Jugoinfo


CAPITALISMO REALE (CONTINUA...)


www.resistenze.org - popoli resistenti - romania - 21-10-13 - n. 471

Il 70% dei romeni non va dal medico perché non ha soldi per pagarlo

Jose Luis Forneo | imbratisare.blogspot.com.es
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/10/2013

Afferma il canale informativo Antena 3: solo il 30% dei rumeni va dal medico quando si sente male, e il 70% non lo fa perché non ha i soldi per pagarlo. In ogni caso, attendono fino a quando la malattia diventa grave e possono essere trattati gratuitamente presso i pronto soccorso.

Si tratta di un'altra conseguenza della barbarie capitalista, che ha convertito la sanità rumena, come il resto dei servizi pubblici e dei diritti umani, in un affare per pochi e una catastrofe per la maggioranza.

In Romania, la sanità è teoricamente gratuita se si lavora, anche se al di là di quanto è scritto sulla carta, i romeni in realtà devono pagare tre volte per la loro sanità. In primo luogo, con le tasse prelevate sul loro lavoro, che tuttavia non servono a molto. Anche se dovrebbero essere sufficienti, la verità è che il più delle volte non lo sono. I romeni devono pagare una seconda volta attraverso il nuovo COPAGO approvato di recente dal governo socialdemocratico, come disprezzo delle autorità politiche verso i cittadini, giacché i fondi di bilancio della sanità pubblica nella maggior parte dei casi non sono sufficienti a coprire i costi. Cioè, la maggior parte delle volte, il romeno ammalato, dopo aver pagato con il suo lavoro l'assicurazione sanitaria pubblica, deve pagare per il costo di bende, aghi, maschere e anestesia dopo la sua operazione o cura, con l'argomentazione che gli ospedali o centri sanitari sono a corto di soldi.

La cosa non si ferma qui. La corruzione generalizzata del sistema medico romeno fa si che i lavoratori, che ricordiamo guadagnano in media circa 300 euro al mese, ma che per una grande parte di loro è inferiore ai 190, devono pagare in nero un salario extra a medici, infermieri, assistenti e anche custodi ospedalieri, se vogliono essere operati, e tutto questo, naturalmente, con la conoscenza dei direttori ospedalieri e, naturalmente, dei ministri della sanità di turno, che siamo convinti (perché non può essere altrimenti) intascano anche loro la loro parte, formando una rete mafiosa tipica delle dittature del capitale, dove la teoria della porta girevole, che definisce la simbiosi tra classe politica e mafia imprenditoriale, è onnipresente.

In ultima analisi, dei circa 20 milioni di romeni che formano la popolazione attuale del paese, 14 milioni non accede alla "assistenza sanitaria gratuita" perché non gli bastano i soldi. E tutto questo, naturalmente, con l'interessata riluttanza delle autorità politiche e il continuo sfregamento di mani dei loro sodali delle grandi imprese sanitarie. In realtà, il capitalismo, oltre alla povertà, la sottomissione e l'infelicità, ha portato ai lavoratori romeni l'obbligo di subire la malattia fino a quando la sua gravità diventa insopportabile.

Dopo, immaginiamo, penseranno a cosa viene insegnato nelle scuole per farci rassegnare a vivere in "questa valle di lacrime": è la volontà di dio. Nel frattempo, alcuni grandi criminali economici, che credono solo in un dio, il denaro, continuano a vivere nel paradiso terrestre a scapito della ricchezza di coloro che sono stati condannati all'inferno due decenni fa.




Vera e falsa critica del negazionismo

0) Link consigliati
1) "Dall'Olocausto alle Foibe il negazionismo sara' reato"
Tripudio della lobby neo-irredentista per il nuovo progetto di legge che mira a colpire la libertà di ricerca, di insegnamento, di espressione e di pensiero
2) Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale
Durissima, opportuna presa di posizione della Giunta delle Camere Penali contro il nuovo progetto di legge 
3) Martino Cervo su Libero: “Il reato di negazionismo è follia” 
Più lucidi a destra che a sinistra? La battaglia contro l'introduzione del nuovo reato è una battaglia per i diritti elementari
4) FLASHBACKS:  
* CONTRO IL NEGAZIONISMO PER LA LIBERTÀ DI RICERCA (2007)
L'appello degli storici, completamente obliato. Dopo 6 anni, si precipita all'indietro...
* Condanna dell'ebreicidio e condanna delle infamie coloniali del Terzo Reich
di Domenico Losurdo - da l'Ernesto rivista comunista, n. 1-2 2007


=== 0: LINK CONSIGLIATI ===

L'iniziativa parlamentare recentemente rilanciata (dopo l'opportuno "blocco" della Legge Mancino nel 2007), con la quale si vorrebbe introdurre uno specifico reato di "negazionismo", ci trova in totale e completo disaccordo. E' una iniziativa molto pericolosa e suscettibile di prestare il fianco ad ogni abuso nella strumentalizzazione della Storia... Alle menzogne in campo storico si deve ribattere con gli argomenti, cioè con i fatti; la credibilità di chi "fa storia" si valuta con gli stessi strumenti di valutazione usati in altri campi scientifici ("peer review"), altrimenti abbiamo solo una "storiografia ufficiale" o "di regime" ovvero una "storiografia del più forte"... Altri sono i reati che dovrebbero essere considerati, ed in base ai quali si dovrebbe molto più spesso condannare e punire: è curioso invece che in Italia reati come quello di "incitamento all'odio razziale" o l'altro di "ricostituzione del partito fascista" siano applicati rarissimamente... 

La proposta di legge (che è poi un emendamento alla legge Mancino), primo firmatario Felice Casson:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/703064/index.html

Il problema, come al solito, non è solo italiano ma dipende da imposizioni incombenti a livello europeo. Sono iniziative liberticide che "lor signori" cercano di attuare da anni, con il preciso scopo di tappare la bocca alle interpretazioni non-ortodosse dei fatti attuali, più ancora che sui fatti del passato: una minaccia concretissima è che ad es. siano vietati i libri che abbiamo prodotto su Srebrenica, caso sul quale esistono già "pezze d'appoggio" giuridiche come le sentenze del "Tribunale" dell'Aia o le deliberazioni del Parlamento Europeo...

Il testo dello statuto della Corte penale internazionale di cui si parla nella proposta di legge:
http://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/romastat.pdf

EU proposes to send to jail those denying genocide in Africa or Balkans
February 2, 2007

Il problema, come al solito, non è solo italiano! La polemica sta infuriando ad esempio anche in Belgio, ed in Spagna:

La libertad de expresión del fascista
Ana Valero - 17 octubre, 2013

In Italia la questione sembrava essere stata chiusa, ragionevolmente, nel 2007. Da rileggere in proposito:

Negazionismo e Stato. La verità storica non s’impone per legge
Angelo d'Orsi (Storico, docente dell'Università di Torino), 24 gennaio 2007

La ricerca storica è ricerca scientifica
di A. Martocchia - su "La Voce" del Gruppo Atei Materialisti Dialettici di aprile 2007
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/sc/cusc7c08-001203.htm

CHI FABBRICA I NAZISTI?
Violenza nera, fascino del male e fallimento della Legge Mancino
di Wu Ming 1 - 3 dicembre 2006
http://www.carmillaonline.com/2006/12/03/chi-fabbrica-i-nazisti/

(a cura di AM per CNJ-onlus)


=== 1 ===

 
DALL'OLOCAUSTO ALLE FOIBE IL NEGAZIONISMO SARA' REATO - 17ott13

Chi negherà il dramma delle Foibe, così come la Shoah, rischierà oltre 7 anni di carcere. Lo prevede la   nuova norma anti negazionismo approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, che ora dovrà essere esaminata dall’aula. Chi istiga o fa apologia relativa a «delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, la pena è aumentata della metà. La stessa pena si applica a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità».

Poche righe che vengono associate comunemente alla Shoah ma che vanno a coinvolgere anche altre realtà. Foibe comprese. «Il testo della legge parla chiaro» conferma il senatore del Pdl, Carlo Giovanardi che, al pari del socialista Enrico Buemi, si è astenuto dopo che è stata bocciata la sua proposta di limitare la norma all’Olocausto, lasciando fuori altre questioni ancora aperte, tra cui quelle relative al confine orientale.

L’emendamento approvato dalla Commissione Giustizia del Senato va a modificare il codice penale e comporta una pena massima di sette anni e mezzo. La norma, presentata da tutti i gruppi e votata a larghissima maggioranza, va a modifica l’articolo 414 del codice penale, che riguarda l’istigazione a delinquere. Se qualcuno istiga a commettere reato la pena può variare da 1 a 5 anni, con l’articolo approvato in Commissione Giustizia si aggiunge un aggravio del 50% di pena da scontare nel caso l’istigazione riguardi atti terroristici o crimini contro l’umanità e nel caso si negazione di genocidi o crimini di guerra.

Il provvedimento è al centro anche di un caso politico-istituzionale: il presidente del Senato, Pietro Grasso, aveva avanzato la richiesta di approvare in sede deliberante il ddl, facendolo appunto diventare legge direttamente in Commissione senza il passaggio in aula. Ma il Movimento 5 Stelle ha detto no insieme a Buemi; quest’ultimo avrebbe prima minacciato le dimissioni («non si può fare carta straccia delle regole», ha dichiarato) salvo poi cambiare idea a favore della richiesta di Grasso. Troppo tardi, però, perché il provvedimento è tornato alla presidenza che ora dovrà convocare i capigruppo per calendarizzare l’esame del disegno di legge.

