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Chi ha voluto uccidere la Libia

1) E Giorgio Napolitano quando pagherà per il crimine contro la Libia? (Giorgio Cremaschi)
2) Libia, sette anni di sventura NATO (Manlio Dinucci)
3) Muoiono nel deserto i neri libici di Tawergha perseguitati dai “ribelli” della NATO (Marinella Correggia)
4) Napolitano va alla guerra (in Libia) (Marx21.itIl Fatto Quotidiano)
5) Libia, Saif al-Islam Gheddafi torna in campo? (Laurence-Aida Ammour)


Vedi anche: 

LE TANGENTI DI SARKÒ PER NASCONDERE LA VERITÀ SULLA GUERRA DEL 2011 (di Sergio Scorza, 27 marzo 2018)
... le tangenti di Gheddafi a Sarkozy, nel quadro appena descritto, appaiono solo come un dettaglio nella volontà di Sarkozy di ottenere l’uccisione di Gheddafi (...) la guerra alla Libia ebbe una matrice complessa e fu determinata da un progetto ben più ampio delle beghe personali di Sarkò. E poi va ricordato che l’ostilità palese di Parigi nei confronti degli interessi italiani in Libia non nacque con Sarkozy e non è venuta, di certo, meno con suoi successori...

LE PAROLE DELLA STORIA - MU'AMMAR GHEDDAFI (PandoraTV, 25 mar 2018)
In questo discorso, tratto dall'Assemblea della Lega Araba svoltasi in Siria nel 2008, l'allora leader libico Muammar Gheddafi pronuncia un discorso dal contenuto profetico sulla politica USA in Medio Oriente...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=CNEy0_r-IlU


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E Giorgio Napolitano quando pagherà per il crimine contro la Libia?

di Giorgio Cremaschi, 21/03/2018

L'arresto di Sarkozy, che tra l'altro ci mostra il carattere feudale della immunità da noi riservata agli ex presidenti della Repubblica, ha riscoperto il verminaio della guerra di Libia del 2011. Secondo gli inquirenti, nel 2007 Sarkozy avrebbe ricevuto ben 50 milioni di euro per la sua campagna elettorale. Eletto presidente anche grazie a quei soldi, egli avrebbe poi scatenato la guerra di Libia per torbidi motivi, tra i quali non si può fare a meno di considerare anche quello di mettere a tacere un creditore scomodo. E Gheddafi fu puntualmente giustiziato. 

Il 19 marzo del 2011 i jet francesi iniziavano i bombardamenti in Libia, senza alcun mandato formale dell'ONU, che si era limitata a condannare il governo libico. Ben presto Sarkozy riuscì a coinvolgere nella sua sporca guerra tutta la NATO e a tal fine fu decisivo il presidente italiano Giorgio Napolitano. 

Giorgio Napolitano è stato il peggior presidente della Repubblica e anche l'unico ad essere rieletto. Il che significa che egli ben rappresenta un'intera classe politica di destra e sinistra, responsabile dei disastri del paese. Napolitano sulla vicenda libica scatenò quell'interventismo prepotente che poi usò a dismisura nelle crisi economiche e politiche successive. Il presidente della Repubblica cominciò subito a pretendere che l'Italia scendesse in guerra. All fine convinse il capo del governo Berlusconi, che era recalcitrante, e ottenne, ma era scontato, la piena adesione del PD. Così l'Italia entrò nella sporca guerra, e il ministro della difesa La Russa offrì basi e aerei per l'impresa. Naturalmente tutta la grande stampa salì a bordo dei bombardieri, con la sua solita retorica da guerrafondai umanitari. 

Ora che la Libia non è più uno stato, ora che motovedette non si sa di chi minacciano di uccidere chi salva i migranti in mare, ora che il governo italiano paga i tagliagole perché fermino quei migranti nel deserto, i colpevoli della sporca guerra di Libia dovrebbero essere chiamati a risponderne. Giorgio Napolitano per primo dovrebbe andare sotto inchiesta, anche se a differenza di Sarkozy non rischierebbe nulla vista l'immunità. E con lui dovrebbero essere messi sotto accusa Berlusconi e tutti coloro che, più o meno convinti, hanno coinvolto l'Italia nell'intervento militare in Libia. Gran parte della classe dirigente colpevole di quella sporca guerra è stata punita dall'ultimo voto. È positivo ma non basta. Bisogna che si faccia piena luce su quella vicenda le cui conseguenze ancora paghiamo. Il parlamento faccia una commissione d'inchiesta e non lasci nulla di impunito, almeno politicamente. E i colpevoli, a partire da Napolitano, di aver trascinato il paese in una azione militare totalmente illegale, paghino per ciò che hanno fatto.


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Versione VIDEO: Libia, sette anni di sventura Nato (PandoraTV, 21 mar 2018)
Sette anni fa, il 19 marzo 2011, iniziava la guerra contro la Libia, diretta dagli Stati uniti prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, venivano effettuate circa 10.000 missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili. A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi...


Libia, sette anni di sventura Nato

L’arte della guerra. La rubrica settimanale a cura di Manlio Dinucci
su Il Manifesto del 20.03.2018

Sette anni fa, il 19 marzo 2011, iniziava la guerra contro la Libia, diretta dagli Stati uniti prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, venivano effettuate circa 10.000 missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili.

A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi.

Già prima dell’attacco aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali, in particolare qatariane. Veniva così demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo, registrava «alti livelli di crescita economica e alti indicatori di sviluppo umano» (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale). Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani..

Allo stesso tempo la Libia rendeva possibile con i suoi fondi sovrani la nascita di organismi economici indipendenti dell’Unione africana: il Fondo monetario africano, la Banca centrale africana, la Banca africana di investimento.

Usa e Francia – provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton – si accordarono per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane.

Demolito lo Stato e assassinato Gheddafi, il bottino da spartire in Libia è enorme: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, «congelati» nel 2011 su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Dei 16 miliardi di euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio, ne sono già spariti 10 senza alcuna autorizzazione di prelievo. La stessa grande rapina avviene nelle altre banche europee e statunitensi.

In Libia gli introiti dell’export energetico, scesi da 47 miliardi di dollari nel 2010 a 14 nel 2017, vengono oggi spartiti tra gruppi di potere e multinazionali; il dinaro, che prima valeva 3 dollari, viene oggi scambiato a un tasso di 9 dinari per dollaro, mentre i beni di consumo devono essere importati pagandoli in dollari, con una conseguente inflazione annua del 30%.

Il livello di vita della maggioranza della popolazione è crollato, per mancanza di denaro e servizi essenziali. Non esiste più sicurezza né un reale sistema giudiziario.

La condizione peggiore è quella degli immigrati africani: con la falsa accusa (alimentata dai media occidentali) di essere «mercenari di Gheddafi», sono stati imprigionati dalle milizie islamiche perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati.

La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che, nella traversata del Mediterraneo, provoca ogni anno più vittime dei bombardamenti Nato del 2011.

Perseguitati sono anche i libici accusati di aver sostenuto Gheddafi.

Nella città di Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, sterminando, torturando e violentando.

I superstiti, terrorizzati, hanno dovuto abbandonare la città. Oggi circa 40.000 vivono in condizioni disumane non potendo ritornare a Tawergha. Perché tacciono quegli esponenti della sinistra che sette anni fa chiedevano a gran voce l’intervento italiano in Libia in nome dei diritti umani violati?


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Muoiono nel deserto i neri libici di Tawergha perseguitati dai “ribelli” della NATO

di Marinella Correggia, 20 febbraio 2018

Fra i suoi innumerevoli crimini impuniti, l'operazione della Nato in appoggio a gruppi armati antigovernativi in Libia nel 2011 può annoverare una pulizia etnica in piena regola.
Durante quei mesi di bombardamenti, le milizie islamiste della città di Misurata uccisero diversi abitanti della vicina Tawergha, la città dei libici di pelle nera, diedero fuoco alle case e spinsero alla fuga bambini, donne, uomini, anziani. Circa 40mila persone. L'accusa? "Erano dalla parte del governo di Gheddafi".
I più fortunati riuscirono a riparare in Tunisia o in Egitto. Gli altri da anni sopravvivono in alloggi di fortuna: capannoni, tende nei parchi pubblici, ma anche baracche in aree desertiche. Sette anni passati invano, come ha appena denunciato l'incaricata dell'Onu per gli sfollati, la filippina Cecilia Jimenez-Damary, dopo una visita in Libia.
Le condizioni dei cittadini di Tawergha sono terribili da tutti i punti di vista e gli aiuti internazionali agli sfollati possono appena alleviarle.
Due uomini sono morti nelle tende per via delle temperature notturne vicine allo zero.
Il ritorno a casa dei deportati continua a essere bloccato dalle milizie di Misurata e dalle complici autorità locali dell'area, malgrado un accordo approvato dasl governo di unità nazionale. Il quale si dimostra del tutto inerte.
Niente sembra scalfire l'impunità legale della NATO e dei terroristi ai quali fece da forza aerea.
Per non parlare dell'impunità politico-morale di chi riuscì a chiamare "rivoluzionari", "bravi padri di famiglia", "partigiani" quei gruppi armati razzisti ed estremisti. Adesso c'è il silenzio.


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Napolitano va alla guerra (in Libia)

di Marx21.it, 12 Febbraio 2018

Il Fatto Quotidiano ricostruisce (10 febbraio, p.4) la riunione d’emergenza con la quale l’Italia ha deciso di partecipare alla guerra di aggressione alla Libia al fianco di Francia e Gran Bretagna.

