwealth guidato dalla regina inglese. L’unica cosa che non è cambiata in Ruanda è il nome del Paese, anche se qui non poteva, Kagame ritornò al nome coloniale di “Ruanda”. Macedonia settentrionale fu concordata da Macedonia e Grecia dopo la discussione di molte altre opzioni. I greci preferivano “Repubblica di Vardar Macedonia”, ma fu respinto dai macedoni che preferivano “Repubblica di Nuova Macedonia”. Il mediatore delle Nazioni Unite disse che c’erano altri nomi candidati, come Repubblica di Macedonia Superiore e Repubblica di Macedonia (Skopje). La Grecia suggerì molti altri nomi, come “Dardania e Paeonia”, nomi antichi della regione; Slavia meridionale, Repubblica di Vardar, Repubblica dei Balcani centrali e Repubblica di Skopje. I macedoni proposero Repubblica Costituzionale di Macedonia, Repubblica Democratica di Macedonia, la Repubblica Indipendente di Macedonia e Nuova Repubblica di Macedonia. I nomi ora significano tutto nell’era del “nuovo nazionalismo”.

L’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, ex-procuratore di Donald Trump, indicò la West Bank occupata illegalmente come “Giudea e Samaria”, uno scappellamento ai coloni ebrei illegali che vogliono che Israele annulli la Cisgiordania e diventi uno Stato dell’apartheid in piena regola, coi palestinesi trattati da “untermenschen”. “Ci sono notizie che dopo aver spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, l’amministrazione Trump sia lanciata a riconoscere tutta Gerusalemme, inclusa Gerusalemme Est occupata illegalmente, capitale d’Israele, e l’annessione delle alture del Golan siriane. Ciò lascerebbe il ghetto palestinese a cielo aperto di Gaza quale obiettivo per la ri-annessione israeliana. Minacciosamente, l’amministrazione Trump già chiama Gaza “Israele meridionale”. Ci sono altre proposte di cambiamento di nomi. Nel 2017, il ministro delle arti e della cultura sudafricano Nathi Mthethwa accese il dibattito quando suggerì che il Sudafrica dovrebbe diventare “Azania”, nome con origini greche. La proposta fu messa da parte rapidamente da un governo che non voleva mal di testa autoinflitti oltre a tutti gli altri problemi. Allo stesso modo, c’è poco interesse nella Repubblica Centrafricana a tornare al nome coloniale francese di Ubangi-Shari, i due fiumi che convergono nel Paese. I sudafricani potrebbero pensarci due volte su Azania. Il Sud Sudan considerava l’uso dello stesso nome dall’indipendenza dal Sudan nel 2011. Il mondo potrebbe sopravvivere a due Azania? Perché no? Ci sono stati due Congo indipendenti dagli anni ’60, l’ex- Repubblica francese del Congo e l’ex-Repubblica Democratica del Congo (RDC) belga. La RDC cambiò nome in Zaire durante la dittatura di Mobutu Sese Seko, ma cambiò di nuovo dopo la sua estromissione con una ribellione popolare. Il Sud Sudan sembrava aver apprezzato il nome Sud Sudan, dopo aver respinto, insieme ad Azania, i nomi Repubblica del Nile, del Kush e Juwama. Alcuni sud sudanesi vogliono ancora cambiare nome, favorendo Tochland o Savannah. Se gli attivisti favorevoli all’indipendenza si faranno strada nello Yemen devastato dalla guerra civile, lo Yemen del Sud riemergerà come nazione indipendente e ciò potrebbe dare sollievo a Sud Sudan e Sudafrica, ma non alla Corea del Sud che, dopo il riconoscimento di Trump del Nord come Repubblica Popolare Democratica di Corea, o RPDC, insisterà ad essere chiamata Repubblica di Corea o “RoK”. In occasione del 50esimo compleanno, il re dello Swaziland, re Mswati III, che ha 15 mogli, 12 in meno del numero noto di ex-mogli di Trump, proclamava che il nome del suo Paese sia d’ora in poi eSwatini.