I grillini, tramite il senatore Maurizio Buccarella, hanno accusato Grasso di volere attuare un colpo di mano. «Noi vogliamo che decida il parlamento, l’Aula del Senato in un dibattito pubblico su una materia delicatissima e piena di rischi anche alla luce del testo oggi redatto» ha aggiunto l’esponente pentastellato. Grasso ha parlato di «occasione mancata» e ha spiegato che la sua richiesta era soltanto «il tentativo che un’iniziativa parlamentare fosse finalmente accelerata in un momento simbolicamente importante. Non ci siamo riusciti per la democrazia, adesso ne discuteremo in Aula».

Forti le critiche nei confronti del Movimento 5 Stelle, da Anna Finocchiaro (Pd), secondo cui i grillini «dicono no a tutto» a Renato Schifani (Pdl) che si rammarica di come « anche un disegno di legge di così grande civiltà, diventi strumento di un’incomprensibile lotta politica». «Sono convinto che sarà presto completato l’iter parlamentare» sostiene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui siamo di fronte a «una affermazione importante di attaccamento a principi di libertà e tolleranza». Secondo il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, la norma «rappresenta un importante strumento innovativo per tentare di arginare alcuni fenomeni di antisemitismo e di negazione di gravi fatti storici. Esistono infatti episodi del nostro passato storico la cui valutazione negativa è pacifica e non può essere messa in discussione, costituendo la base culturale, l’origine fondante della nostra democrazia. Ai fini dell’individuazione dei crimini, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, dovrà comunque sussistere - spiega Ferri - per la sussistenza del reato, una attività di apologia concretamente idonea a provocare la commissione di delitti da parte di altri».

Renato Schifani, presidente dei senatori del Pdl, l’approvazione del testo di legge in Commissione Giustizia «è un risultato di grande valore per il nostro Paese. Tanto più importante perché arriva alla vigilia di una giornata di enorme significato per le vittime della ferocia nazista. Da oggi in poi sarà impossibile negare l’evidenza di una tragedia che ha segnato drammaticamente il secolo scorso». Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione, sottolinea come «finalmente si recepisce quanto previsto dalla Convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e si contrasta il risorgere di una subcultura dell’intolleranza che ha generato violenza e morte».

La nuova legge che punisce il reato di negazionismo è, secondo il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, «una medicina contro gli spacciatori di odio. L’Italia si allinea ad altri 14 Paesi che hanno già normative simili - ha aggiunto davanti alla sinagoga della Capitale prima della cerimonia per i 70 anni dal rastrellamento nazista del Ghetto -. La nuova legge darà serenità agli ultimi sopravvissuti alla Shoah, che ieri alla notizia dell’approvazione hanno pianto».

Roberto Urizio
www.ilpiccolo.it 17 ottobre 2013


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http://www.camerepenali.it/news/5502/Al-negazionismo-si-risponde-con-le-armi-della-cultura-non-con-quelle-del-diritto-penale.html

16/10/2013

L'Unione critica aspramente l'introduzione in Italia del reato di "negazionismo", ennesimo, pessimo esempio di legislazione reattiva e simbolica.

Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale.

Dopo il femminicidio la Shoah, continua la deriva simbolica del diritto penale che fa del male, prima di tutto, proprio ai simboli che usa.
L'introduzione anche in Italia del reato di "negazionismo" era stata annunciata da più di un Ministro negli ultimi anni ma si era sempre arenata anche a seguito del diffuso dissenso da parte di storici e giuristi.
Ora l'ipotesi viene frettolosamente e pressoché unanimemente riesumata dalla Commissione Giustizia del Senato, con un emendamento che, oltre ad ampliare ed aggravare le ipotesi di apologia di reato, porterebbe ad introdurre nell'art. 414 del codice penale una sanzione per chi "nega crimini di genocidio o contro l'umanità".
Già vivificare una categoria di reati come quelli di apologia, che in una legislazione avanzata dovrebbero essere espunti, è operazione di retroguardia, ma inserire un reato di opinione, come quello che è la risultante della indicata modifica, è ancora più sbagliato.
La tragedia della Shoah è così fortemente scolpita nella storia e nella coscienza collettiva del nostro Paese, da non temere alcuno svilimento se una sparuta minoranza di persone la pone in dubbio o ne ridimensiona la portata. Anzi, proprio il rispetto che si deve al dramma della Shoah, e alle milioni di vittime innocenti che ha travolto, dovrebbe consigliare ai legislatori di evitare di trasformare il codice penale senza tener conto dei principi fondamentali del diritto moderno, abbandonando la via della risposta reattiva rispetto ai fatti di cronaca ed imboccando quella di un diritto penale minimo e costituzionalmente orientato.
Per contro, l'idea di arginare un'opinione - anche la più inaccettabile o infondata - con la sanzione penale è in contrasto con uno dei capisaldi della nostra Carta Costituzionale, la quale all'art. 21 comma 1 non pone limiti di sorta alla libertà di manifestazione del pensiero.
Ed il giudizio su un accadimento storico - per quanto contrastante con ogni generale e documentata evidenza o moralmente inaccettabile - in altro modo non può definirsi se non come un'opinione, che dunque non può mai essere impedita e repressa dalla giustizia penale: spetterà alla comunità scientifica rintuzzarla, ove sia il caso, e alla maturità dell'opinione pubblica democratica lasciare nell'isolamento chi la formula. A coloro che negano la Shoah bisogna rispondere con le armi della cultura, e, se si vuole, con la censura morale, ma non con il codice penale.
Del resto, anche un solo argine - benché eticamente condivisibile - all'esercizio delle libertà politiche (e tale è, prima fra tutte, la libertà di espressione) introduce un vulnus al principio che l'elenco di esse deve restare assolutamente incomprimibile: quell'elenco infatti, come diceva Calamandrei "non si può scorciare senza regredire verso la tirannide".

Roma, 16 ottobre 2013
La Giunta


=== 3 ===

http://www.blitzquotidiano.it/rassegna-stampa/mario-cervo-libero-reato-negazionismo-e-follia-1694610/

Martino Cervo su Libero: “Il reato di negazionismo è follia”

Pubblicato il 17 ottobre 2013 09.52


ROMA – “Il reato di negazionismo è follia” scriveMartino Cervo su Libero.  In questi giorni, al Senato, è stato depositato in Commissione l’emendamento che introduce nel codice penale il reato di negazionismo. “Un pasticcio” secondo Cervo.
Tocca dire grazie anche a Beppe Grillo e ai 5 Stelle, se il disegno di legge numero 54, composto da un solo articolo, che di fatto introdurrebbe il reato di negazionismo, avrà un iter  parlamentare «normale». Ci sono probabilmente rimasti male Giorgio Napolitano e Pietro Grasso, prima e seconda carica dello Stato. Il primo, celebrando il 70esimo del rastrellamento degli ebrei romani sotto il regime nazifascista, ieri mattina aveva lodato l’«esempio» del Parlamento italiano dopo il sì in commissione Giustizia del Senato, auspicando un rapido completamento dell’iter.
Quando 5 senatori (i grillini Maurizio Buccarella, Mario Giarrusso, Paola Taverna, Enrico Cappelletti e il Psi Enrico Buemi) hanno chiesto di far decidere tutta l’Aula, cambiando la natura dei lavori della commissione da deliberante a referente, Grasso ha parlato di «occasione perduta», avendo lui stesso impresso l’accelerazione dei lavori. Forse, invece, è un’occasione guadagnata per riflettere sull’opportunità di introdurre di fretta una cosa che assomiglia molto a un pasticcio. Non per una questione ideologica, ma pratica. La corale testimonianza di memoria celebrata ieri mostra che, grazie a Dio, l’Italia ha forti anticorpi contro il negazionismo, e che non può essere ridotta all’immagine di quattro signori a braccio teso a presidio della bara di un ex nazista.
Le leggi attuali (Mancino su tutte) permettono di perseguire chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio : razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Il punto è: negare il genocidio, la shoah, i crimini contro l’umanità, può diventare reato passibile di arresto? Non c’è il pericolo di istituire una «verità di Stato» che, oltre a complicare il lavoro degli storici, rischia con dei processi di trasformare in martiri sporadici dei cialtroni che diffondono idee impresentabili? Non solo sullo sterminio degli ebrei, ma sui gulag, sugli armeni, il libero dibattito non uscirebbe limitato? L’emendamento approvato in commissione prevede che l’articolo 414 del codice penale (che punisce l’istigazione a delinquere) sia esteso a «chiunque nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità».
La pena prevista al primo comma è la reclusione da uno a cinque anni. La dizione non è casuale: come si legge nel comunicato dei senatori proponenti, i tre tipi di crimini sono «definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale ». Il testo elenca tra i crimini di guerra: «cagionare volontariamente grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrità fisica o alla salute; distruzione ed appropriazione di beni, non giustificate da necessità militari e compiute su larga scala illegalmente ed arbitrariamente; privare volontariamente un prigioniero di guerra o altra persona protetta del suo diritto ad un equo e regolare processo; deportazione, trasferimento o detenzione illegale».
Come dovrebbe valutare un pm che si trovasse approvata questa legge l’affermazione secondo cui l’intervento sovietico a Budapest nel 1956 ha contribuito a «salvare la pace nel mondo»? Dovrebbe procedere contro chi dicesse che Solzenicyn ha «finito per assumere un atteggiamento di “sfida” allo Stato sovietico e alle sue leggi », e che in forza di questo «la sua espulsione può essere considerata » un fatto «più o meno “positivo”, che «qualcuno può giudicare la “soluzione migliore”»? Sono due scritti di Giorgio Napolitano, rispettivamente del 1956 e del 1974, poi dolorosamente corrette. Sempre ieri, Piergiorgio Odifreddi, il matematico e firma di Repubblica protagonista di un recente scambio epistolare con Ratzinger, ha avuto un «incidente». Un anno fa il paragone tra l’esercito israeliano e le SS delle Ardeatine gli costò il blog sul sito del quotidiano. Commentando il caso Priebke, ieri ha scritto: «Sulle camere a gas “so”soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato». Polemiche. In un contesto libero, che gli ha fatto piovere in testa critiche anche pesanti. Ma senza reati, perché dargli del cretino in campo aperto è molto meglio che vederlo dentro.