È giovedì 17 marzo del 2011 e in una sala del Teatro dell’Opera di Roma, dove si tiene la rappresentazione del Nabucco diretto da Riccardo Muti per i 150 anni dell’unità d’Italia, il Presidente della Repubblica dell’epoca, Giorgio Napolitano, convoca una riunione d’emergenza, mentre è in corso all’Onu la discussione in merito alla risoluzione sulla Libia. Presenti, oltre al capo dello stato anche “ il premier Berlusconi, il suo consigliere diplomatico Bruno Archi, Gianni Letta, il presidente del Senato Renato Schifani, il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, mentre quello degli Esteri Franco Frattini era collegato da New York”. Alla riunione partecipa anche Guido Crosetto, all’epoca sottosegretario alla Difesa.

E sono proprio le dichiarazioni di quest’ultimo a fare luce su una vicenda drammatica della storia recente della Repubblica, dove in barba all’art.11 della Costituzione si è dato il via ad una guerra di aggressione che ha seminato morte e distruzione (anche con l’uso di uranio impoverito), gettando il paese nel caos, che ha coperto il brutale assassinio di Gheddafi, ha permesso ai tagliagole dell’Isis e di altri gruppi di fanatici di controllare ampie aree del paese e costretto l’Italia a perdere i ricchi contratti petroliferi in essere e a dover gestire – quasi da sola in Europa - il carico dell’immigrazione in partenza dalle coste libiche.

“Mi buttarono fuori dalla stanza quando dissi che la guerra in Libia era una pazzia totale, ne avremmo pagato le conseguenze. In quel momento chi ricopriva la più alta carica istituzionale in quella stanza mi fece accompagnare fuori, ma non dico il nome. Quel nome fu Giorgio Napolitano”. E continua: “Io ero sottosegretario alla Difesa e ho detto vivacemente che ero contrario all’intervento e poi ho ricordato anche le perplessità dello Stato maggiore: gli unici contrari alla partecipazione italiana all’intervento eravamo io e Silvio Berlusconi. A quel punto Giorgio Napolitano mi ha detto di andarmene perché non avevo titolo a stare lì. Insomma, mi ha buttato fuori”. Il Fatto precisa che “Il 9 Marzo, peraltro, Napolitano aveva già convocato un Consiglio supremo di difesa che aveva messo nero su bianco la disponibilità italiana alla guerra”. Ben prima, quindi della riunione formale.

Infine l’articolo si conclude puntualizzando due episodi. Primo: “Berlusconi - anche per la contrarietà della Lega - trovò la forza di resistere a metà: l’Italia partecipò alla missione Onu, ma non agli attacchi. Un mese dopo, però, il buon Silvio calò definitivamente le braghe dopo una telefonata di Obama che gli “consigliava” di partecipare alla guerra. Napolitano commentò: “È il naturale sviluppo della scelta compiuta a metà marzo” (quando lui cacciava le voci contrarie).” Secondo: “Prodi, invece, dopo ha sostenuto che “nel 2011 a Berlusconi hanno poi fatto pagare la Libia e l’amicizia con Putin...”.

Marx21.it è stata tra le poche voci critiche che si sono levate contro la partecipazione italiana alla criminale guerra di aggressione alla Libia, sostenuta anche dal governo Berlusconi. E naturalmente questa tardiva confessione di Crosetto non alleggerisce certo le responsabilità del governo italiano nell’aggressione contro uno stato sovrano che ha fatto sprofondare la Libia nel caos. Ma serve comunque a illuminare con una luce diversa il ruolo di Napolitano e a demolirne l‘immagine di “salvatore della Patria“ che l’apparato mediatico e molte forze politiche hanno cercato di costruire.

Sul Presidente emerito Giorgio Napolitano sono stati scritti diversi libri ed innumerevoli articoli. Certamente rimane l’esigenza – su un piano storico, ma ancor di più su quello politico- di un bilancio della lunga attività politica e dei risultati da essa conseguiti. Migliorista, è stato tra coloro che ha dato il contributo principale allo snaturamento – e successivo scioglimento - del più grande Partito Comunista dell’Occidente capitalistico. Primo uomo del PCI ad essere invitato negli Usa e riceverne il visto e uomo che nel suo ruolo da Presidente ha usato energicamente i suoi poteri per promuovere governi e “riforme”; bel oltre – dicono in molti- le sue prerogative istituzionali. Re Giorno, come viene appellato sui giornali, ha usato tutto il suo potere per spingere l’Italia in guerra con la Libia di Gheddafi, assecondare le intenzioni di guerra di Obama e stralciare gli interessi nazionali assoggettandoli a quelli europei. Un presidente “con l’elmetto”, che caccia i dissidenti dalle riunioni e non tiene conto delle perplessità dello Stato Maggiore della Difesa. Figurarsi dell’art.11 della Costituzione che, invece, proprio la Presidenza della Repubblica ha il dovere di rispettare e garantire.


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Libia, Saif al-Islam Gheddafi torna in campo?


Scarcerato a giugno 2017, dopo sei anni di detenzione in una prigione di al-Zintan (Gebel Nefusa) grazie alla legge di amnistia generale adottata dal Parlamento libico, Saif al-Islam Gheddafi ha subito fatto sapere che voleva giocare un ruolo nella futura Libia. Ha annunciato che si presenterà alle prossime elezioni presidenziali previste nel 2018, e che metterà in campo proprie milizie per una campagna militare contro i gruppi terroristi che imperversano nei dintorni di Tripoli (1).


di Laurence-Aida Ammour - Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement)

traduzione di Ossin
19/02/2018

La sua liberazione precede di pochi mesi la dichiarazione di Ghassan Salamé, inviato speciale dell’ONU in Libia da luglio 2017, secondo il quale il processo politico di ricostruzione deve coinvolgere tutte le parti, e le elezioni parlamentari e presidenziali devono essere aperte a tutti, in quanto « l’accordo politico (non è) proprietà privata di questo o quello. Dunque anche Saïf al-Islam e anche i fautori del passato regime, che io ricevo apertamente nel mio ufficio ». (2)

Saif al-Islam ha promesso di riportare la stabilità e la sicurezza nel suo paese, in accordo con le diverse fazioni politiche. A questo scopo, intende promuovere un programma di riconciliazione nazionale sulla base di una piattaforma elaborata da lui stesso nel periodo in cui era prigioniero, e che conta di sottoporre alle Nazioni Unite per organizzare il periodo di transizione politica. (3)

Qualche risorsa reale… 
 
Il suo primo punto di forza è di essere sostenuto dalle più influenti tribù libiche. A settembre 2015, molto prima della sua scarcerazione, Saïf Al-Islam era stato eletto capo del Consiglio Supremo delle tribù libiche, vale a dire rappresentante legale di tribù in maggioranza gheddafiane. Una decisione che dimostra la sua vicinanza ad attori imprescindibili della vita politica, in un paese dove le istituzioni tribali godono di un peso sociale formale e informale non trascurabile, e restano un fattore di stabilità. A dispetto del mandato di arresto della Corte Penale Internazionale (CPI) che vorrebbe tradurlo davanti alla giustizia internazionale per crimini contro l’umanità, questa assise tribale potrebbe giocare in suo favore nel duello in corso tra Khalifa Haftar e Fayez Al-Sarraj.
 
La tribù è considerata una componente essenziale della società libica e del sistema politico fondato più sulle alleanze tribali che sulle élite urbane. (4) Infatti le alleanze tribali hanno sempre consentito al governo libico di consolidare il suo potere e la sua potenza, anche se la fedeltà delle tribù è sempre stata fluttuante e occasionale: il colonnello Gheddafi stesso fu portato al potere da una giunta militare multi-tribale nel quale erano predominanti i Warfallah di Cirenaica e Tripolitania e i Meghara di Tripolitania, e questo gli ha consentito poi di dare risalto alla propria tribù, i Gheddafi (regione di Sebha). (5) Giacché la maggior parte delle tribù della Cirenaica restavano fedeli alla monarchia, il colonnello Gheddafi riuscì ad assicurarsi la fedeltà dell’est irredentista sposando una figlia del clan dei Firkeche, componente della tribù reale dei Barasa. (6)

Inoltre, sul piano finanziario, Saïf al-Islam avrebbe a sua disposizione 20 miliardi di dollari sfuggiti al sequestro dei beni di Gheddafi decretato dall’ONU, ammontanti nel complesso ad una fortuna familiare stimata in 300 miliardi di dollari.

La sua seconda risorsa sta nel programma di riforme economiche alle quali molti Libici erano e restano favorevoli. Egli è stato il promotore del processo di modernizzazione della Libia che portò ad una certa distensione con l’Occidente, e questo nonostante l’ostilità della sua famiglia. Ha realizzato una certa liberalizzazione del mercato per consentire all’economia libica l’apertura agli investimenti stranieri. Come notava nel 2011 un diplomatico statunitense: « Saïf al-Islam al-Gheddafi è davvero interessato a introdurre autentiche riforme in Libia, ma suo padre glielo impedisce. Muammar dice a Saif che, se continua a parlare di riforme, lo metterà da parte e nominerà al suo posto il fratello Qamis. E’ per questo che Saif ha improvvisamente cambiato registro e adesso minaccia i ribelli che la Libia non è né la Tunisia né l’Egitto, e che scorreranno fiumi di sangue se continueranno opporsi a suo padre. I rapporti tra Saïf e il padre peggiorano sempre di più. Qamis, che comanda le truppe di élite, è l’unico figlio sul quale Muammar può davvero contare. Saïf sembra essersi ritirato dalla scena anche se continua a fare delle apparizione nei media. E’ di umore scontroso e pensa che suo padre abbia sprecato un’opportunità storica di riformare il sistema per restituire vitalità al suo governo e guadagnarsi una legittimità popolare ». (7)

Avendo sempre difeso l’idea di una Costituzione, si era posto il problema di essere cooptato per acquisire la legittimità indispensabile a redigere questo testo. (8) Era favorevole alla nascita di media privati, e lui stesso fondò un gruppo mediatico, Al-Ghad, composto dalla prima emittente non governativa e dai due primi giornali privati della Libia.