Il Kazakistan non è più Kazakistan. Il presidente della nazione, Nursultan Nazarbaev, decretava che la lingua kazaka non sarà più scritta nell’alfabeto cirillico, ma in latino. “Qazaqstan” ora raggiungerà il Qatar come unici Paesi nella sezione “Q” dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Anche Nazarbaev non apprezza l’appendice “stan” al nome del suo Paese, è sarebbe favorevole ad abbandonare “stan” e chiamare il Paese Qazaq Yeli, o “Terra dei kazaki”. Alcuni politici in Kirghizistan vogliono abbandonare il loro “stan” dal nome del Paese, ufficialmente riconoscendosi come Kirghizilandia o Kyrgyz Zher, il nome in kirghiso. Questi politici si lamentano che la loro nazione sia spesso confusa col Kurdistan che, grazie alle pressioni turca e irachena, non è un Paese indipendente rappresentato alle Nazioni Unite. I kirghisi hanno ragione. I cechi, nel sostenere il nome Czechia, non sembravano preoccuparsi che alcuni lo confondano con la Cecenia, repubblica autonoma russa. Nel 2013, la piccola nazione sull’isola di Timor Est annunciato che cambiava nome in Timor-Leste, un capolavoro della propria storia di colonia portoghese. Per non lasciare fuori la nostalgia portoghese, Capo Verde cambiò nome in Cabo Verde, lo stesso anno. Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha balenato la possibilità di cambiare il nome del Paese in qualcosa che non onori più i colonialisti spagnoli e il loro monarca re Filippo II. Ci furono passi al Congresso delle Filippine per stabilire una commissione geografica per il nuovo nome. Un’idea avanzata è il nome tagalog Haring Bayan.
Il cambio dei nomi dei Paesi sono difficili per alcuni commercianti. Nel 1997, l’American Safety Razor Company reintrodusse il marchio del sapone da barba Burma-Shave. Ma la Birmania era diventata Myanmar nove anni prima e “Myanmar-Shave” mancava di fascino. Tutti gli addetti al marketing del tè di Ceylon erano inorriditi, nel 1971, quando la nazione insulare cambiò nome in Sri Lanka. Se il referendum sull’indipendenza in Nuova Caledonia, a novembre di quest’anno, si tradurrà nel voto a maggioranza per la rottura dei legami coloniali con la Francia e l’indipendenza, il nome del Paese sarà Kanaky. Il nome è un omaggio ai nativi Kanak. Se la Groenlandia opta per l’indipendenza dalla Danimarca, addio Groenlandia e ciao Kalaallit Nunaat, nome Inuit del Paese. Il nazionalismo risorto in tutto il mondo tiene occupati cartografi e diplomatici. Cambiare il nome del Paese è l’attuale moda e non ci sono segni che finisca presto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 
 
Chi ha diritto di parola e chi no sulle "foibe"
 
1) Casapound, "esuli" e deputati contro la libertà di insegnamento
Riecco Paola Frassinetti in Commissione Cultura / Intimidazioni contro Virginia Raggi / Casapound Italia contro l'ANPI / Onlus Giuliano-dalmati paragona ANPI alle SS / Gasparri chiede di vietare la presenza di ANPI nelle scuole
2) Polemiche a Rovigo
Basovizza: “Story From Trieste Untrue” / Cosa c’è di sbagliato nel post apparso sulla pagina FB dell’ANPI di Rovigo? (C. Cernigoi)
3) FLASHBACK 2018: 10 Febbraio 2018, Decima Mas e Serracchiani sulla "foiba" di Basovizza

 
Le Foibe come arma di distrazione di massa
di Alberto Fazolo, 31 gennaio 2019
 

 

Dal finire degli anni ’80 si andò definendo un nuovo assetto europeo: la Germania (riunita) diventava il nuovo leader che trascinava gli altri paesi in un percorso – politico ed economico – da cui lei avrebbe tratto il massimo giovamento. In questa nuova Europa sono ben definiti i ruoli: chi comanda e chi obbedisce, chi può prendere le decisioni strategiche e chi si può al più limitare al tentativo d’influenzarle. Un quadro in cui il ruolo dell’Italia è evidente, ma ancora più evidente il fatto che optando per porsi in subalternità si finisce per accettare le decisioni delle forze egemoni nella UE, anche quando queste vadano contro i propri interessi. 