=== 4: FLASHBACKS ===

[ Pubblicato anche su "l'Unità" del 23 gennaio 2007. Su questo appello si veda anche:
Il dejà-vu del cosiddetto «DDL sul negazionismo»
di Wu Ming
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=14457#more-14457 ]

http://www.sissco.it/index.php?id=28

CONTRO IL NEGAZIONISMO PER LA LIBERTÀ DI RICERCA

Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l'esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria. Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell'attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l’eco. Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale (l'”antifascismo” nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l'inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l'idea, assai discussa anche tra gli storici, della "unicità della Shoah", non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.
L'Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative. 
La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all'odio razziale, all'apologia di reati ripugnanti e offensivi per l'umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.
E' la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.

Marcello Flores, Università di Siena
Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley
Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne
David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Bruno Bongiovanni, Università di Torino
Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza
Gustavo Corni, Università di Trento
Alberto De Bernardi, Università di Bologna
Tommaso Detti, Università di Siena
Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata
Maria Ferretti, Università della Tuscia
Umberto Gentiloni, Università di Teramo
Paul Ginsborg, Università di Firenze
Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa
Giovanni Gozzini, Università di Siena
Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II
Mario Isnenghi, Università di Venezia
Fabio Levi, Università di Torino
Giovanni Levi, Università di Venezia
Sergio Luzzatto, Università di Torino
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II
Giovanni Miccoli, Università di Trieste
Claudio Pavone, storico
Paolo Pezzino, Università di Pisa
Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza
Gabriele Ranzato, Università di Pisa
Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza
Mariuccia Salvati, Università di Bologna
Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze

Aderiscono anche:
Cristina Accornero, Università di Torino 
Ersilia Alessandrone Perona 
Franco Andreucci, Università di Pisa 
Franco Angiolini, Università di Pisa 
Barbara Armani, Università di Pisa 
Angiolina Arru, Università di Napoli L'Orientale 
Marino Badiale, Universita' di Torino 
Elena Baldassari, Università di Roma La Sapienza 
Luca Baldissara, Università di Pisa 

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Priebke, preti, suore, frati

1) Quando Priebke si nascose a Bolzano e lì attese i documenti falsi
di Davide Pasquali, su "Alto Adige" del 12 ottobre 2013
"... fu appoggiato in particolare da alcuni preti altoatesini come Johann Corradini di Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano ma anche dal vicario separazionista Alois Pompanin, che gli concesse il battesimo cattolico..."

2) Nazisti, la chiesa di Francesco faccia luce
di Alessandro Cassinis, su "Il Secolo XIX" del 15 settembre 2013 
"... sacerdoti come il croato Draganovic, il francescano Dömöter e l’ex cappellano militare Petranovic accoglievano a Genova i nazisti in fuga e li spedivano in America con documenti falsi..."

3) Sul libro di Uki Goñi "OPERAZIONE ODESSA":

* Argentina: dopo l'apertura degli archivi sui nazisti. Quei 47 dossier mancanti
di  Alvaro Ranzoni, su "Panorama" del 29/8/2003  
"... A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago Copello... Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI)..."

* Mi manda il Cupolone
di Giovanni De Luna, su "La Stampa" del 3/11/2003
"... la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano..."

* Priebke e l'"Operazione Odessa"
su "Liberazione" del 14-15/3/2004
"... Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di ritirare dal commercio il volume di Uki Goni "Operazione Odessa" (Garzanti). A chiedere il ritiro del libro era stato Erich Priebke..:"

4) DOSSIER DRAGANOVIC
fonti: GenovaNotizie, Wikipedia
"... tacita complicità, circa la copertura di criminali di guerra, fra i quali, oltre ad Ante Pavelic, figurano Stjepan Hefer, che raccoglie l’eredità di Pavelic alla guida del Movimento per la Liberazione della Croazia, e altri come Ljotic, Nedic, Save Radonic (ministro della Giustizia e uno capi separatisti del Montenegro). A tutti questi personaggi venivano forniti falsi documenti d’identità, denaro e collegamento con la Spagna... Dal collegio di San Girolamo passano Steve Vujovic ministro separatista del Montenegro; Lazar Soskic capo della polizia del Montenegro; Stevan Ivanic direttore dell’Istituto di Igiene di Belgrado; il ministro del commercio Valiljevic; Marisav Petrovic, colonnello delle SS bosniache; i fratelli Vrioni, membri del governo filonazista albanese; Jusuf Kosovac, sicario per conto della polizia politica del governo collaborazionista montenegrino e albanese, già condannato a 20 anni per omicidio prima della guerra; Isa Noljetinac, capo della polizia nel governo collaborazionista albanese e responsabile di oltre 200 omicidi fra la popolazione serba di Pristina; tale dottor Hefer, ministro del governo Pavelic; i generali Vilko Pecnikar e Eugen Kvarternik, e altri ancora compresi nelle liste dei servizi segreti alleati come ricercati per crimini contro l’umanità e complicità con il Terzo Reich... Tutto questo dal proprio ufficio del collegio di San Girolamo, in collegamento con la commissione Pontificia per i Rifugiati diretta da padre Elias Ivica, con sede in via Piave a Roma, organismo ben visto dal movimento Ustascia..."

5) Reputazioni in calo 
di Felice Accame (Radio Popolare, 2008)
"... D’accordo che, Anatole France alla mano, la reputazione dei francescani, già alla fine dell’Ottocento, non era poi un granché... ma da qui a spiegare certe nefandezze ce ne corre..."


--- ALTRI LINK:

Sulle "Ratlines" e sulla organizzazione, frutto della collaborazione tra Vaticano e ustascia, per la fuga dei criminali nazisti, si veda la documentazione raccolta alla nostra pagina:
ed in particolare:
nonché
Le ratlines patrocinate da mons. Alois Hudal e da padre Krunoslav S. Draganovic per l’espatrio clandestino degli ex gerarchi nazisti e ustascia
di Giovanni Preziosi (2011)


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Quando Priebke si nascose a Bolzano e lì attese i documenti falsi


Durante la guerra la moglie e i figli del capitano SS vivevano a Vipiteno. Nella fuga lo aiutarono un parroco e il padre francescano Franz Pobitzer

di Davide Pasquali
12 ottobre 2013

BOLZANO. Erich Priebke ha almeno due legami con Bolzano. Il primo è un nome che si trasformò in tragedia. Il battaglione nazista decimato dai partigiani in via Rasella, in seguito al quale ebbe luogo la rappresaglia che portò all’eccidio delle Fosse Ardeatine, si chiamava proprio così: Bozen. Ma questa è poco più di una coincidenza.
La polpa sta altrove: Priebke per salvarsi alla fine della guerra passò, come tantissimi altri, almeno 150 grandi criminali di guerra, proprio dalla nostra provincia. Venne nascosto per mesi in una casa del centro storico del capoluogo e a Bolzano riuscì a farsi procurare i documenti falsi per poi potersi imbarcare per l’Argentina.
Dopo la sconfitta della Germania, infatti, il capitano fuggì da un campo di prigionia presso Rimini e si rifugiò in Argentina, a San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande argentine, dopo essere passato per Bolzano grazie all’assistenza dell’organizzazione filonazista Odessa.
Priebke fu appoggiato in particolare da alcuni preti altoatesini come Johann Corradini di Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano ma anche dal vicario separazionista Alois Pompanin, che gli concesse il battesimo cattolico, e fu aiutato nella sua fuga dalla rete di contatti gestita dal sacerdote croato Krunoslav Draganovic.
Questo era il poco che si sapeva fino a qualche anno fa. Prima che aprissero certi archivi, specie quelli della Croce Rossa. E prima che lo storico nord tirolese Gerald Steinacher andasse a ficcarci il naso come un cane da tartufo. Per sei lunghi anni. «Dal 1943 al 1948 - racconta Steinacher - la base di Priebke fu Vipiteno, dove fu aiutato dal parroco Corradini ma anche da padre Franz Pobitzer di Bolzano. Dal 1943 vissero a Vipiteno la moglie e i due figli di Priebke, che si trovava prigioniero a Rimini; quando nel 1946 fuggì dal carcere, Priebke raggiunse la sua famiglia a Vipiteno. Qui tra le altre cose si battezzò».
Un do ut des, per riuscire ad ottenere, grazie all’aiuto del clero compiacente, i documenti falsi per l’espatrio. Una storia che lascia stupiti, quella che riguarda Erich Priebke. Dopo aver ricevuto un documento di identità - secondo il quale era un direttore di albergo lettone, apolide, di nome Otto Pape - se ne stette bel bello a Bolzano per dei mesi, in attesa che gli venisse spedito il passaporto della Croce rossa internazionale. Il suo indirizzo? Via Leonardo Da Vinci numero 24. Si trattava di un piccolo edificio parte del vecchio ospedale.
Se ne sapeva niente, fino a pochi anni fa. Di lui, come di altri 30-40 mila fra collaborazionisti e personaggi minori del nazismo. Priebke non fu il solo pezzo grosso a transitare da qui, fra i silenzi e le connivenze. Per fare giusto due esempi, se ne scapparono indisturbati, grazie all’aiuto dei sudtirolesi, anche Josef Mengele e Adolf Eichmann. La Svizzera e l’Austria non possedevano porti. La Germania era occupata e controllata dagli Alleati; passare per la Francia non si riusciva; la Jugoslavia di Tito era impenetrabile, la Spagna troppo lontana. L’Italia era la via più semplice. Ma per raggiungere i porti, le vie possibili in pratica erano solo tre: passo Resia, passo del Brennero e gli alti passi pedonali della valle Aurina.