A partire dal 2007, ha portato a buon fine il progetto di riconciliazione tra il governo e l’opposizione islamista attraverso la Fondazione Gheddafi per la Carità e lo Sviluppo, che dirigeva: fu avviato un dialogo col Gruppo Islamico combattente libico (GICL) per stimolare la de-radicalizzazione dei suoi membri. Nel giro di due anni di discussione, l’organizzazione jihadista ha corretto la propria visione religiosa in un « Codice » di 417 pagine intitolato Studi di rettifica nella comprensione del Jihad (9), nel quale i dirigenti del GICL riconoscevano che il ricorso alla lotta armata contro i correligionari – e dunque anche, all’epoca, contro il governo di Gheddafi – era contrario alla legge islamica, con l’unica eccezione dell’ipotesi di occupazione straniera. Per concretizzare la riconciliazione, ex elementi del GICL vennero cooptati nel gioco politico libico. Un simile mutamento di posizione è inedito in ambienti jihadisti.. Come contropartita, tra il 2009 e il 2011, il governo libico ha liberato quasi un migliaio di militanti del GICL – tra cui Abdelhakim Belhadj diventato nel 2011 governatore militare di Tripoli – detenuti nelle prigioni del regime, e Saïf al-Islam favorì l’indennizzo delle famiglie degli islamisti uccisi durante il massacro nella prigione di Abu Salim (1996). (10)

Convinto della necessità di avviare anche delle riforme politiche, contro l’opinione del padre, Saïf al-Islam aveva esposto le sue intenzioni in un discorso pronunciato durante la festa annuale della gioventù nel 2009: egli « ha implicitamente criticato le decisioni assunte dal regime di suo padre, ha auspicato cambiamenti profondi del sistema di governo, ha difeso il suo programma di riforme sociali, politiche ed economiche e ha dichiarato che intendeva ritirarsi dalla politica per concentrare la sua azione sulla società civile e lo sviluppo. Constatando che la Libia aveva sofferto una « stagnazione » nel periodo delle sanzioni, ha insistito sull’ambizioso programma governativo di sviluppo (…) Ha sostenuto la necessità di una società civile più forte, una riforma giudiziaria, un maggiore rispetto dei diritti umani, e maggiore libertà per la stampa » (11)

Tuttavia, di fronte all’opposizione di molti esponenti della sua famiglia, desiderosi di mantenere uno status quo politico, preferì ritirarsi dalla politica. Un telegramma diplomatico dell’epoca menziona questi disaccordi familiari come l’ostacolo principale ad una investitura da parte del padre: « Diversi avvenimenti recenti lasciano pensare he le tensioni tra i figli di Muammar Gheddafi crescano, e che Muatassim, Aisha, Hannibal, Saadi e forse anche la loro madre, siano alleati contro il potenziale erede, Saif al-Islam. Queste tensioni sembrano dipendere dal risentimento che provano per la popolarità di Saif al-Islam come personaggio pubblico del regime. (…) Disaccordi più profondi concernono, da una parte, le riforme politiche ed economiche proposte da Saïf al-Islam che potrebbero non conciliarsi con gli interessi familiari e, dall’altro lato, il modo in cui Saif al-Islam ha tentato di assumere il monopolio dei settori più lucrativi dell’economia ». (12)

Ad aprile 2011, nel pieno dell’intervento estero, il regime libico aveva accettato la road map proposta dall’Unione Africana (UA), di cui la Libia era uno dei maggiori contributori, che prevedeva l’immediata cessazione delle ostilità, il trasporto facilitato di aiuti umanitari, l’avvio di un dialogo tra le parti libiche e la sostituzione di Muammar Gheddafi con suo figlio Saïf al-Islam per promuovere una transizione politica. Ma la Francia aveva categoricamente rifiutato questa opzione.

La sua terza risorsa ha a che fare con la riattivazione delle reti filo Gheddafi in Libia e all’estero. Giacché per i Gheddafisti egli rappresenta l’unica figura politica capace di unificare la futura Libia. Per quanto alcuni di essi si siano avvicinati al maresciallo Khalifa Haftar dopo avere beneficiato dell’amnistia decretata dal Parlamento di  Tobruk, quelli rimasti fedeli a Saïf al-Islam sembrano meglio organizzati e non esitano ad esaltare l’immagine modernista e la buona educazione del loro leader durante le campagne di promozione.

Ha anche partigiani nella regione del Fezzan, in particolare il generale Ali Kanna Souleyman, un Tuareg fedele a Gheddafi ed ex capo delle forze armate del sud, con base a Ubari. Nel 2011, Ali Kanna era scappato in Niger, per rientrare in Libia due anni dopo, come il suo compagno di squadra  Ali Charif al-Rifi, ex capo dell’aeronautica militare, rientrato nel 2017, dopo sei anni trascorsi in Niger.

Kanna, che ha messo insieme un esercito del sud indipendente sia da Tripoli che da Tobruk, è pronto quando sarà il momento ad allearsi con chiunque riconosca la legittimità di un governo che si ispiri alla Jamahiriya. E’ stato nominato comandante delle « Forze armate della Libia del sud » da ufficiali gheddafisti nel 2016 (13)  L’ascesa del generale Kanna coincide manifestamente con il ritorno del gheddafismo in Libia, che guadagna sempre più terreno. Quindi, per rendere efficace il suo piano di accerchiamento di Tripoli, Khalifa Haftar avrà bisogno dell’appoggio dei gheddafisti del Fezzan, una regione strategica che ospita i campi di gas e petroliferi di Murzuch, Charara e al-Fil, controllati dalle truppe di Ali Kanna dal maggio 2017. Attualmente in posizione di forza, quest’ultimo – che avrebbe rapporti stretti coi Servizi di informazione algerini – è in grado di offrire a Saïf al-Islam, non solo una solida protezione personale, ma anche un vivaio di veterani armati capace di farne una forza politica nel sud (14).

Oltre le frontiere libiche, Saïf al-Islam beneficia del sostegno di ex militari o di alcune etnie che lo considerano un degno successore di suo padre e l’unica possibilità di un ritorno alla grandezza di un tempo. Tahar Dahech, ex responsabile dei comitati rivoluzionari internazionali con Gheddafi, oggi esiliato in Tunisia, diceva nel 2016 che, sia nella cerchia militare che tra i seguaci di Haftar o di Al-Sarraj, Saïf al-Islam dispone di sostenitori che si preparano al suo ritorno: « Non si deve dimenticare che Gheddafi è popolarissimo all’estero. Abbiamo gente pronta a tornare per darci una mano, soprattutto dai paesi africani. Senza contare tutti i Libici esiliati in Egitto, Tunisia e altrove, sono almeno tre milioni di persone molte delle quali sono con noi, perché hanno vissuto un’esperienza amara negli ultimi sei anni » (15).  Un altro gruppo di fedeli che si trova in Tunisia dal 2012 ed è guidato da un francese, Franck Pucciarelli, sostiene di poter contare su 20 000 aderenti in Libia e su 15-20 000 ex militari libici esiliati e pronti a rientrare nel paese.

Nelle zone tuaregh del Mali e del Niger, l’uccisio
ne dell’ex guida libica è stata vissuta come una catastrofe perché Gheddafi aveva realizzato colossali investimenti in favore di quelle popolazioni. Nonostante l’ambiguità di Tripoli nei loro confronti, oscillante tra discriminazione culturale e sostegno alle loro ribellioni, erano stati molti i Tuaregh che si erano rifugiati in Libia, soprattutto a partire dalla fine degli anni 1970. L’uccisione del leader libico ha dunque avuto un impatto diretto su quelli che vivevano e lavoravano in Libia da una trentina d’anni. Molti ex soldati tuaregh dell’esercito libico si dicono pronti a battersi per il gheddafismo, al punto che ancora oggi, ad Agadez, si possono vedere dei ritratti del leader defunto. (16)

In Niger, a luglio 2017, alcuni rifugiati libici hanno fondato un comitato di sostegno a Saïf al-Islam e sono appoggiati da Nigerini della società civile, soprattutto studenti. Fanno azioni di sensibilizzazione a favore del secondo figlio di Muammar Gheddafi, di suo padre e di quanto ha fatto per l’Africa. In Burkina Faso il leader libico continua a essere considerato come un benefattore che ha fatto costruire strade, centri sociali, orfanatrofi, università e centri di educazione femminile, e che ha finanziato il quartiere Ouaga-2000 nella capitale.