La Germania lanciò un progetto di ampio respiro che oggi si manifesta nella sua concretezza e che prevedeva la costruzione dell’egemonia – politica ed economica – in Europa. Forse fare dei paragoni con i vari Reich è per certi versi azzardato, ma per altri non tanto. Infatti il progetto prevedeva la propria riaffermazione su territori in cui più volte ha insistito la presenza tedesca (fino alla Prima Guerra Mondiale con l’alleanza tra Germania e Impero Austro-Ungarico e successivamente con il Terzo Reich). Anche in quest’ottica va inquadrata l’espansione ad Est avviata con il crollo dei paesi socialisti: nella ricomposizione della sfera d’influenza tedesca.

Sotto la spinta delle forze Euro-Atlantiche caddero tutti i paesi del Patto di Varsavia, che repentinamente passarono ad un sistema di libero mercato compatibile con il nuovo corso europeo. Tuttavia la Jugoslavia socialista (Stato multietnico per antonomasia) non mostrava particolari segni di cedimento. Questa infatti, non gravitando nell’orbita sovietica, non aveva eccessivamente accusato il colpo di quegli eventi. Pertanto, era evidente che per “normalizzare” la Jugoslavia si sarebbe dovuto ricorrere a differenti metodi, optando per alimentare le tensioni etniche e disarticolarla in piccoli stati. Su questa operazione convergevano gli interessi di diversi poteri forti: gli USA impegnati nella crociata contro il socialismo, la NATO in corsa verso Est, la Germania smaniosa di espandersi fino ai vecchi confini dei Reich, il Vaticano di Woytila che voleva costruire una nuova e cattolicissima Croazia. 

Le forze Euro-Atantiche incendiarono i Balcani dando il via ad una terribile guerra civile, in Croazia sostennero gruppi che si ponevano in continuità con il passato fascista, compresi i ferocissimi Ustascia. Con il beneplacito delle forze Euro-Atlantiche la Croazia si macchiò di orribili crimini e fece una terribile pulizia etnica. Nel 1991 i cittadini di etnia croata nel Paese erano il 78% della popolazione complessiva, dieci anni dopo erano diventati il 90%. Con l’indipendenza, la Croazia era diventata di fatto uno Stato fascistoide, semi confessionale ed etnicamente quasi omogeneo. Ma soprattutto la Croazia diventava uno Stato davvero identitario, nell’accezione peggiore del termine. 

Uno Stato in cui qualsiasi “diverso” è un nemico: altre etnie, chi abbia un pensiero politico non allineato a quello dominante, altre religioni, ecc. In Croazia i “diversi” soffrono uno stato di soggezione e marginalizzazione – si sentono sotto costante minaccia – per molti le strade percorribili sono sostanzialmente due: l’emigrazione o l’assimilazione (cioè la rinuncia della propria cultura per assumere quella dominante). Infatti, da dopo l’indipendenza, la popolazione complessiva della Croazia è in costante riduzione mentre aumenta la percentuale di croati a discapito delle altre etnie. 

Un fenomeno riguardante pure la comunità italiana che dai primi anni ’90 ha subito una grave e costante riduzione. Questa comunità non fu vittima di pulizia etnica durante la guerra, sia perché l’Italia non lo avrebbe potuto permettere, sia perché è inverosimile pensare che l’aiuto offerto dall’Italia alla Croazia non avesse una contropartita nella protezione della minoranza italiana. Comunque le statistiche confermano che ancora oggi la comunità italiana in Croazia si riduce sempre di più e anche in questo caso per emigrazione o assimilazione. Molti degli italiani in Croazia si sentono stranieri e marginalizzati, incompatibili con uno Stato identitario, per ciò spesso preferiscono o andare a vivere in Italia o rinunciare alla propria identità per sposare quella croata. 