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Il Secolo XIX, 15 settembre 2013 

Nazisti, la Chiesa di Francesco faccia luce


di Alessandro Cassinis


Genova - Sono passati dieci anni da quando Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, tuonò dal pulpito della cattedrale di San Lorenzo contro l’inchiesta che questo giornale stava pubblicando sulla fuga dei nazisti da Genova in Argentina. A ferire il cardinale erano state le rivelazioni su alcuni sacerdoti che a Genova si erano comportati da angeli custodi di sterminatori come Mengele, Eichmann, Barbie, Priebke e il feroce capo degli ustascia Ante Pavelic. Tutti ospitati a Genova sotto falso nome e imbarcati sulle navi per Buenos Aires fra il 1947 e il 1951 lungo quella “via dei topi” che aveva nell’Argentina di Peron il capolinea dell’impunità.

«La Chiesa genovese acquisirà tutti i documenti necessari per stabilire la verità dopo che il maggiore quotidiano genovese ha riportato notizie che non ci risultano vere», disse allora Bertone. La pietra dello scandalo fu la domanda che l’inchiesta del Secolo XIX aveva reso ineludibile : sapeva l’allora arcivescovo Giuseppe Siri che sacerdoti come il croato Draganovic, il francescano Dömöter e l’ex cappellano militare Petranovic accoglievano a Genova i nazisti in fuga e li spedivano in America con documenti falsi?

Bertone nominò una commissione di saggi e promise un rapporto pubblico in tempi brevi. Dieci anni dopo Andrea Casazza, l’autore di quell’inchiesta, ha sondato alcuni membri della commissione. La verità è che non è stato fatto quasi nulla. Nessuna indagine. Nessun dossier.

Forse qualcuno sperava che il tempo avrebbe fatto calare la polvere su una pagina così oscura e inquietante del nostro passato. Ma la storia non si insabbia. Dieci anni dopo Il Secolo XIX torna a chiedere la verità sulla rotta della vergogna: quale fu il ruolo della curia genovese nella fuga dei gerarchi nazisti? Quali i patti con l’Argentina peronista e i servizi segreti americani? I sacerdoti coinvolti ricevevano ordini dall’alto? E da chi? chi forniva i documenti falsificati, le coperture, il denaro per la permanenza dei fuggiaschi a Genova? Sono domande che troverebbero una risposta soltanto se la curia genovese acconsentisse a rendere davvero pubblici i documenti di quegli anni, a cominciare dalle carte conservate nell’archivio personale di Siri.

Dieci anni dopo c’è un fatto nuovo, che riaccende la speranza di fare finalmente luce. Un papa argentino ha scelto il nome del poverello di Assisi e il suo linguaggio semplice e diretto. Ha ribaltato il vertice Ior e ha rinnovato la gerarchia vaticana mettendo fine, fra l’altro, al lungo regno di Bertone. Ha bollato l’ipocrisia come «il linguaggio della corruzione» e ha invitato i cattolici a essere «trasparenti come bambini». Ha ammesso, nella lettera a Eugenio Scalfari, «tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che [la Chiesa] può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono». Nella sua missione di testimoniare il Vangelo, il Papa può riaprire quel capitolo tragico, che offende un intero popolo perseguitato nei campi di sterminio, getta un’ombra incancellabile sulla sua Argentina, infanga Genova, città martire della guerra e avanguardia della Resistenza, e lascia un sospetto inaccettabile sul suo cardinale più illustre.

Francesco ci ha ricordato che bisogna parlare come insegna il Vangelo: «Sia il tuo dire sì sì, no no». Il resto sarebbe omertà.



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Uki Goñi
Operazione Odessa

Garzanti, 2003
ISBN 88-1169-405-1

in english: 

Uki Goni
The Real Odessa: How Peron Brought the Nazi War Criminals to Argentina

Publisher: Granta Books (23 Jan 2003)
448 pages - ISBN-10: 1862075522 / ISBN-13: 978-1862075528
http://www.amazon.co.uk/Real-Odessa-Brought-criminals-Argentina/dp/1862075522

excerpts online:
The Real Odessa: Smuggling the Nazis to Argentina
http://greyfalcon.us/The%20Real%20Odessa.htm

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Quei 47 dossier mancanti

di  Alvaro Ranzoni
su Panorama, 29/8/2003  

Molte delle carte sui gerarchi di Hitler accolti e protetti da Peron non si trovano più. Lo rivela il centro Wiesenthal, mentre un libro accusa apertamente la Santa sede.

Aspetteranno ancora per un po', poi quelli del centro Simon Wiesenthal, specializzato nella caccia ai criminali nazisti (2.500 nomi rivelati in 17 anni), torneranno alla carica con il presidente argentino Néstor Kirchner. Non è possibile infatti che dai meandri del vecchio Hotel de Inmigrantes, che custodisce gli archivi dell'autorità argentina per l'immigrazione, siano saltati fuori solo due dei 49 fascicoli richiesti, con la storia di soli 17 criminali di guerra sui 68 segnalati. Troppo poco, se si considera che di questi 17 ben 16, tutti ùstascia croati, sono contenuti in un unico faldone, mentre l'altro dossier venuto alla luce è quello di un criminale belga, Jan-Jules Lecomte, il borgomastro-boia di Chimay.

I primi torturarono e uccisero migliaia di serbi ed ebrei, il secondo si divertiva a scovare i bambini ebrei rifugiati nei monasteri per avviarli ai campi di sterminio. Non stelle di prima grandezza nella classifica dell'orrore, insomma. Non sono stati trovati finora i dossier che spiegherebbero come fecero ad arrivare in Argentina e da chi furono aiutati criminali del calibro di Josef Mengele, il medico che sperimentò le sue folli teorie su migliaia di vittime; Adolf Eichmann, il pianificatore dello sterminio degli ebrei, poi giustiziato in Israele; Klaus Barbie, il «boia di Lione»; Erich Priebke, responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, l'unico ancora vivo (novantenne, sconta l'ergastolo agli arresti domiciliari a Roma).

«Il nuovo presidente argentino ha promesso piena trasparenza» spiega a Panorama Sergio Widder, direttore della sezione di Buenos Aires del Centro Wiesenthal, «e noi non abbiamo motivo di dubitarne. Ma certo non ci accontenteremo di spiegazioni a mezza bocca su dossier smarriti o bruciati non si sa perché e non si sa da chi» aggiunge.
Quello che è emerso è comunque abbastanza sconcertante.

Subito dopo la guerra il dittatore Juan Domingo Peron, che vagheggiava una sorta di «Quarto Reich», aveva creato una rete perfetta per portare in Argentina i criminali nazisti ricercati dalle forze alleate.
Dal 1947 ai primi anni Cinquanta il terminale europeo di questa «rotta dei topi» fu Genova dove c'era uno speciale ufficio retto da un ex capitano delle Ss, Carlos Fuldner, amico di Peron.

Il terminale italiano era gestito in gran parte da religiosi. «A Genova operava, tra gli altri, un monsignore croato, Karlo Petranovic, dipendente dalla locale Curia e protetto dall'arcivescovo Giuseppe Siri (ma la Curia genovese smentisce, ndr).
A Roma un altro prete, Stefan Draganovic, fondatore della Confraternita di San Gerolamo, avviava i criminali nazisti verso il capoluogo ligure con l'attiva collaborazione del vescovo Aloys Hudal, rettore del collegio tedesco di S. Maria dell'Anima, e sotto la protezione del Vaticano.

A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago Copello. Tutto giustificato con la lotta al comunismo» spiega lo scrittore argentino Uki Goñi, autore del libro L'autentica Odessa, frutto di sei anni di ricerche, di cui Garzanti pubblicherà a febbraio l'edizione italiana.
Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI). È di Goñi la prima bozza dell'elenco che il centro Wiesenthal ha presentato al governo argentino.

Lo scrittore ha trascorso un anno negli archivi dell'Hotel de Inmigrantes, l'edificio che ospitò per i primi giorni molti dei 5 milioni di emigranti in Argentina e che oggi l'Associazione Italia-Argentina vorrebbe restaurare come sede delle aziende italiane a Buenos Aires. Ha rovistato tra centinaia di migliaia di cartoline di sbarco e su quelle dei personaggi più significativi ha trovato i numeri dei relativi dossier. Che però nessuno sa dove siano finiti.
http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001020528

Argentina: dopo l'apertura degli archivi sui nazisti



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LA STAMPA, 3/11/2003
Sezione: Cultura Pag. 16

LA FUGA DEI CRIMINALI NAZISTI VERSO L'ARGENTINA DI PERÓN:
UNA METIcOLOSA E DOcUMENTATA RIcOSTRUZIONE DELLO STORIcO UKI GOÑI 