 … Ma anche enormi ostacoli

Il piano di azione, presentato a settembre 2017 da  Ghassan Salamé al Consiglio di sicurezza dell’ONU per preparare le elezioni presidenziali, prevede diverse tappe istituzionali, in particolare una grande conferenza di riconciliazione nazionale che dovrebbe offrire « a tutti i Libici l’occasione di trovarsi insieme, di rinnovare una narrazione nazionale comune, e di accordarsi sulle tappe necessarie per avviare la transizione » . Sono previsti anche un referendum sulla Costituzione e il varo di una legge elettorale. La Francia, che tenta di imporre le elezioni nella primavera 2018, rischia di vedere la sua iniziativa già rovinata agli occhi dei Libici, screditata dall’arresto a Londra dell’uomo d’affari Alexandre Djouhri, nell’ambito dell’inchiesta sui finanziamenti libici alla campagna presidenziale di Nicolas Sarkozy del 2007. Questi nuovi sviluppi potrebbero favorire i gheddafisti « che tentano di utilizzare questo dossier nella loro agenda libica, lasciando intendere – come fanno da sette anni – di avere le prove del finanziamento » (17) 
 
Se riuscisse a tornare sulla scena politica all’esito di elezioni trasparenti, Saïf al-Islam, uno dei dignitari dell’ex regime ancora in vita, (18) potrebbe tornare alla carica su questa vicenda. Nel marzo 2011, il clan Gheddafi aveva già minacciato rivelazioni, quando Parigi riconobbe il Consiglio nazionale di transizione come rappresentante legittimo del popolo libico. Saïf al-Islam chiese allora, in una intervista rilasciata a Euronews, che Nicolas Sarkozy « restituisse il denaro » che gli era stato prestato per finanziare la sua campagna del 2007.
 
Perché Saïf al-Islam non nasconde la sua intenzione di prendersi la rivincita sulla Storia se gli verrà data l’occasione. Ma a tre condizioni:
– di non essere vittima di interessi divergenti interni e/o esterni, capaci di bloccare la sua candidatura alla presidenza ;
– di non essere messo fuori gioco come suo padre da Stati stranieri o da gruppi armati libici che preferirebbero un governo libico debole ma docile ;
– che non venga screditato dai suoi nemici a causa del mandato di arresto internazionale della CPI.

Sul piano interno, la liberazione di Saïf al-Islam è ben più di una peripezia giuridica. Alcuni in Libia imputano la sua liberazione alle manovre del maresciallo Haftar che mirerebbe a consolidare la sua alleanza con le reti gheddafiste, con l’obiettivo di indebolire il governo di « unione nazionale » di  Tripoli. Infatti la sua candidatura potrebbe pesare sugli equilibri politico militari precari di un paese ancora debole a causa della rivalità tra i governi di K. Haftar (appoggiato dall’Egitto, la Russia e gli Emirati Arabi Uniti) e di Al-Sarraj (sostenuto dall’ONU e dalle capitali occidentali). Il ritorno di Saïf al-Islam potrebbe ben ridistribuire le carte della conquista del potere.

Quali prospettive ?

Ma la vera questione riguarda le elezioni presidenziali in un paese in pieno caos, dove la violenza irrora tutta la società. In altri termini, le elezioni possono essere un obiettivo in sé, o devono essere l’ultima tappa di una preventivo processo di riconciliazione su scala locale e nazionale?

I tentativi di negoziato tra i due campi rivali – tenutisi a Tunisi, a Algeri, al Cairo o a Brazzaville – non hanno migliorato in alcun modo la situazione sul campo. I libici sono sfiniti dalla violenza, dalla mancanza di sicurezza e dalle condizioni socio-economiche disastrose. L’apatia generale lascia presagire un disinteresse dei cittadini per elezioni che non cambieranno fondamentalmente niente dal loro punto di vista.

L’altra sfida importante sarà quella di garantire la sicurezza dei seggi in un paese in cui rapimenti e assassini sono diventati moneta corrente, come quello del sindaco di Misurata, Mohamed Eshtewi, il 17 dicembre scorso.

Infine, nel dicembre 2017, Khalifa Haftar ha unilateralmente decretato che l’accordo inter-libico di Skhirat (Marocco) del 17 dicembre 2015 era oramai decaduto e, con lui, anche il governo di Al-Sarraj. (19)

In un simile contesto, il processo elettorale che le capitali occidentale e le Nazioni Unite auspicano non sarà, ancora una volta, solo un miraggio democratico ? Non sarà solo un processo formale di cui l’Occidente ha il know how, escludente nei confronti del localismo tribale e incapace di arrestare la realtà di un conflitto africano se non attraverso le urne, lavorando sulle sue cause profonde? Perché le elezioni possono al contrario scatenare la violenza e sembrare un vettore di polarizzazione della società, come dimostrano tanti esempi in Africa.

Il riconoscimento da parte di Ghassan Salamé, al 30° summit dell’UA di gennaio 2018, della dimensione africana del conflitto libico cambierà qualcosa, quando nel 2011 la proposta di questa organizzazione a favore di una transizione politica in Libia venne puramente e semplicemente respinta dalla NATO e dalla Francia? (20)  L’Unione africana, che ha chiesto al Presidente francese di astenersi da ulteriori iniziative parallele in Libia, non dovrebbe più essere tenuta in disparte da interventi esteri, perché la stabilità e la sicurezza del Maghreb e di tutta la striscia del Sahel ne dipendono direttamente (21).
 

Note:
1. « Gaddafi’s son Saif al-Islam to run for Libyan presidency », Middle East Eye, 19 dicembre 2017.  
2. Ghassan Salamé, « Le processus politique en Libye est ouvert à tout le monde sans exception », France24, 22 settembre 2017. 
3. Hanne Nabintu Herland, « Could Muammar Gaddafi’s son Saif al-Islam Solve the Libya Crisis? », Foreign Policy Jounal, 10 febbraio 2017. 
4. Al punto che un centinaio di capi di tribù libiche venne invitato al Cairo nel maggio 2015 dal governo egiziano che temeva che il conflitto potesse debordare sulla sua frontiera occidentale.  
5. Tra il 1975 e il 1993, l’alleanza Gheddafi-Warfallah si è trasformata in vera forza egemonica che ha consentito ai Warfallah di infiltrarsi nelle istituzioni dello Stato, nell’amministrazione, nell’esercito, nelle strutture diplomatiche, di sicurezza e nei Comitati rivoluzionari. Vedi:  Mohammed Ben Lamma, La structure tribale en Libye: facteur de fragmentation ou de cohésion?, Observatoire du monde arabo-musulman et du Sahel, Fondation pour la Recherche Stratégique, luglio 2017. 
6. Tuttavia, nel 1993, Gheddafi sarà oggetto di un tentativo di colpo di Stato per mano dei potenti Warfallah, che furono poi i primi a sollevarsi nel febbraio 2011. 
7. Seif al Islam down, Khamees up in the battle of Ghadafi’s sons, Insight-Libya, 18 aprile 2011. 
8. Telegramma diplomatico: Unconfirmed report that Qadhafi promotes Saif Al-Islam in « secret » meeting, Ref ID: 09TRIPOLI805, Tripoli, 10/7/2009. 
9. GICL, Corrective Studies on the Understanding of Jihad, 2009. 
10. Tra il 1995 e il 1998, il GICL tentò di assassinare Gheddafi in tre occasioni. La repressione del regime in risposta a questa ondata di attentati fu particolarmente violenta: bombardamenti nella regione di Derna ; campagne di arresti massicci, e soprattutto il massacro di più di 1 200 detenuti della prigione di Abou Selim a Tripoli, nel giugno 1996.
11. Telegramma diplomatico : Saif Al-Islam Al-Qadhafi calls for further reform, threatens to withdraw from politics, Canonical ID: 08TRIPOLI679_a, Tripoli, 28 agosto 2008. 
12. Telegramma diplomatico : Libya’s succession muddled as the al-Qadhafi children conduct internecine warfare, Canonical ID: 09TRIPOLI208_a, Tripoli, 9 marzo 2009.
13. Andrew McGregor, « Europe’s True Southern Frontier: The General, the Jihadis, and the High-Stakes Contest for Libya’s Fezzan Region », CTC Sentinel, vol. 10, no.. 10, Combating Terrorism Center, Westpoint Military Academy, 27 novembre 2017.
14. Andrew McGregor, « General Ali Kanna Sulayman and Libya’s Qaddafist Revival », AIS Special Report, Aberfoyle International Security, 8 agosto 2017. 
15. Mathieu Galtier, « Interview de Tahar Dahech: le fils de Kadhafi va sauver la nation libyenne, 2017 sera une année décisive », Libération, 19 dicembre 2016. 
16. Laurence-Aïda Ammour, « L’après-Qaddhafi au Sahara-Sahel », Notes Internacionals, no. 44, CIDOB, Barcellona, gennaio 2012. 
17. Simon Piel et Joan Tilouine, « Soupçons de financement libyen: Alexandre Djouhri, proche de Sarkozy, placé en garde à vue à Londres », Le Monde, 8 gennaio 2018. Vedi anche Fabrice Arfi e Karl Laske, Avec les compliments du guide, Fayard, 2017 
18. Con Abdallah Senoussi (ex capo dei servizi di informazione militari e cognato di Muammar Gheddafi) e Baghdadi al-Mahmoudi (ex Primo Ministro dal 2006 al 2011).. 
19. New Risks in Libya as Khalifa Haftar Dismisses UN-backed Accord, International Crisis Group, 21 dicembre 2017. 
20. Michael Pauron, « L’ONU reconnaît la dimension africaine du drame libyen », Jeune Afrique, 28 gennaio 2018.  » Sono stato in Niger, in Ciad, sono venuto qui all’Unione africana per una consultazione… Eccomi ancora accanto al segretario generale per dire che gli Africani possono ampiamente contribuire ad una uscita dalla crisi. (…) Nessuno Stato membro, nessuna organizzazione regionale – e in primo luogo l’Unione africana o la Lega degli Stati arabi (…) si è rifiutato di contribuire ad una uscita dalla crisi ». 
21. Vedere il resoconto del Colloquio sulla crisi libica e l’Unione africana, organizzato dall’Istituto Robert Schuman e l’Istituto Prospettiva e Sicurezza in Europa, a Parigi, nel settembre 2017 (http://www.institut-robert-schuman.eu/2017/09/26/l-union-africaine-un-avenir-pour-la-paix-en-libye/)




Bologna, SABATO 7 APRILE 2018
dalle ore 17:45 presso la sala "Vinka Kitarović del Quartiere San Donato, Piazza Spadolini 7


CONOSCERE LA REPUBBLICA POPOLARE DEMOCRATICA DI COREA
Qual'è la storia dell'indipendenza nazionale coreana? Quali le caratteristiche del socialismo dello Juche? Da dove provengono i pericoli di guerra in Estremo Oriente e nel mondo intero? Ne discutiamo assieme a:

Jean-Claude Martini, presidente della Korean Friendship Association Italia
Andrea Marsiletti, direttore responsabile ParmaDaily.it, autore del libro fantapolitico “Se Mira, se Kim”
Roberto Gessi, del Comitato per le celebrazioni della nascita di Kim Jong Il istituito dal G.A..MA.DI.