Questo scenario è estremamente triste e abbastanza noto, il frutto avvelenato delle manovre geopolitiche e imperialistiche delle forze Euro-Atlantiche a cui l’Italia non si è opposta. Ovviamente esistono delle organizzazioni che curano gli interessi degli italiani in Croazia, ma qui non si vuole entrare nel merito di questi gruppi e tanto meno degli orientamenti politici loro e dei loro componenti. Qui si vuole riflettere su un aspetto che non è stato adeguatamente indagato, cioè la contraddizione che in quel frangente esplode in seno alle forze politiche europeiste italiane: hanno appoggiato un progetto geopolitico che ha leso la comunità italiana in Croazia. Nella Croazia indipendente che l’Italia ha contribuito a costruire non c’è spazio per i “diversi”, quindi neanche per gli italiani, è una comunità destinata a scomparire anche per colpa dell’Italia.

Come detto, all’inizio degli anni ’90 il mondo fu sconvolto da enormi cambiamenti, la NATO andava a ridefinire le proprie funzioni e in Europa si accelerò sul processo d’integrazione ad egemonia tedesca. In questo quadro si colloca la destabilizzazione della Jugoslavia. La ricostruzione di quegli anni necessita anche di uno sguardo alle vicende italiane. L’Italia si presentava fiaccata al tavolo di trattative europee in quanto subì una durissima speculazione finanziaria ad opera, tra gli altri, di quel George Soros che si stava impegnando nella distruzione della Jugoslavia. La cosiddetta “Prima Repubblica” era tramontata e sulla scena politica si presentarono nuovi protagonisti. Altre forze politiche si riciclarono tramite metamorfosi: il PCI diventava PDS e il MSI diventava AN. Questi ultimi partiti fecero delle svolte con cui si candidavano a divenire forze di Governo sposando ciecamente la causa europeista. 

In definitiva il processo d’integrazione europea proseguiva a tappe forzate e tutta la classe di governo italiana ne era espressione. Il destino della comunità italiana in Croazia era un problema che praticamente nessuna forza politica aveva intenzione d’affrontare. Tuttavia i dati demografici erano inoppugnabili, la comunità italiana si stava riducendo e il clima nel Paese era ostile a tutte le minoranze. Per questo nel 1996 si cercò di correre ai ripari firmando un trattato bilaterale con cui si sancì che “la Repubblica di Croazia prenderà le misure necessarie per la protezione della minoranza italiana”: le persecuzioni contro gli italiani non ci furono, ma la comunità era comunque destinata a sparire; con il nuovo corso croato era inevitabile. Per le forze di Governo italiane era una contraddizione insanabile, uno scandalo che avrebbe potuto avere conseguenze politiche inimmaginabili.

In questo contesto in Italia repentinamente irruppe con vigore la questione delle Foibe: un coro trasversale di politicanti, giornalisti e “storici” di dubbia serietà iniziarono a raccontare che gli italiani in Croazia erano stati sterminati da Tito. Ovviamente anche la Slovenia venne trascinata nella vicenda, ma con minor enfasi. 

Nel dibattito politico italiano la questione delle Foibe è stata assolutamente marginale per circa mezzo secolo (fino agli anni ’90), salvo poi farla diventare di forza un tema politico centrale. Per giustificare questo cambio di registro venne inventata di sana pianta una fantomatica “congiura del silenzio” basata su argomentazioni grottesche. Infatti fino agli anni ’90 la questione delle Foibe era stata nota e dibattuta, ma per quello che realmente era, verosimilmente dandogli anche una corretta quantificazione. 