OPERAZIONE ODESSA

Mi manda il Cupolone


Giovanni De Luna

Lo chiamavano il «Mengele danese», Carl Vaernet era un medico delle SS che sosteneva di aver scoperto una «cura» per l'omosessualità; nel 1944 Himmler mise a disposizione delle sue folli ricerche la popolazione del «triangolo rosa», gli omosessuali internati a Buchenwald. I malcapitati furono castrati e gli fu impiantato un «glande sessuale artificiale», un tubo metallico che rilasciava testosterone nell'inguine. Secondo i racconti dei sopravvissuti, i medici delle SS a Buchenwald raccontavano barzellette raccapriccianti su quel tipo di esperimenti. Vaernet era un pazzo sadico; inserito nella lista dei criminali di guerra, alla fine del conflitto riuscì a scappare sano e salvo in Argentina. E come lui migliaia di aguzzini nazisti tedeschi, fascisti italiani, ustascia croati, rexisti belgi, collaborazionisti francesi ecc.; tutti se la cavarono grazie a una rete di complicità mostruosamente efficiente e all'aperta connivenza del governo di Juan Domingo Perón. Un romanzo (Dossier Odessa) di Frederick Forsyth, raccontava di un gruppo di membri delle SS che dopo la sconfitta si erano raccolti in un'organizzazione segreta (Odessa, acronimo di Organisation der Ehemaligen SS-Angehorigen) che aveva il duplice scopo di salvare i commilitoni dalle forche degli Alleati e creare un Quarto Reich che completasse l'opera di Hitler. Per quanto romanzesca fosse la trama «inventata» da Forsyth, il suo racconto si avvicinava in modo inquietante alla realtà. Odessa esisteva davvero. Solo era difficilissimo ricostruirne la storia: i fascicoli del suo archivio erano stati distrutti in gran parte nel 1955, nel marasma degli ultimi giorni del governo di Perón; quelli che rimasero furono definitivamente buttati via nel 1996. Ma le tracce della sua attività erano troppo evidenti per essere cancellate del tutto. così ora, finalmente, grazie alla pazienza e all'abilità dello storico e giornalista argentino Uki Goñi (Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Perón, Garzanti, pp. 480, e.24) e lunghe ricerche in Belgio, Svizzera, Londra, Stati Uniti, Argentina, disponiamo di una storia completa della più incredibile operazione di salvataggio di migliaia di criminali mai progettata e mai realizzata in tutto il Novecento.
Diciamolo subito. Se l'Argentina di Perón era la «terra promessa», l'asilo già generosamente predisposto ancor prima che la guerra finisse, il cuore e il cervello dell'intera operazione Odessa era a Roma (dove Perón soggiornò dal 1939 al 1941), nel cuore del Vaticano. In quel turbinoso dopoguerra italiano era veramente difficile distinguere tra vincitori e vinti. Nazisti e fascisti avevano perso la guerra; eppure mai ai vinti mancò il soccorso dei vincitori, il sostegno di quelle istituzioni che sarebbero dovute nascere all'insegna dell'antifascismo e della democrazia e che invece erano ricostruite nel segno della più rigorosa continuità con i vecchi apparati del regime fascista. Fu l'anticomunismo, furono le prime avvisaglie della «guerra fredda» a spingere i vincitori a salvare i vinti.
Il Vaticano fu il motore di questa scelta. Ma veramente monsignor Montini fu il protagonista di questo intervento che garantì l'incolumità a criminali come Erich Priebke, Josef Mengele, Adolf Eichmann ecc.? E veramente il Vaticano fu il crocevia di tutta una serie di iniziative che puntavano a rimettere in piedi il movimento ustascia di Ante Pavelic per organizzare una guerriglia anticomunista contro la Jugoslavia di Tito? Sì, veramente. Già nel 1947 i servizi segreti americani avevano stabilito che «una disamina dei registri di Ginevra inerenti tutti i passaporti concessi dalla Croce Rossa internazionale rivelerebbe fatti sorprendenti e incredibili». Oggi la disamina di quei registri è possibile e Goñi l'ha fatta. E le sue conclusioni sono nette: la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano (quest'ultimo, argentino, nel 1960 espresse pubblicamente - «bisogna perdonarlo» -, il suo rincrescimento per la cattura di Eichmann da parte degli israeliani), mentre la dimensione operativa fu curata da una pattuglia di alti prelati, il futuro cardinale genovese Siri, il vescovo austriaco Alois Hudal, parroco della chiesa di Santa Maria dell'Anima in via della Pace a Roma e guida spirituale della comunità tedesca in Italia, il sacerdote croato Krunoslav Draganovic, il vescovo argentino Augustín Barrère. 
I documenti citati da Goñi sono molti e molto convincenti, da una lettera del 31 agosto 1946 del vescovo Hudal a Perón che chiedeva di consentire l'ingresso in Argentina a «5 mila combattenti anticomunisti» (la richiesta numericamente più imponente emersa dagli archivi) all'intervento di Montini per esprimere all'ambasciatore argentino presso la Santa Sede l'interesse di Pio XII all'emigrazione «non solo di italiani» (giugno 1946). Non si tratta di iniziative estemporanee e certamente la loro rilevanza storiografica non può esaurirsi in una lettura puramente «spionistica».
Un versante della seconda guerra mondiale trascurato dagli storici è quello che vede gli Stati latini, cattolici e neutrali, europei e sudamericani, protagonisti di vicende diplomatiche segnate però da un particolare contesto culturale e ideologico: nella cattolicissima Argentina (la Vergine Maria fu nominata generale dell'esercito nel 1943, dopo il golpe dei militari) ci si cullò nell'illusione di poter formare insieme con la Spagna e il Vaticano una sorta di «triangolo della pace», per preservare «i valori spirituali della civiltà» fino a quando la guerra in Europa continuava. Un progetto più ambizioso puntava a unire, con la leadership del Vaticano, i paesi dell'Europa cattolica, Ungheria, Romania, Slovenia, Italia, Spagna, Portogallo e Francia di Vichy per integrarli nel «nuovo ordine europeo» voluto dai nazisti; in quel periodo (1942-1943), in Sud America governi filonazisti esistevano già in Argentina, Cile, Bolivia e Paraguay: il disegno era di conquistare a un'alleanza in chiave antiamericana anche il piccolo e democratico Uruguay e il grande e cattolico Brasile. Questi disegni naufragarono tutti sotto il peso delle rovinose sconfitte militari dell'Asse ma furono l'humus ideologica da cui nacque nel dopoguerra la rete di «Odessa».
La centrale italiana operò soprattutto per il salvataggio degli ustascia di Ante Pavelic. Alla fine della guerra ce n'erano migliaia, sparsi nei vari campi a Jesi, Fermo, Eboli, Salerno, Trani, Barletta, Riccione, Rimini ecc. Una poderosa ricerca ora avviata dal giovane storico Costantino Di Sante sta facendo luce su una delle pagine più oscure di quel periodo. Si trattava di criminali macchiatisi di delitti che avevano suscitato orrore perfino nei loro alleati nazisti (che biasimarono «gli istinti animaleschi» dei croati): fucilazioni di massa, bastonature a morte, decapitazioni, per conseguire il risultato di uno Stato (la Croazia) razzialmente puro e cattolico al 100%. Alla fine della guerra circa 700 mila persone erano morte nei campi di sterminio ustascia a Jasenovac e altrove: le vittime appartenevano soprattutto alla popolazione serba ortodossa ma nell'elenco figuravano anche moltissimi ebrei e zingari. Il principale teorico del regime croato, Ivo Gubernina, era un sacerdote cattolico romano che coniugava le nozioni di «purificazione» religiosa e «igiene razziale» con un appello affinché la Croazia «fosse ripulita da elementi estranei».
Gran parte di questi criminali si salvò passando da Roma verso l'Argentina: la via di fuga portava a San Girolamo, un monastero croato sito in via Tomacelli 132. Parlando del loro capo, Ante Pavelic, un rapporto dei servizi segreti americani concludeva: «Oggi, agli occhi del Vaticano, Pavelic è un cattolico militante, un uomo che ha sbagliato, ma che ha sbagliato lottando per il cattolicesimo. È per questo motivo che il Soggetto gode ora della protezione del Vaticano». Alla fine, tra il 1947 e il 1951, secondo i dati raccolti da Di Sante, furono 13 mila gli ustascia che riuscirono a salvarsi usando il canale italoargentino.

copyright © La Stampa

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Priebke e l'"Operazione Odessa"

(fonte: Liberazione, 14-15/3/2004)

Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di ritirare dal commercio il volume di Uki Goni "Operazione Odessa" (Garzanti). A chiedere il ritiro del libro era stato Erich Priebke, nel quadro di una ampia offensiva giudiziaria che ha visto di recente l'ex ufficiale nazista proporre numerose istanze contro editori di quotidiani, riviste e libri presso diversi tribunali italiani. Nella sua motivazione, il giudice De Sapia ha rivelato che il capitolo del libro dedicato a Priebke «si caratterizza per una prevalente connotazione critica, fondata sulla condanna del predetto in relazione ai fatti delle Fosse Ardeatine. La valutazione certamente negativa che traspare dal testo è sostanzialmente fondata su tale evento, che da solo giustifica le conclusioni adottate nello scritto, con particolare riferimento alla fuga in Argentina per sottrarsi alla giustizia, che rappresenta il motivo di fondo del volume».


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4 dicembre 2010

Il Dossier Draganovic

E’ storia nota dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale in Italia, nonché del periodo immediatamente seguente alla fine delle ostilità: fra i principali organizzatori delle vie di fuga per criminali nazisti, fascisti e appartenenti al tristemente famoso corpo degli Ustascia