Promuove:
G.A.MA.DI. (Gruppo Atei Materialisti Dialettici) – Comitato per le celebrazioni nell'anniversario della morte di Kim Jong Il
Organizzano:
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia Onlus 
Comitato Ucraina Antifascista Bologna
Circolo Amicizia Italia Cuba "Celia Sanchez - Marilisa Verti" Parma


LINK UTILI:

Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/189638608316263/

Korean Friendship Association Italia
https://italiacoreapopolare.wordpress.com

Per iscriversi alla Korean Friendship Association

Blog di Andrea Marsiletti

Comitato per le celebrazioni della nascita di Kim Jong Il istituito dal G.A.MA.DI.
http://www.gamadilavoce.it/comitatoKimJongIl.html 

Corea: Storia contemporanea (Accademia delle Scienza dell'URSS | Storia Universale, Teti editore)
1. Corea: dalla storia più antica a quella moderna: http://www..resistenze.org/sito/te/cu/st/custib12-020028.htm
2. Corea: Storia contemporanea (Parte prima): http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custib15-020042.htm
Corea: Storia contemporanea (Parte seconda): http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custib22-020077.htm



[A un anno dalla pubblicazione della Dichiarazione sulla lingua comune, in cui più di 8500 linguisti e intellettuali ribadiscono che il serbocroato è una lingua unica e policentrica, giunge la adesione del più famoso tra i linguisti contemporanei – Noam Chomsky.]


Noam Chomsky potpisao Deklaraciju o zajedničkom jeziku

1) Godišnjica / Slavni Noam Chomsky potpisao Deklaraciju o zajedničkom jeziku (Radiosarajevo.ba)
2) Šta je sa Deklaracijom o zajedničkom jeziku? (3.9.2017., G. Sandić-Hadžihasanović, Slobodnaevropa.org)


Isto pogledaj / pročitaj: 

Suočeni s negativnim društvenim, kulturnim i ekonomskim posljedicama političkih manipulacija jezikom i aktualnih jezičnih politika u Bosni i Hercegovini, Crnoj Gori, Hrvatskoj i Srbiji, mi, doljepotpisani, donosimo DEKLARACIJU O ZAJEDNIČKOM JEZIKU

JEDAN JEZIK (Globalno sa Borisom Malagurskim, 3 mag 2017)
Emisija „Globalno sa Borisom Malagurskim“ sezona 2 | epizoda 27 – Gosti: Snježana Kordić, Miloš Kovačević, Nedžad Ibrahimović. Tema: Deklaracija o zajedničkom jeziku: Da li je na delu politizacija jezika kojim govore građani Srbije, Hrvatske, BiH i Crne Gore. Međusobno sporazumevanje, nacija, politika, nacionalizam, segregacija i obrazovni sistem zemalja u regionu...

DEKLARACIJA O ZAJEDNIČKOM JEZIKU / DICHIARAZIONE SULLA LINGUA COMUNE (JUGOINFO 3.4.2017.)
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8690


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Godišnjica / Slavni Noam Chomsky potpisao Deklaraciju o zajedničkom jeziku

27. 03. 2018. 
Radiosarajevo.ba

Noam Chomsky, američki lingvist, filozof, historičar i politički aktivist, potpisao je Deklaraciju o zajedničkom jeziku.

Na prvu godišnjicu od objavljivanja teksta Deklaracije, profesor emeritus sa najprestižnijeg univerziteta na svijetu MIT-a (Massachusetts Institute of Technology) odlučio je da je potpiše tekst u kojem se navodi da Bošnjaci, Srbi, Hrvati i Crnogorci govore zajedničkim policentričnim standardnim jezikom.

Naime, krajem marta 2017. godine, u Sarajevu je zvanično objavljena Deklaracija o zajedničkom jeziku, koju je odmah potpisalo više od 200 lingvista, književnika, naučnih i kulturnih radnika, aktivista i drugih ličnosti iz javnog života.

Potpisnici Deklaracije smatraju da je riječ o zajedničkom standardnom jeziku, a da korištenje četiri naziva za standardne varijante - bosanski, hrvatski, crnogorski i srpski - ne znači da su to četiri različita jezika. Dokument je izazvao veliku pažnju i brojne polemike.

Tekst deklaracije, kojeg je sastavilo 30 stručnjaka iz Srbije, BiH, Hrvatske i Crne Gore, a koji je rezultat projekta Jezici i nacionalizmi, je stavljen na uvid javnosti 1. aprila  2017. godine na internet-stranici projekta www.jezicinacionalizmi.com gdje svaka osoba saglasna s tekstom Deklaracije može da je potpiše. 

Od aprila do novembra 2016. u okviru projekta Jezici i nacionalizmi konferencije su održane u Podgorici, Splitu, Beogradu i Sarajevu i eminentni stručnjaci iz oblasti lingvistike i drugih društvenih nauka sastavili su Deklaraciju o zajedničkom jeziku u namjeri da se podigne svijest i aktivno utječe na postojeće nacionalističke jezičke prakse u sve četiri države regiona u kojima se govorio srpsko-hrvatski ili hrvatsko-srpski jezik. 

Deklaraciju o zajedničkom jeziku do sada je potpisalo više od 8.500 lingvista, književnika, naučnika, aktivista i drugih kredibilnih ličnosti iz javnog i kulturnog života Bosne i Hercegovine, Crne Gore, Hrvatske i Srbije.

Projekat JEZICI I NACIONALIZMI rezultat je dvogodišnje istraživačke misije i partnerskog djelovanja beogradskog Udruženja KrokodilUdruge Kurs iz Splita, podgoričkog Centra za građansko obrazovanje (CGO) i PEN centra BIH iz Sarajeva. Osnovna namera ovog projekta jeste da se kroz otvoreni dijalog lingvista i drugih stručnjaka problematizira pitanje postojanja četiri “politička” jezika na prostoru nekadašnjeg hrvatsko-srpskog / srpsko-hrvatskog, kao i sve one značajne i izazovne teme u kojima se lingvistička nauka neprincipijelno ukršta s identitetskom politikom. Tako je i danas. Uprkos željenoj i ostvarenoj emancipaciji te formalnom postojanju četiri standarda, identitetsko-jezičke strasti nisu se smirile, a preskriptivizam, zanesenost jezičkim imperijalizmom, teze o “pedesetogodišnjem jezičkom ropstvu” i čitav dijapazon pogrešnih interpretacija i dalje traju. Sve su to razlozi zbog kojih su četiri partnerske organizacije iz Bosne i Hercegovine, Crne Gore, Hrvatske i Srbije pokrenule projekat JEZICI I NACIONALIZMI, u saradnji sa Radnom grupom projekta, koju čine najutjecajniji eksperti na ovom polju: prof. dr Snježana Kordić, prof. dr Hanka Vajzović, prof.. dr Ranko Bugarski i Božena Jelušić. Projekat su podržali Allianz Kulturstiftung i Forum ZFD.


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TRAD.: « DÉCLARATION SUR UNE LANGUE COMMUNE » : POURSUIVRE LE COMBAT CONTRE LE NATIONALISME (CdB 11 septembre 2017)
En Bosnie-Herzégovine, en Croatie, au Monténégro, en Serbie, on parle bien la même langue standard commune, malgré les nombreuses variantes régionales. La Déclaration de Sarajevo a été présentée le 30 mars dernier : où en la mobilisation, comment poursuivre le combat contre le nationalisme linguistique ?
https://www.courrierdesbalkans.fr/Declaration-sur-une-langue-commune-ou-en-est-on



Šta je sa Deklaracijom o zajedničkom jeziku?

3. septembar/rujan, 2017.
Gordana Sandić-Hadžihasanović

Krajem marta 2017. godine, u Sarajevu je zvanično objavljena Deklaracija o zajedničkom jeziku, koju je odmah potpisalo više od 200 lingvista, književnika, naučnih i kulturnih radnika, aktivista i drugih ličnosti iz javnog života.

Potpisnici Deklaracije smatraju da je riječ o zajedničkom standardnom jeziku, a da korištenje četiri naziva za standardne varijante - bosanski, hrvatski, crnogorski i srpski - ne znači da su to četiri različita jezika. Dokument je izazvao veliku pažnju i brojne polemike.

Šta se s Deklaracijom dešavalo proteklih mjeseci? O tome govori Ana Pejović, glavna koordinatorka udruženja „Krokodil“ iz Beograda, kao i cijelog projekta 'Jezici i nacionalizmi', odnosno stvaranja Deklaracije, čiji je potpisnik.

RSE: Na koji način se posljednjih mjeseci potpisuje Deklaracija o zajedničkom jeziku?