Successivamente c’è stato un vero e proprio impazzimento collettivo, con una sorta di macabra gara a chi raccontava la versione più tetra: senza alcun riscontro, e in spregio di ogni seria ricerca storica, venivano proposte cifre in libertà. Particolarmente interessante è stata la risposta scatenata dall’apertura del dibattito sulla bontà della “ricostruzione storica”: reazioni feroci e isteriche. Un qualcosa di smisurato e oltremodo scomposto per quelli che erano ormai – dopo tanti anni – i termini della vicenda. La questione delle Foibe, infatti, era improvvisamente  diventato il più caldo tra tutti gli aspetti della Seconda Guerra Mondiale. 

Dato che tutto ciò non era imputabile a novità di rilievo – non c’era stata alcuna scoperta di nuove fonti – sorse da subito il dubbio che dietro la questione delle Foibe ci potesse essere dell’altro, un qualcosa che tuttavia non si manifestava palesemente e che non si riusciva a cogliere. Ma soprattutto, risultava difficile credere che quel qualcosa di cui si sospettava l’esistenza potesse davvero essere relativo a dei fatti avvenuti negli anni ’40. Serpeggiò insomma subito il dubbio che si potesse trattare di qualcosa di più recente. A tal riguardo sono state formulate diverse ipotesi, in vario modo collegate all’evoluzione degli assetti politici interni e internazionali di quegli anni o a varie forme di opportunismo e trasformismo. Sicuramente si tratta di letture che trovano numerosi riscontri, tuttavia non riescono ad essere esaustive.

Collegando i vari eventi viene quindi da chiedersi se, da dopo gli anni ’90, la questione delle Foibe possa essere stata usata in Italia come “arma di distrazione di massa”, cioè per nascondere all’opinione pubblica un tema ben più attuale qual è la salvaguardia della comunità italiana in Croazia. Si è fatto passare il messaggio che le Foibe siano state il genocidio degli italiani nei Balcani. Si vuole far credere che gli italiani in quelle terre furono o massacrati da Tito o costretti alla fuga (con l’Esodo Giuliano Dalmata). Cioè, viene diffusa una narrazione da cui è completamente rimosso il fatto che, dopo quegli eventi, ci fosse ancora una consistente comunità italiana nei Balcani

La rimozione potrebbe non essere casuale, ma collegata al fatto che negli anni ’90, in Italia, si era deciso di svincolarsi dalla comunità italiana in Croazia (e di voltarle le spalle, concedendo qualche mancia come “buonuscita”). Una volta cambiati i termini della questione, l’Italia non era tenuta ad intervenire, perché per l’opinione pubblica il problema non esisteva più

Spostando artificiosamente agli anni ’40 l’estinzione della comunità italiana in Croazia, automaticamente veniva assolto chi dagli anni ’90 in poi è stato complice nel segnarne il destino: il tradimento è arrivato proprio da chi si presentava come suo paladino.

Ovviamente si tratta di vicende estremamente complesse, che è difficile poter trattare con esaustività in spazi brevi e su cui pochi sono disponibili al confronto. Abbiamo tutti il dovere morale d’indagare sul nostro passato (anche sul più recente), per rendere giustizia alla verità, alla memoria storica e alle vittime.

Certamente non si possono escludere altre concause, ma l’ipotesi di lettura della questione delle Foibe qui esposta è particolarmente innovativa e spinosa, si inserisce nel più ampio dibattito sul delicato tema del Confine Orientale. L’importanza della vicenda non è solo nell’interesse storico o politico, si tratta di un qualcosa di concreto e impellente. 

Il destino della comunità italiana in Croazia è un tema estremamente serio, che non può essere risolto con qualche regalia, va affrontato politicamente. Ma è altrettanto importante fare piena luce su tutte le vicende del Confine Orientale, anche qualora – sia dal passato remoto che da quello più prossimo – emergano verità scomode. Ora la priorità è capire se la questione delle Foibe venga strumentalmente utilizzata per coprire delle scelte scellerate: il sacrificio della comunità italiana in Croazia sull’altare dell’integrazione europea.

 

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