E’ storia nota dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale in Italia, nonché del periodo immediatamente seguente alla fine delle ostilità: fra i principali organizzatori delle vie di fuga per criminali nazisti, fascisti e appartenenti al tristemente famoso corpo degli Ustascia di Ante Pavelic (il quale aveva, fra gli altri, il singolare hobby di collezionare occhi umani…!), oltre ad agenti dei servizi segreti nazisti come Walter Rauff, Franz Rostel, Dieter Kersten, vi erano diversi religiosi: monsignor Alois Hudal, guida della comunità dei cattolici tedeschi, che non nasconde le simpatie per il nazionalsocialismo; padre Glavas, fanatico ammiratore di Hitler e confessore dello stesso Pavelic, e Krunoslav Draganovic, sacerdote e fervente fautore dell’unificazione religiosa (e politica) in Bosnia e Croazia.
Krunoslav Stepan Draganovic nasce il 30 ottobre 1903 a Brcko, in Croazia, da Pietro Draganovic e Maria Franci. Frequenta le scuole elementari e medie a Travnik quindi studia teologia a Sarajevo (dove entra nelle grazie del vescovo di Sarajevo Ivan Saric) e Vienna, diventa professore all’università di Zagabria e trascorre diversi periodi a Roma, all’Istituto Pontificio di Studi Orientali. Dopo aver lavorato anche agli archivi vaticani, diventa segretario privato di monsignor Saric, fervente simpatizzante del movimento Ustascia, di idee antisemite, il quale, dopo la dichiarazione di indipendenza della Croazia, ha una parte di primo piano nella campagna di conversione religiosa forzata ed è costretto a lasciare il paese nella primavera del 1945, con lo stesso Pavelic, Andrija Artukovic e altri leader del movimento.
Padre Draganovic, in ragione della profonda amicizia che lo lega ai più importanti capi Ustascia, diventa egli stesso ufficiale del corpo scelto di Pavelic nonostante vestisse l’abito talare, e prende parte a diverse operazioni di pulizia etnica contro i serbi della regione di Kozara. Per l’impegno e lo zelo con cui presta servizio, diventa ufficiale superiore del ministero per la colonizzazione Interna e responsabile di aver ordinato molti omicidi ed espulsioni forzate di profughi serbi, ebrei, rom, per affidare poi i territori liberati alla popolazione croata, oltre a favorire l’espansione del Terzo Reich.
Nel 1943 è inviato a Roma come rappresentante della Croce Rossa croata, in realtà per allacciare contatti in Vaticano da parte dell’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac nella cerchia di papa Pio XII. Nel 1945 è segretario dell’Istituto croato presso il collegio di San Girolamo degli Illirici, al numero 7 di via Carlo Alberto, sotto la protezione di monsignor Jurai Magjerec, dove organizza i rifugi per i capi Ustascia in fuga, primo fra tutti Ante Pavelic.
Il documento del Dipartimento di Stato americano redatto in base al rapporto del 12 febbraio 1947, a firma dell’agente Robert Clayton Mudd, elenca diversi criminali Ustascia, collaborazionisti albanesi, montenegrini e croati, nascosti in San Girolamo. E’ lo stesso Draganovic ad accogliere Pavelic a Roma e a nasconderlo per circa due anni, fino alla partenza per l’Argentina.
Nell’estate 1947 il sacerdote è avvicinato da agenti del controspionaggio austriaco, i quali gli propongono di mettere la sua esperienza al servizio degli americani, come era successo per il tristemente famoso Klaus Barbie, capo della Gestapo a Lione. Pare che, per “conto terzi”, Draganovic abbia avuto parte di primo piano nell’organizzazione del movimento Krizari (crociati), ideale continuazione degli Ustascia, coinvolti in atti di terrorismo in Jugoslavia nel 1947, e nella sparizione dell’oro accumulato da Pavelic.
La fonte è un comunicato del governo jugoslavo ripreso dalla agenzia Tanjug e quindi dalla Associated Press il 12 luglio 1948, nel quale si parla di cinquanta uomini processati a Zagabria per spionaggio e terrorismo, indicati anche come “agenti del Vaticano”. Durante le udienze viene fatto ripetutamente il nome di Draganovic fra i principali organizzatori della missione Krizari.
Molto attivo il capitano Krilic, corriere segreto per conto di Pavelic e segretario personale di Draganovic a San Girolamo, tramite il quale sono organizzate spedizioni di gruppi di tre persone, detti "trojke", per organizzare sabotaggi in Jugoslavia, via Austria, i cui confini sono tenuti sotto controllo da Urban Drago, altro ex Ustascia, e da un certo dottor Stambuk, stretto collaboratore di Draganovic.
Sarebbero stati oltre novanta gli agenti sabotatori inviati in Jugoslavia, membri di un non identificato “comitato per lo Stato croato”, ma fonti vaticane smentiscono che Draganovic fosse coinvolto in un complotto, tanto meno collegato ad ambienti pontifici.
Costretto a lasciare San Girolamo nell’ottobre del 1958, è nuovamente contattato dalla CIA con una vera e propria offerta di impiego. Secondo documenti ufficiali, Draganovic è regolarmente registrato sul libro paga dell’esercito USA fino al 1962, e pare sia stato impiegato anche dall’Intelligence Service britannico, dal KGB e dal servizio informazioni jugoslavo.
Riappare in pubblico a Belgrado il 15 novembre 1967, in occasione di una conferenza stampa nella quale sorprende tutti e denuncia gli atti criminali degli Ustascia, elogiando senza mezzi termini Tito.
Fonti vicine al movimento Ustascia dicono poi che sia stato rapito, ma lo stesso Draganovic afferma di essere rientrato in Jugoslavia volontariamente. Nei fatti, Krunoslav Draganovic vive tranquillo senza essere perseguito, fino alla morte, avvenuta nel 1983 in un monastero vicino a Sarajevo.
Alcuni quindi sostengono l’esistenza di contatti in Vaticano nella protezione o, se non altro, nella tacita complicità, circa la copertura di criminali di guerra, fra i quali, oltre ad Ante Pavelic, figurano Stjepan Hefer, che raccoglie l’eredità di Pavelic alla guida del Movimento per la Liberazione della Croazia, e altri come Ljotic, Nedic, Save Radonic (ministro della Giustizia e uno capi separatisti del Montenegro). A tutti questi personaggi venivano forniti falsi documenti d’identità, denaro e collegamento con la Spagna. Pare che il fondo monetario a disposizione dell’organizzazione ammontasse a oltre 50 milioni di lire dell’epoca.
Dal collegio di San Girolamo passano Steve Vujovic ministro separatista del Montenegro; Lazar Soskic capo della polizia del Montenegro; Stevan Ivanic direttore dell’Istituto di Igiene di Belgrado; il ministro del commercio Valiljevic; Marisav Petrovic, colonnello delle SS bosniache; i fratelli Vrioni, membri del governo filonazista albanese; Jusuf Kosovac, sicario per conto della polizia politica del governo collaborazionista montenegrino e albanese, già condannato a 20 anni per omicidio prima della guerra; Isa Noljetinac, capo della polizia nel governo collaborazionista albanese e responsabile di oltre 200 omicidi fra la popolazione serba di Pristina; tale dottor Hefer, ministro del governo Pavelic; i generali Vilko Pecnikar e Eugen Kvarternik, e altri ancora compresi nelle liste dei servizi segreti alleati come ricercati per crimini contro l’umanità e complicità con il Terzo Reich.
Oltre che coordinare l’attività di accoglienza dei responsabili Ustascia in Italia, Draganovic prende contatti con diversi rappresentanti d’ambasciata di paesi sudamericani, e anche con la Croce Rossa Internazionale per ottenere falsi passaporti. Tutto questo dal proprio ufficio del collegio di San Girolamo, in collegamento con la commissione Pontificia per i Rifugiati diretta da padre Elias Ivica, con sede in via Piave a Roma, organismo ben visto dal movimento Ustascia.
Stringe contatti anche con circoli politici austriaci, specialmente con il clero cattolico e alcuni stretti collaboratori dell’ex canceliere Schusschnig, nel frattempo rifugiatosi con la famiglia, aiutato dello stesso Draganovic, nel monastero di Borgo Santo Spirito, territorio protetto dalla extraterritorialità. Schusschnig mantiene poi contatti con l’arcivescovo croato Saric grazie all’azione di padre Draganovic e alla protezione di un ex ufficiale Ustascia, tale Ivankovic. E’ in rapporti anche con il vescovo di Salisburgo, Steinbach, e con il delegato britannico Haman, dai quali riceve informazioni, viaggiando fra Austria e Italia come corriere, nonchè direttive per coordinare l’attività e riferire al capo, Ante Pavelic e all’ex ministro Farkovic. 
L’agente dei servizi americani William Gowen, membro dell’Unità 430, è assegnato al caso fra il 1949 e il 1955, e ha condotto una capillare opera di sorveglianza di Ante Pavelic, predisponendone l’arresto a Roma, ma viene poi bloccato per un intervento diretto dei propri superiori, i quali avevano contattato Draganovic in Austria per esaminare la possibilità di organizzare, con il suo aiuto la fuga di Klaus Barbie e dello stesso Pavelic, che dopo un periodo di clandestinità a Roma, viene fatto fuggire a Buenos Aires. Le prove dell’attività di Draganovic esposte dall’agente Gowen, parlano di almeno cinque organizzazioni religiose finanziate dagli Ustascia a Roma, specialmente sull’Aventino, con attività di copertura come negozi di alimentari, posteggi e garages pubblici, appartamenti privati. Le cinque organizzazioni sono: il monastero di Santa Sabina dell’ordine domenicano, la scuola di Sant’Alessio per gli studi romani, la locale sezione romana dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, l’ordine benedettino di Sant’Anselmo, e un convitto di monache. Alcune strutture, vicine le une alle altre, erano collegate da tunnel sotterranei.
Nei documenti, un certo colonnello W.R.Philips fa menzione anche di due operazioni segrete, denominate Rusty e Odeum, compiute fra il 1946 e il ’49 dai servizi americani, più precisamente dall’Unità 7821 dipendente dall’ECIC (European Command Intelligence Center) in collegamento con il DAD (Department of Army Detachment) e con l’EUCOM (European US-Army Command). 
Nel testo si parla della Commissione Superiore per la Germania, ma riguardo a questa e all’EUCOM mancano molti dossier, come alcune determinanti prove per ricostruire lo scopo delle due operazioni. La partecipazione dei servizi segreti tedeschi pare comunque certa, come afferma nelle proprie memorie Kurt Merck, che agisce nel campo del mercato nero in Francia per conto della Gestapo durante la seconda guerra mondiale e che, dopo la resa tedesca, entra in contatto con lo spionaggio americano, svolgendo missioni in Austria e Germania, specialmente intorno all’ottobre 1949. Merck, che muore il 5 settembre 1951, parla di Klaus Barbie come di un “buon amico” grazie al quale sono conclusi molti vantaggiosi affari.
Tornando all’attività di Draganovic in Italia, nel rapporto B-4240 dell’ottobre 1946 redatto dagli agenti speciali del CIC (Counter Intelligence Corp) Anthony Ragonetti e Louis Caniglia, Draganovic è indicato come il personaggio chiave degli affari segreti della chiesa croata a Roma, più influente anche del suo superiore nominale, padre Dominic Mandjc, e che una delle sue guardie del corpo sarebbe stato Ljubo Milos, ex ufficiale del campo di concentramento di Jasenovac, poi arrestato e in seguito diventato uno dei personaggi di primo piano nell’opposizione al maresciallo Tito, ovvero i già citati Crociati (Krizari) fino all’arresto effettuato dalle autorità jugoslave, che lo condannano a morte.
Un altro rapporto del giugno 1948 collegato all’affare Barbie, redatto da Paul Lyon e Charles Crawford, agenti dalla Sezione 430 del controspionaggio americano in Austria, fa riferimento alla “Rat-Line” nella quale sono coinvolti gli stessi servizi d’informazione dell’esercito americano e, naturalmente, padre Draganovic, in una mutua assistenza nel quadro della politica di denazificazione dell’Europa voluta dagli alleati nell’estate 1947. Nel rapporto si parla di come Klaus Barbie sia stato affidato alle attenzioni di Draganovic e favorito nel trasferimento in Sud America.
Sempre l’agente Paul Lyon firma un altro rapporto che prende spunto dalla richiesta del governo francese nel 1950 per ottenere l’estradizione del capo della Gestapo di Lione, il quale pareva fosse nascosto nella zona americana di Berlino e protetto dal 66°Dipartimento di Sicurezza e controspionaggio dell’esercito USA, al quale faceva capo la già citata sezione austriaca 430. Paul Lyon ricostruisce l’allestimento della “Rat-Line”in Italia e Austria dall’estate 1947, quando anche il governo sovietico fa ufficiale richiesta per la restituzione di criminali ricercati in URSS. Parte dei documenti forniti per il transito attraverso l’Austria e altri ancora per l’entrata in paesi sudamericani, erano forniti proprio dall’agente americano Crawford, per avere via libera verso i porti di Napoli e Genova.