Pejović: Deklaracija se potpisuje preko online formulara koji je običan Google online formular, i u suštini je bila dostupna samo ljudima koji imaju malo više znanja što se tiče korišćenja kompjutera. Međutim, mi smo u nekoliko navrata, u različitim programima i projektima koje smo radili, takođe imali potpisivanje uživo, pre svega na festivalu Krokodil, u junu ove godine, gde su nam puno pomagali mladi volonteri koji su dežurali na štandovima. Tako je i tom prilikom, u tih nekoliko događaja, prikupljeno 400 i nešto potpisa. Danas imamo nešto malo manje od deset hiljada, 9.500 potpisa..

RSE: Do kad će trajati potpisivanje?

Pejović: Ona je stalno otvorena za potpisivanje, s tim što ćemo mi vrlo uskoro, verovatno već početkom sledeće godine, ući u drugu fazu ovog programa, odnosno ideje koja stoji iza Deklaracije o zajedničkom jeziku, a to je promovisanje književnosti, pre svega književnosti koja se stvara na jeziku koji nam je međusobno svima razumljiv, a koji zovemo ovim svačetiri imena.

RSE: Kako ste zamislili to predstavljanje? U više gradova, kao što su bile konferencije prije Deklaracije?

Pejović: Mi smo pre svega zamislili to kao jednu vrstu neobavezne lektire, odnosno preporuke prema mladim ljudima, pre svega osnovcima i srednjoškolcima, zatim i studentima, koji su, između ostalog, i bili jedni od inicijatora cele ideje oko Deklaracije o zajedničkom jeziku, koju mi prvobitno u projektu Jezici nacionalizma uopšte nismo ni planirali.

Mi smo smatrali da ćemo nakon četiri konferencije, koje smo radili u Splitu, Sarajevu, Beogradu i Podgorici, uraditi transkript događaja, uraditi jedan finalni tekst koji bi izvukao najinteresantnije i najbolje momente ove četiri konferencije, međutim, u Sarajevu se pojavila odmah inicjativa, uglavnom mladi ljudi su pitali: 'Dobro, i šta sad?'. Odatle je potekla ideja o pisanju teksta Deklaracije.

Naši članovi radne grupe i prošireni članovi radne grupe su na njoj radili neka tri meseca. Sada nama sledi jedan konsultativan proces sa radnom grupom, da vidimo kako će se taj projekat promovisanja zajedničke književnosti na zajedničkom jeziku odvijati početkom sledeće godine. Još uvek nemamo detaljan program, osnosno, imamo ga, ali pre nego što ga prodiskutujemo sa radnom grupom, ja ne bih volela da o njemu malo više pričam.

RSE: U očekivanju detalja tog novog projekta, molim Vas da se vratimo Deklaraciji, koja osim pristalica - odnosno potpisnika, ima i brojne protivnike...

Pejović: Podsećam da je Deklaracija objavljena 30. marta. Dva - tri dana ranije, mi smo poslali obaveštenje medijima u celom regionu da će Deklaracija biti objavljena. Od tog trenutka nadalje krenula je stvarno ogromno medijsko interesovanje, što pozitivno, što negativno.

Čini mi se da je početna reakcija u Hrvatskoj bila dosta histerična i jako negativna. To je bio trenutak kada još niko, izuzev članova radne grupe i onih prvih, inicijalnih dvesta potpisnika, nije znao sadržaj Deklaracije. Dakle, ta naša medijska objava da će Deklaracija biti objavljena nije sadržavala tekst Deklaracije. To je bila samo informacija za novinare i čini mi se da je verovatno taj naziv izazvao dosta kontraverze.

Međutim, u Hrvatskoj se situacija nije smirila ni nekoliko nedelja nakon toga, tako da su neki od potpisnika Deklaracije imali vrlo neprijatna, što medijska, što lična, iskustva sa raznim ljudima, što iz javne sfere, što privatno.

U Srbiji, početna reakcija je bila, čini mi se, dosta pozitivna, a onda je sledeći talas bio prilično negativan, ali on je u neku ruku bio reakcija na negativnu hrvatsku reakciju. Ta dinamika između Srbije i Hrvatske se dosta dobro videla i kroz Deklaraciju o zajedničkom jeziku, uvek se jedna država pozicionira u odnosu na onu drugu. U ovom slučaju to su bili srpski lingvisti iz korpusa, da kažem, nacionalnih lingvista ili nacionalističkih lingvista, koji tvrde da to jeste jedan jezik, ali da je to ustvari srpski jezik i da su svi jezici nastali iz srpskog jezika.

Oni su, u stvari, iskoristili našu tezu da to jeste jedan jezik da bi dokazali svoju tezu da je pre svega postojao srpski, a da su se onda nakon toga razvili dijalekti, ili kako oni kažu – varijeteti – hrvatski, bosanski ili bošnjački i crnogorski. Što je onda izazvalo opet kontrareakcije od strane nekih hrvatskih lingvista. Tako je bilo dosta burno.

RSE: A pozitivne rekacije?

Pejović: Pozitivnih reakcija, moram da kažem, bilo je više i pogotovo od običnih ljudi, od ljudi koji su se pozivali upravo na tu ideju o zdravom razumu i na to da je jako interesantno da konačno neko kaže da je „car go“, ali mi uopšte ne planiramo da se na ovome zadržimo, jer smatramo da to nije dovoljno.

Ovo je bio, da kažem, samo apel za zdrav razum, ali ovom problemu se mora pristupiti sistematski, pogotovo u onim sredinama – u Bosni i Hercegovini ih nažalost ima mnogo – a to su zajedničke sredine u kojima žive dva od tri konstitutivna naroda, gde imamo ovu čuvenu situaciju dve škole pod jednim krovom. Te škole se bave obrazovanjem, ali se takođe bave i formiranjem novih malih Srba, Hrvata i Bošnjaka, što je jako opasno i što u budućnosti može da proizvede mnogo veće probleme od ovih sa kojima se mi sada susrećemo. A složićete se da ni sad situacija nije baš ružičasta.

RSE: Da, ljudi jednostavno ne žele prihvatiti da Deklaracija nikom ništa ne nameće, niti zabranjuje, niti pokušava njihova nacionalna osjećanja anulirati. Ljudi reaguju na 'prvu loptu', i prije nego što pročitaju Deklaraciju, kako ste već rekli. Šta je suština tog teksta?

Pejović: Tekst Deklaracije je jako, jako blag. U suštini, poziva na slobodu i poziva na ideju da svako može svoj jezik da imenuje onako kako on hoće, poštujući činjenicu da se radi o zajedničkom policentričnom standardnom jeziku.

Osnovni problem koji je iza toga sledi jeste politička upotreba, odnosno politička zloupotreba jezika u cilju dokazivanja nečeg drugačijeg, posebno nacionalnih osećanja.

Naravno, Bosna i Hercegovina nije jedina. Te multinacionalne sredine su i u Srbiji i u Hrvatskoj, u kojima se deca suočavaju sa istim tim problemima. Ako se o tome ne bude na otvoren način razgovaralo, bojim se da ćemo izbacivati generaciju za generacijom koja će verovati da, do nje i pored nje živi neprijatelj, a ne osoba sa kojom je jako lako komunicirati.







La sovranità immaginaria del Kosovo

1) Kosovo: forze speciali albanesi arrestano leader serbo. E' scontro. Vucic chiama Putin (A. Tarozzi, 26.3.2018)
2) Bruxelles unisce gli Albanesi e divide i Serbi (Z. Jovanovic, dalla Tavola Rotonda tenuta a Belgrado il 20/2/2018 sulla situazione in Kosmet)
3) Kosovo: un anno violento per i giornalisti. Oltre venti i casi di attacchi e minacce (Eraldin Fazliu)


Si veda anche:

La Serbia non ha bisogno di un “dialogo” sul Kosovo, ma sull’integrazione europea (di Dragana Trifkovic, direttore del Centro per gli studi geostrategici – Belgrado, Serbia, 14.01.2018)
La regione del Kosovo della Repubblica di Serbia è sotto l’occupazione militare USA-NATO, con un governo fantoccio albanese separatista nominalmente sotto il suo controllo. Questa è stata la situazione per quasi 20 anni...


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KOSOVO: FORZE SPECIALI ALBANESI ARRESTANO LEADER SERBO. E’ SCONTRO. VUCIC CHIAMA PUTIN

27/03/2018
di Alberto Tarozzi

Oggi pomeriggio a Pristina, scontri che portano le tensioni tra kosovari serbi e albanesi vicine a un punto di non ritorno.

Tutto nasce nell’enclave serba di Kosovska Mitrovica dove viene arrestato dalla polizia albanese Marko Djuric, capo dell’ufficio governativo serbo per il Kosovo che doveva partecipare a una riunione di serbi impegnati in una conferenza, nell’ambito del dialogo interno alla Serbia sulla questione del Kosovo.

Pare che la polizia voglia procedere a ricondurre Djuric al confine serbo per espellerlo in base a un accordo secondo il quale l’ingresso dei serbi in Kosovo deve essere preceduto da un avviso di 72 ore alle autorità di Pristina che si riservano il diritto di autorizzare o meno l’ingresso.

Comunque sia, le pesanti misure adottate dalle forze speciali kosovare albanesi sono state interpretate come una vera e propria provocazione dalla comunità serba. La tensione ha raggiunto il suo culmine quando gli albanesi hanno fatto irruzione nell’enclave con decine di agenti armati in assetto antisommossa. La polizia ha lanciato gas lacrimogeni e bombe assordanti fuori dall’edificio in cui si teneva la Conferenza, per disperdere la folla di dimostranti che cercava di impedirne l’ingresso.

Immagini della tv serba ritraggono i serbi sedersi per terra col capo chino e le braccia alzate sotto la minaccia delle truppe. Le immagini sono state trasmesse dalla tv di Belgrado, che ha avuto essa stessa un cameramen ferito dalla polizia.

Si segnalano infatti numerosi feriti. Barricate sono state alzate dai serbi di Mitrovica e vengono segnalati blocchi stradali. Si ode il suono delle sirene.

A Belgrado il governo ha decretato lo stato di emergenza e il Presidente Vucic , secondo alcune voci, si sarebbe messo direttamente in contatto telefonico con Putin a Mosca.

E’ una svolta violenta nei rapporti tra serbi e albanesi del Kosovo, ma non del tutto imprevista. Non più tardi di pochi giorni fa il Parlamento kosovaro era stato teatro di uno scontro tra parlamentari albanesi, alcuni dei quali avevano dato luogo a un lancio di lacrimogeni per protesta contro l’approvazione di confini tra Kosovo e Montenegro da loro ritenuta troppo generosa.

Possibile che la violenta irruzione della polizia kosovaro albanese a Kosovska Mitrovia, possa essere stata una dimostrazione a testimoniare che il governo mantiene una linea di condotta dura e pura, a dispetto delle concessioni di confine.

Se così fosse si tratterebbe comunque di una gravissima mossa dai toni provocatori, capace di innescare una reazione a catena dalle conseguenze imprevedibili


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IN ENGLISH / NA SRPSKOHRVATSKOM: Beograd 20.2.2018., Округли сто о Косову и Метохији:
BRUSSELS UNITES THE ALBANIANS AND DIVIDES THE SERBS / БРИСЕЛ УЈЕДИЊУЈЕ АЛБАНЦЕ А РАЗБИЈА СРБЕ

Dalla Tavola Rotonda tenuta a Belgrado il 20/2/2018 sulla situazione in Kosmet 


www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 04-03-18 - n. 664

Bruxelles unisce gli Albanesi e divide i Serbi

Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali | wpc-in.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

La risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che garantisce la sovranità e l'integrità territoriale della Serbia e l'ampia autonomia di Kosovo e Metohija in Serbia è il documento legale vincolante più alto in grado che obbliga tutti i membri di questa Organizzazione mondiale, compresi gli Stati membri dell'UE, La NATO, l'OSCE, l'OIC, l'UA e l'EAU. La risoluzione 1244 è l'unica base affidabile ed il quadro per qualsiasi negoziato riguardante lo status. A causa dei gravi errori commessi dalle ex autorità serbe, il sistema delle Nazioni Unite ha prodotto alcuni documenti dannosi di carattere consultivo e non vincolante. È di vitale importanza che non vengano commessi errori simili o persino più gravi né nel presente né in futuro, perchè ciò renderebbe più difficile la futura posizione e le prospettive della Serbia.

Il parametro singolo più importante è la Costituzione della Repubblica di Serbia. Ci si aspetta che sia osservata da tutti, e la rilevante responsabilità aumenta con il crescere della posizione di ciascuno di noi nella società. Il rispetto della Costituzione del Paese è la misura della integrità e serietà dello Stato, degli uomini di stato e dei cittadini.

Negoziare "Kosovo e Metohija per ottenere l'adesione all'UE è inaccettabile, perché i valori in questione non sono comparabili. L'adesione è benvenuta, purché sia offerta priva di ricatti e non sia un pedaggio per l'inclusione in una compagine esclusiva.

Tenendo conto di tutte le esperienze finora compiute, è chiaro che qualsiasi garanzia dell'UE per eventuali accordi o soluzioni future riguardanti la Serbia non potrebbe essere attendibile. L'UE ha avviato accordi in cui i diritti della Serbia non sono che un'esca, attirando il consenso e la firma della Serbia, mentre il vero obiettivo è stabilire gli obblighi della Serbia a favore dell'altra parte e, quindi, ottenere un punto fermo per infiniti ricatti usando un unico argomento ": 'Se vuoi l'adesione all'UE!' Le uniche disposizioni attuate dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono quelle nell'interesse degli albanesi e nessuna di quelle che garantiscono i diritti dei Serbi e della Serbia.

La Serbia ha adempiuto a tutti i suoi obblighi derivanti dall'accordo di Bruxelles del 2013 sponsorizzato dall'UE, mentre gli albanesi non hanno osservato l'unico a cui si sono impegnati: l'istituzione della Comunità dei Comuni Serbi. L'EULEX è stata accettata come "neutrale rispetto allo status", ma in realtà questa Missione era e rimane lo strumento chiave per l'istituzione di un quasi-stato illegittimo su una parte del territorio della Serbia. È adombrato dai soliti sospetti irrisolti di comportamento corruttivo del suo personale. La sfiducia che ne deriva può essere neutralizzata solo attraverso l'attuazione degli obblighi incompiuti nei confronti della Serbia e dei Serbi, unitamente a un'autentica imparzialità, identificando e perseguendo i responsabili dei crimini perpetrati contro i Serbi.

Sotto i negoziati fino ad ora, la Serbia è andata ben al di là nel fare concessioni a Prishtina e all'Occidente e, in cambio, non è stata garantita una minima protezione dei suoi diritti e interessi. Belgrado dovrebbe essere abbastanza saggia da trarre conclusioni adeguate da questa pratica. Non dovrebbe comportare alcun nuovo accordo o obbligo, tanto meno inserire un nuovo "accordo giuridicamente vincolante" per così tanto tempo fino all'implementazione di tutti gli obblighi nei confronti della Serbia e del popolo serbo, incluso il ritorno libero e sicuro di quasi 250.000 persone espulse in un episodio di pulizia etnica. Che tipo di normalizzazione sarebbe senza aver condizionato il ritorno sicuro di un quarto di milione di persone espulse?

Un accordo giuridicamente vincolante sarebbe utilizzato per la creazione accelerata della Grande Albania. Pur rimanendo al di fuori delle Nazioni Unite, il Kosovo difficilmente potrebbe unirsi con l'Albania, in quanto non è un soggetto di diritto internazionale. Un altro ostacolo è quello di essere formalmente sotto il mandato delle Nazioni Unite ai sensi dell'UNSCR 1244.

Per la Serbia, lo status della Provincia del Kosovo e della Metohija è una questione vitale che rimarrà aperta fintantoché i negoziati daranno una soluzione giusta e auto-sostenibile, come stabilito dalla Risoluzione 1244 dell'UNSC. Nessuno ha il diritto di ricattare la Serbia tramite una qualsiasi scadenza, o per imporre soluzioni su misura per soddisfare i propri interessi politici.

L'obbligo e gli sforzi della Serbia per garantire i diritti umani fondamentali del popolo serbo in Kosovo e Metohija, come la sicurezza personale, la libertà di movimento e l'inviolabilità dei diritti di proprietà, godono del pieno sostegno dei cittadini. Questo obbligo, unitamente al dovere di assicurare l'osservanza dello status e dei diritti inalienabili della Chiesa ortodossa serba, elimina l'interesse essenziale, che è - lo status della Provincia in linea con la Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la Costituzione serba.

Troviamo inaccettabile sia l'indifferenza che la promozione della propaganda malevola che sollecita  che il Kosovo e Metohija non siano che un fardello che la Serbia dovrebbe eliminare, e presto, così da consentire alla sua economia e ai cittadini di imbarcarsi in futuri investimenti, sviluppo, migliori standard di vita, crescita della popolazione più elevata, quasi un paradiso sulla Terra. Tutto questo è ancora un altro grande inganno. In ogni paese, il tenore di vita e l'economia dipendono dalla politica e dai sistemi economici, dalla diversificazione della cooperazione economica e dalle fonti di investimento, piuttosto che dalla rinuncia a qualsiasi interesse vitale nazionale o statale.

La Germania sfrutta l'attuale forma di negoziato di Bruxelles per promuovere il proprio e, in una certa misura, gli interessi geopolitici generali occidentali. Questo combina il modo di risolvere la questione nazionale albanese, l'indebolimento del popolo serbo e la Serbia come fattore politico nei Balcani, e con l'ulteriore deterioramento della questione nazionale serba irrisolta. Un argomento importante a supporto di questa valutazione è l'effettiva proibizione per 250.000 serbi e altri non albanesi dell'esercizio del diritto universale al ritorno libero, sicuro e dignitoso alle loro case e proprietà.

Un giusto compromesso è possibile solo nella cornice della risoluzione 1244 dell'UNSCR e della Costituzione della Serbia. Non è né un compromesso né una soluzione duratura permettere a Pristina di acquisire indipendenza, ricchezza economica e naturale, l'adesione all'ONU, all'UNESCO, all'OSCE, mentre tutti i serbi ottengono nuove divisioni, nuovi confini internazionali invece della linea amministrativa, status di nazionale minoranza, e una comunità di municipi serbi ridotta a una ONG.

Tenendo presente tutto quanto sopra detto, e in particolare le alterate circostanze e l'inadeguato formato dei negoziati di Bruxelles, la dimensione ricattatoria del legare lo status di Kosovo e Metohija ai negoziati di adesione della Serbia, si può supporre che al momento non esistano prerequisiti per il raggiungimento di una soluzione equilibrata, giusta e duratura. Tali prerequisiti possono essere creati coinvolgendo la Russia e la Cina nel processo negoziale e nelle garanzie, ovvero riportando il processo alle Nazioni Unite, dove è stato originariamente iniziato.