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Krunoslav Draganovic

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Padre Krunoslav Stjepan Draganovic (

(english / italiano.

Sulle assoluzioni "politiche" del "tribunale ad hoc", sulla lettera di denuncia del giudice Harhoff e sul suo successivo "impeachment" si vedano anche:

Sul carattere para-legale, fazioso e illegittimo del "tribunale ad hoc" si veda anche la documentazione raccolta alle pagine:



In che direzione sta andando il Tribunale dell’Aja?


Scritto da Sense Agency

 L’Aja 11/07/2013

La Corte per il processo Gotovina


“Presunzione di infallibilità”,questa è la definizione che descrive i giudici in assenza di un’ulteriore istanza di appello alle loro sentenze, ma che non li dovrebbe proteggere dall’opinione pubblica preoccupata e critica nei loro confronti, che protesta contro il “nuovo corso” che stanno intraprendendo negli ultimi mesi presso il Tribunale dell’Aja e ad Arusha negli ultimi mesi.

Ha fatto scalpore la lettera del giudice Harhoff, che però fa passare in secondo piano lo sconcerto e le proteste contro la piega che sta assumendo il Tribunale dell’Aja, che sono state sollevate prima del 13 luglio 2013, data della pubblicazione della lettera, e che han avuto molta eco sui media danesi e poi nel resto del mondo.

Nelle battute di apertura della lettera che ha mandato a 56 fra amici e colleghi il 6 giugno, Harhoff fa riferimento a due recenti articoli, che “mettono a fuoco eventi che han causato molta preoccupazione sia per me che per i miei colleghi del tribunale”. Tenendo presente le date, possiamo presumere che si riferisse all’articolo intitolato “Cosa accade al tribunale dell’Aja” di Eric Gordy, pubblicato sul New York Times il 2 giugno e un post intitolato “Due sentenze sconcertanti all’Aja”, firmato da T.J. e pubblicato il 1° giugno sul sito dell’Economist.

Se avesse aspettato un altro giorno a mandare la lettera, avrebbe potuto citare un’altra fonte, cioè quella scritta dall’ex assistente al Segretario di Stato USA John Shattuck, un provato e fedele amico del Tribunale, che prese parte alla sua creazione. Nel suo articolo “Crimini di guerra insabbiati”, pubblicato il 7 giugno sul Boston Globe, Shattuck afferma che “se la maggioranza dei giudici dell’ ICTY fosse stata al processo di Norimberga, pochi, anzi pochissimi, capi nazisti sarebbero stati incriminati”.

Contrariamente a chi dice che il problema è stato ingigantito dal giudice “talpa”, piuttosto che dal presunto cambiamento di corso che lo stesso poneva all’attenzione, non è stato il giudice Harnoff a introdurre al pubblico dibattito i recenti sviluppi del tribunale. Negli ultimi mesi, centinaia, se non migliaia di articoli e analisi sono stati pubblicati sulla direzione intrapresa dal Tribunale. Sono stati più severi della lettera di Harnoff.  Sono state firmate petizioni, richieste inchieste, chieste dimissioni senza che ciò abbia portato a dei risultati. Nemmeno uno dei pezzi grossi del Tribunale ha prestato attenzione a tutto ciò. “Sarà dimenticato”, hanno detto. Tuttavia non lo è.

Il dibattito su quanto accaduto fu lanciato lo scorso novembre, dopo la prima controversa sentenza che assolse i generali croati Gotovina e Markac grazie ad una maggioranza risicata di voti (3 contro 2). Le prime “salve” del dibattito furono sparate dai giudici Pocar e Angius, che non han tenuto toni moderati nell’esprimere la loro opinione contraria. Hanno definito la ricerca della maggioranza (giudici Meron, Robinson, Guney) come “semplicemente grottesca” e “in contraddizione con ogni senso di giustizia”, hanno poi affermato con schiettezza che la maggioranza è stata guidata da motivi differenti da quelli che concernono la tutela della legalità.

Il dibattito è proseguito ininterrotto, per divenire sempre più acceso dopo l’assoluzione del generale dell’esercito jugoslavo Perisic, fino ad infiammarsi dopo l’assoluzione dei capi dei servizi segreti serbi Stanisic e Simatovic. Si sono visti simili sviluppi al Tribunale del Rwanda che ha in comune le camere d’appello, e che è stato oggetto di polemiche e proteste sul nuovo corso assunto dopo le recenti sentenze.

Sta agli esperti di diritto internazionale, che si stanno occupando del caso dallo scorso novembre, analizzare e capire se il Tribunale sta veramente prendendo un nuovo indirizzo, chi ne trarrà beneficio e che impatto vi sarà per la giurisprudenza. In questa sede vogliamo solamente porre in rilievo alcuni casi lampanti, circa il volta faccia della giurisprudenza del tribunale dell’Aja e di Arusha. I fatti indicano che vi sono cose che non vanno.

Nel giro di un ristretto lasso di tempo pari a tre mesi e mezzo, dalla metà di novembre 2012 alla fine di febbraio del 2013, la camera di appello del Tribunale dell’Aja e di Arusha, guidato dal giudice Meron, ha cassato a colpi di maggioranza tre sentenze di condanna di cinque alti ufficiali militari e civili che erano stati condotti in giudizio per gravi violazioni dei diritto internazionale umanitario della Ex Jugoslavia e in Rwanda.

I tre processi sono durati complessivamente nove anni, con 900 sedute di tribunale. La corte ha dato udienza a 453 testimoni e ha esaminato migliaia di prove. La sentenza che ha stabilito che le responsabilità riportate dall’accusa erano state provate al di la di ogni ragionevole dubbio, così come indicato nelle motivazioni della sentenza lunghe 2608 pagine: 1377 pagine per Gotovina e Markac, 595 pagine per Mugenizi e Muginareza e 636 pagine per Perisic. I cinque accusati sono stati condannati a 24 anni (Gotovina), 18 anni (Markac), 30 anni (Mugenizi), 30 anni (Muginareza) e 27 anni (Perisic): totale 129 anni.

Successivamente, nel procedimento di appello, fu trovato che tutto ciò fu sbagliato e gli accusati sono stati prosciolti da tutte le accuse. Le sentenze di appello hanno rispettivamente 56, 55 e 49 pagine, e sono tra le sentenze più corte della storia. Alcuni giudici le hanno beffardamente commentate come “sentenze da rotocalco”.

Può esser vero che, come per le altre cose della vita, “non è la lunghezza ciò che conta”. Però a tutto c’è un limite. Per esempio, la sentenza d’appello del caso contro Florence Hartmann è lunga quanto quella di Gotovina e Markac. Nel caso di lei il procedimento di appello durò 22 mesi, tre mesi in più del caso contro i generali croati. Forse la camera d’appello ci mise più tempo data la natura peculiare del caso, dove la camera d’appello giocava tre ruoli: quella della presunta parte lesa, di procuratore e di giudicante. Forse è questo il motivo per cui ebbero bisogno di più tempo per scrivere e motivare la sentenza rispetto al caso dei due generali croati accusati di crimini di guerra contro civili Serbi durante l’operazione Storm nell’estate del 1995. Vogliamo semplicemente ricordare che il crimine della Hartmann fu quello di pubblicare il fatto che la Corte d’Appello di un tribunale che è sotto l’egida delle Nazioni Unite classificava come riservati una serie di documenti prodotti dal Consiglio Supremo di Difesa della Repubblica di Jugoslavia, rendendo per quest’ultimi impossibile l’utilizzo dinanzi ad un’altra corte delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, nel caso portato avanti dalla Bosnia Erzegovina contro la Serbia.

Torniamo ora alle sentenze cassate dai tribunali dell’Aja e di Arusha. Una domanda sorge spontanea: com’è possibile per nove giudici di tre collegi (per la precisione otto, perché un giudice voleva assolvere Perisic già in primo grado), com’è possibile per otto giudici di rango internazionale, commettere un così grave errore e condannare cinque innocenti per un totale di 129 anni? Come è possibile dopo che han speso ben 900 giorni di udienze ascoltando centinaia di testimoni e studiando migliaia di prove? Com’è possibile dopo che han speso milioni di dollari di tasse di contribuenti di tutto il mondo? Solo per la camera d’appello si può sommariamente concludere che gli sforzi e le conclusioni dei giudici di primo grado non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti?

E’ possibile che i giudici di primo grado dei tribunali dell’Aja e di Arusha, siano così privi di integrità e professionalità, così da poter scartare così alla leggera le lo ricostruzioni e le loro conclusioni? Chi ha dato loro l’incarico di giudici di livello internazionale, se davvero sono così inetti? Chi ha stabilito che loro avessero i requisiti previsti all’Articolo 13 dello Statuto, che stipula che “i giudici devono essere persone di alto valore morale, imparziali e integerrimi e devono avere i requisiti previsti nei loro paesi per poter esercitare il ruolo di giudice”? Chi di loro può ricoprire alti ruoli nella magistratura del proprio paese se poi le sue sentenze vengono fatte a pezzi in appello? Chi assegnerà loro nuovi casi, nuovi processi a giudici di così bassa reputazione? E per quale motivo? Per vederli umiliati un’altra volta in appello?

E’ possibile che vi sia una così alta differenza in termini di qualità, professionalità, integrità e temperamento tra i giudici di primo grado e di appello? Dopo tutto, fatta eccezione per una sentenza di condanna che fu revisionata dopo la sentenza d’appello, le sentenze della camera d’appello non vengono né revisionate né cassate. Se questo è dovuto all’infallibilità dei giudici d’appello o alla mancanza di un’istanza superiore, questo è ancora da chiarire. In assenza di ulteriore grado, i loro rilievi e le loro conclusioni sono protetti dalla “presunzione di infallibilità”.

Tuttavia, la “presunzione di infallibilità”, non deve essere per loro uno scudo che li metta al riparo da critiche e proteste contro “il nuovo indirizzo” che hanno progettato per il Tribunale dell’Aja e di Arusha.

 

Fonte: Sense Agency

Traduzione di Pacifico S. per Forum Belgrado Italia

 

 
 

THE HAGUE | 11.07.2013.

WHERE IS THE TRIBUNAL HEADING FOR?

Appellate judges at the Gotovina trial

 

“Presumption of infallibility”, enjoyed by the appellate judges in the absence of a higher instance for the review of their judgments, should not shield them against public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and in Arusha over the past few months

In a major upheaval following Judge Harhoff’s letter one tends to overlook the fact that public expressions of concern, criticism and protests against the Tribunal’s‘new course’ had been voiced long before 13 June 2013, when the letter was published, first in the Danish media and then worldwide.

In the opening lines of the letter that he sent to 56 of his friends and colleagues on 6 June, Harhoff refers to two recent articles, which ‘focus on events that cause deep concern both for me and for my colleagues here in the corridors of the the Tribunal'. Bearing in mind the dates, we can assume that he means the article entitled ‘What Happened to the Hague Tribunal’, an op-ed piece by Eric Gordy, published in the New York Times on 2 June and the blog post, ‘Two Puzzling Judgments in The Hague’, signed by T.J. and published on 1 June on the Economist’s website.

Had he waited for just one more day to send his letter, Judge Harhoff could have included another reference, the one to the piece written by former US Assistant Secretary of the State John Shattuck, a tried and tested friend of the Tribunal, who had taken part in its establishment. In his article ‘War Crimes Whitewash’, published on 7 June in the Boston Globe, Shattuck says that ‘if the ICTY majority had been sitting at Nuremberg, few, if any, Nazi leaders would have been convicted’.

Contrary to the claims made by those who believe that the problem lies with the first whistleblower judge rather than the change of the course he points to,it was not Judge Harhoff who launched the public debate about the recent developments at the Tribunal. Over the past few months, hundreds, if not thousands of critical articles and analyses on the Tribunal’s new course have been published. They were much harsher than Harhoff’s letter. Petitions have been signed, investigations called for, resignations demanded… yet to no avail. None of the top brass at the Tribunal has paid any attention to all that. ‘It will blow over’, they were saying. However, it has not.

The debate on what happens with the Tribunal was launched last November, after the first controversial judgment that acquitted Croatian generals Gotovina and Markač by a tight majority of votes (3:2). The initial salvoes in the debate were fired by judges Pocar and Agius, who did not mince their words in their dissenting opinions. They labeled the findings of the majority (judges Meron, Robinson and Güney) ‘simply grotesque’ and ‘contradict[ing] any sense of justice’, bluntly suggesting that the majority could have been guided by motives other than legal.

The debate has continued unabated, only to get more agitated after the acquittal of the former Chief of the VJ General Staff, Perišić, and to reach its boiling point with the acquittal of the former heads of the Serbian Secret Service, Stanišić and Simatović. There have been similar developments at the Rwanda Tribunal that shares both the Appeals Chamber as well as the concern and protests over the new course assumed following recent judgments.

It is up to the international law experts, who have been dealing with the issue since last November, to provide critical analysis in order to see whether the Tribunal indeed took a new course, who will benefit from it and what will be the impact of this new course on the Tribunal’s legal legacy. Here, we will merely highlight some glaring, easy to see facts, about the ‘volte-face’ in the jurisprudence of the Tribunals in The Hague and in Arusha. These facts indicate that there is something wrong with this picture.

In a short span of only three and a half months from mid-November 2012 to late February 2013, the Appeals Chambers of the Tribunals in The Hague and Arusha, led by Judge Meron, quashed by a majority vote three judgments convicting five high military and civilian officials who had been on trial for serious violations of international humanitarian law in the former Yugoslavia and Rwanda.

The three trials lasted for a combined total of nine years, or 900 trial days. The trial chambers heard a total of 453 witnesses and admitted into evidence thousands of exhibits. The trial judgments that found that the guilt of the accused had been proven beyond reasonable doubt, extended to a total of 2608 pages: 1377 pages for Gotovina and Markač, 595 pages for Mugenizi and Muginareza and 636 for pages Perišić. The five accused were convicted and sentenced to 24 years (Gotovina), 18 years (Markač), 30 years (Mugenizi), 30 years (Muginareza) and 27 years (Perišić): a total of 129 years.

And then, in the appellate proceedings, it was found that all this was erroneous and the accused were acquitted of all charges. The appellate judgments have 56, 55, and 49 pages respectively, and are among the thinnest judgments in the history of both tribunals (not only in volume). Some judges sneeringly describe them as ‘magazine judgments’.

It might well be true, just as for some other things in life, that it is not the ‘size that matters’ for appelate judgements. However, there should be a limit. For instance, the appellate judgment in the case against Florence Hartmann is as long as the Gotovina and Markač appellate judgment. In her case, the appellate proceedings took 22 months, three months longer than in the case against the Croatian generals. Perhaps the Appeals Chamber took more time to deal with it because of the peculiar nature of the case, where the Appeals Chamber played the triple role: that of an alleged injured party, the prosecutor and the trier. Perhaps that is why they needed more time to deliberate and produced a longer statement of reasons than in the case of the two generals charged with the war crimes against Serb civilians during and after Operation Storm in the summer of 1995. Let us justremind here that Hartmann’s ‘crime’ was to publish the fact that the Appeals Chamber of a UN court granted confidentiality to a set of documents produced by the Supreme Defense Council of the Federal Republic of Yugoslavia, thus making it impossible for them to be used before another UN court, the ICJ, in the case brought by Bosnia and Herzegovina against Serbia.

Let us go back to the quashed judgments of the Tribunals in The Hague and in Arusha. They beg the question: how is it possible for nine judges in three trial chambers (or, in fact eight, since one of the judges wanted to acquit Perišić at trial), so, how is it possible for eight professional international judges, to make such a grave mistake and put away five innocent generals and ministers for a total of 129 years? How is all of that possible after they had spent a total of 900 trial days hearing hundreds of witnesses and studying thousands of exhibits? How is it possible after they had spent untold millions of dollars of taxpayers’ money from all over the world? Only for the majority in the Appeals Chamber to summarily conclude that the efforts and the conclusions of the trial judges were worthless, not worth the paper they were printed on?

Is it possible that the members of the trial chambers of the two Tribunals, in The Hague and in Arusha, are so lacking in professionalism and integrity, that their findings and conclusions can be set aside so lightly? Who has appointed them as international judges, if they are really so inept? Were they appointed after they had pulled some strings ? Who looked at them and made a decision that they met the criteria set in Article 13 of the Statute, stipulating that ‘[t]he judges shall be persons of high moral character, impartiality and integrity who possess the qualifications required in their respective countries for appointment to the highest judicial offices’? What highest judicial office could be held by the judges whose judgments were so drastically torn to pieces on appeal? Who kept assigning new cases and new trials to the same judges who brought their profession into disrepute? Why? So that they could be humiliated on appeal again?

Is it possible that there is such a world of difference in terms of quality, professionalism, integrity and judicial temperament between the judges in the trial and appeals chambers? After all, with the exception of a single prison sentence that was revised following the appellate judgment, the appellate judgments still stand, unrevised and unquashed. Whether this is due to the infallibility of the appellate judges or to the lack of a higher instance for the review of their findings and conclusions… is an open question. In the absence of this higher instance, their findings and conclusions are protected by the “presumption of infallibility”.

However, the “presumtion of infallibility” should not shield them from public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and Arusha.

 

Da Sense Agency