La Serbia è stata e rimane disposta a cercare un compromesso, a mettere in armonia gli interessi, non in uno spazio inesplorato, ma all'interno del dominio dei principi e della legge. La Serbia non dovrebbe optare per uscire da questo dominio di principi e di legge e sforzarsi di migliorare la vita futura dando priorità all'ingiustizia sulla giustizia. Anche la giustizia è parte della realtà.

Proporre i cosiddetti "due modelli di Germanie" è un ovvio tentativo di giustificare e ingannare, e un'offerta di "salvare la faccia". Tuttavia, le due situazioni, le circostanze internazionali rilevanti, le loro origini e le loro cause primarie sono incomparabili. La Serbia non è l'ex Repubblica federale di Germania, né il Kosovo e la Metohija sono l'ex Repubblica Democratica Tedesca. La Serbia ha già espresso la sua opinione sull'ultimatum di Zeigmar Gabriel. Sarebbe meglio che sia l'Europa che l'UE rendessero stabile la loro posizione, e quindi escludessero Gabriel dalla sua abitudine di proclamare quali parti dei territori fanno o non costituiscono la parte di altri stati. Ricordiamo che quest'anno è l'ottantesimo anno dell'Accordo di Monaco?

Živadin Jovanović

Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali


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Kosovo: un anno violento per i giornalisti


Sono stati oltre venti i casi di attacchi e minacce ai giornalisti in Kosovo, molti dei quali restano impuniti o vengono sanzionati con pene talmente lievi da vanificarne la funzione dissuasiva

30/01/2018 -  Eraldin Fazliu

(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0  )

"Non dico nulla di nuovo quando dico che non siamo soddisfatti di come funziona il sistema giudiziario del Kosovo, che in questi casi mostra non poca negligenza", spiega Parim Olluri, direttore esecutivo del quotidiano online Insajderiaggredito fisicamente il 16 agosto scorso da tre persone rimaste non identificate dalla polizia, nonostante le foto degli assalitori siano state rese pubbliche tre settimane fa. L'inchiesta è in corso.

L'attacco a Olluri ha anche attirato l'attenzione internazionale: Reporter senza frontiere ha condannato l'assalto al giornalista e chiesto alle autorità di "fare luce sull'attacco".

"Questo caso potrebbe essere facilmente risolto se l'accusa e la polizia si impegnassero seriamente. Eppure, in Kosovo questa negligenza sembra normale", dice Olluri, scettico sul fatto che i suoi aggressori saranno consegnati alla giustizia. "Il fatto che come vittima sia mio dovere inviare e-mail e lettere per chiedere del caso mi dà l'impressione che possa essere stato dimenticato".

Petrit Collaku, ricercatore presso l'Associazione dei giornalisti del Kosovo (AJK  ), fa eco alle affermazioni di Olluri, anche se crede che siano stati compiuti alcuni progressi nella registrazione dei crimini. "Qualcosa è cambiato, le istituzioni hanno un database e tutti i casi vengono registrati", dice a Kosovo 2.0. Tuttavia, Collaku ritiene che l'impunità rimanga un problema ingombrante.

Pressioni, minacce e attacchi ai giornalisti sono stati frequenti negli ultimi anni. L'anno scorso qualcuno ha lanciato una bomba a mano nel cortile dell'emittente di stato Radio Televisione del Kosovo (RTK). Alcuni giorni dopo, un'altra bomba è esplosa nella casa del direttore di RTK, Mentor Shala. In entrambi i casi ci sono stati solo danni materiali, ma rimane la minaccia diretta al lavoro dei giornalisti. Anche se è passato più di un anno, nessuno è stato portato davanti alla giustizia.

Collaku è autore del recente rapporto AJK Kosovo: Indicators for the level of media freedom and journalists’ safety  , il quale ha rivelato che da gennaio al 20 novembre, data di pubblicazione, sono stati registrati 24 casi di minacce e attacchi ai giornalisti. Questo è già un aumento sostanziale rispetto ai 18 casi denunciati alla polizia e alla magistratura nel corso del 2016.

Anche Vehbi Kajtazi, collega di Ollurri e capo redattore di Insajderi, è stato attaccato in ottobre. Dopo un mese di detenzione, il suo aggressore Fitim Thaci è stato rilasciato con quattro mesi di libertà vigilata. Per Olluri, questi casi di punizioni "ridicole" stanno solo incoraggiando ulteriori attacchi ai giornalisti.

"Chi sta incitando gli aggressori? Penso che sia lo stesso sistema giudiziario del Kosovo", ha detto a Kosovo 2.0. "Gli aggressori smascherati dai media hanno ricevuto punizioni ridicole. Ora, logicamente, qualsiasi "losco" uomo d'affari che abbia evaso le tasse o beneficiato irregolarmente di appalti pubblici troverà molto facile pagare una persona 500-1.000 Euro per aggredire qualsiasi giornalista che ne scrive, perché la punizione è un mese di custodia o qualche altra punizione ridicola".

Le aggressioni ai giornalisti sono proseguite nel corso dell'anno. L'11 novembre Taulant Osmani, giornalista di kallxo.com, è stato aggredito da un gruppo di persone che hanno cercato di prendergli il telefono mentre seguiva una discussione tra due gruppi di persone in una piazza di Gjilan. Fortunatamente il giornalista è stato protetto dagli astanti e non è stato ferito dagli aggressori..

Un altro problema è che i processi talvolta richiedono anni. "Il tribunale ha multato un ex funzionario del ministero del Commercio per 500 euro dopo che il giornalista Liridon Llapashtica lo aveva citato in giudizio per diffamazione. Il processo si è concluso l'anno scorso, mentre il caso risale al 2014", rivela Collaku.

Lo stato del sistema giudiziario ha portato il panorama mediatico del Kosovo a essere descritto come "parzialmente libero" nella relazione 2016 di Freedom House, che misura la libertà di espressione nei media. Il Kosovo ha totalizzato 14 punti (30 è il punteggio peggiore).

Perché gli attacchi sono aumentati?

Il clima a livello globale nei confronti dei media è peggiorato. Secondo un rapporto sulla libertà di espressione di Articolo 19, pubblicato il 30 novembre, i media di tutto il mondo sono precipitati ai peggiori livelli dal 2000. Anche in Kosovo, negli ultimi anni, il clima per i giornalisti è stato teso. Per Olluri, uno dei motivi principali per cui i giornalisti vengono attaccati è l'evoluzione del panorama dei media.

"Dieci anni fa c'erano due o tre giornali e due canali televisivi, per il potere era più facile influenzare le politiche editoriali, evitando di infastidire le forze politiche e para-politiche, mentre ora abbiamo molti media online".

Per Collaku, il boom dei media online ha anche creato casi in cui i giornalisti non hanno adempiuto al dovere di informare in modo equo e imparziale. "I giornalisti con cui abbiamo parlato ci hanno detto che il codice etico è stato gravemente violato in molti casi".

Collaku pensa che le circostanze politiche del paese abbiano provocato un aumento della pressione sui media. "Due parlamentari di questa legislatura hanno mandato messaggi minacciosi: Beke Berisha dell'AAK ha minacciato di morte Vehbi Kajtazi e Milaim Zeka ha usato lo scranno per attaccare i giornalisti".

A ottobre, il deputato di NISMA Milaim Zeka, lui stesso giornalista fino all'ingresso in politica nel 2016, ha attaccato durante una sessione parlamentare il giornalista KTV Adriatik Kelmendi e Vehbi Kajtazi di Insajderi, guadagnandosi un comunicato di AJK sul linguaggio improprio usato.

Zeka ha attaccato Kelmendi affermando pubblicamente che suo padre aveva servito il regime oppressivo quando era procuratore e punito gli albanesi del Kosovo prima della guerra del 1999. I suoi colleghi di partito sono rimasti in silenzio senza dissociarsi.

Anche il primo ministro Ramush Haradinaj ha un atteggiamento antagonistico verso i giornalisti. Nei suoi primi dieci giorni in carica, quando gli è stato chiesto in una conferenza stampa della posizione degli Stati Uniti in merito alla demarcazione del confine con il Montenegro, Haradinaj ha risposto "Ho rispetto per i media, ma la maggior parte di voi non sa leggere o non capisce l'inglese", prima di chiedere a tutti i giornalisti di "tornare a scuola e imparare l'inglese".

In seguito Haradinaj si è scusato, ma affermazioni come queste gli tolgono credibilità quando condanna gli attacchi ai giornalisti. Dopo l'aggressione a Vehbi Kajtazi, Haradinaj ha proclamato che "condanniamo sinceramente l'aggressione fisica, non solo a Kajtazi, ma a tutti i giornalisti. Come governo, ci impegniamo ad avere un rapporto positivo con i media, ad essere trasparenti e garantire la libertà di parola".

Sebbene Collaku accolga la condanna agli attacchi contro i giornalisti, ritiene che anche nella reazione si applichino due pesi e due misure, e invita pertanto i leader politici ad esprimersi anche quando vengono attaccati giornalisti meno conosciuti. "Non ci sono reazioni quando si tratta di un giornalista poco noto o quando viene distrutta la videocamera di un operatore", afferma Collaku.

"Ci sono sempre più giornalisti aggrediti", afferma Collaku. "Ci sono individui picchiati per aver detto alla società 'ehi, sta succedendo questo'. Dovremmo chiedere perché le istituzioni non sono state più efficaci, facendo giustizia e dando più attenzione a questi attacchi".

Olluri conferma le opinioni di Collaku sulla giustizia per i giornalisti: "Se il sistema giudiziario punisce gli aggressori, credo che ci sarà una diminuzione degli attacchi contro i giornalisti. Ma se il sistema giudiziario continua con questa ondata di impunità, le aggressioni contro i giornalisti non faranno che aumentare".



Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto