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"Il Manifesto" 01 Marzo 2001

Dini accusa "i manovali della Cia"

"Manovali della Cia". E' un atto di accusa senza precedenti quello del
ministro degli esteri Lamberto Dini. Un atto di accusa che non solo
colpisce i giornalisti di Repubblica Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo,
che hanno realizzato l'inchiesta sull'affare Telecom-Serbia. Al di là
delle
pesanti insinuazioni sul lavoro giornalistico, le parole di Dini sono
infatti
una denuncia dell'ingerenza della Cia nella politica italiana e della
prepotenza degli Stati uniti nell'ambito dell'Alleanza atlantica.
"L'inchiesta non è il lavoro di immaginazione di due giornalisti che
hanno ricevuto i pezzi di carta da qualche parte", dice Dini alla
commissione esteri del senato. Pronta la replica del quotidiano, che ha

dato mandato ai suoi legali di intraprendere un'azione nei confronti
del
ministro.
Tuttavia l'intervento di Dini ha come obiettivo gli Stati uniti, prima
ancora di Repubblica. Secondo il titolare della Farnesina c'è infatti
un
legame tra i veleni sull'affare Telecom-Serbia e la politica italiana
nei
Balcani che, dice, "non è mai stata apprezzata dai manovali della Cia,
che operavano a Roma facendo propaganda contro il mio ministero. Ebbi
a lamentarmene con Madaleine Albright che negò, ma sappiamo che era
così".
Precedentemente, rispondendo alle interrogazioni alla camera, Dini
aveva smentito l'intenzione di aiutare economicamente il regime di
Milosevic e il coinvolgimento della Farnesina della transazione. Dalle
insinuazioni di Dini sulla Cia affiora però un retroscena di scontro
tra
interessi economici e geo-politici nella ricostruzione dell'area dei
Balcani.

"Il Manifesto" 01 Marzo 2001

L'ira di Lambertow
Il ministro degli esteri accusa: l'inchiesta su Telecom-Serbia è
manovrata dalla Cia
COSIMO ROSSI

" Manovali della Cia" che operano contro l'azione diplomatica del
governo itliano. Giornalisti di Repubblica che in sostanza si prestano
a
far loro da megafoni. Più che una risposta è una requisitoria quella
pronunciata dal ministro degli esteri Lamberto Dini nel corso
dell'audizione in commissione esteri del senato sull'affare
Telecom-Serbia e sui rapporti con gli Stati uniti. Una requisitoria che

chiama in causa tre ordini di questioni: le insinuazioni sull'inchiesta

pilotata, i rapporti con gli Usa, l'affare Telecom nel quadro degli
interessi nei Balcani.
Il ministro accusa esplicitamente l'inchiesta di Carlo Bonini e
Giuseppe
D'Avanzo: "Le ragioni non le conosciamo - dice - Certo non è il lavoro
di
immaginazione di due giornalisti che hanno ricevuto i pezzi di carta da

qualche parte, perché nessun giornalista può pensare di ricostruire una

vicenda così complessa". Pronta la replica del quotidiano diretto da
Ezio
Mauro e dei due cronisti, che hanno "dato incarico ai legali di avviare
nei
confronti del ministro le opportune azioni legali".
Ma il quadro in cui Dini colloca le presunte rivelazioni a Repubblica è
più
complicato. "Probabilmente - riflette il ministro - questa inchiesta è
nata in opposizione alla nostra politica nei Balcani, che non era
apprezzata dai manovali della Cia che operano a Roma e di cui abbiamo
i nomi". Un avvertimento, dunque: per dire che la Farnesina ha ancora
frecce al suo arco. E suffragato da un precedente, dato che Dini
ricorda:
"Ebbi a lamentarmene con il segretario di stato americano (Madaleine
Albright, ndr.) che negò, ma noi sappiamo che era così".
Questo per rivendicare che "non si può difendere l'interesse nazionale
accogliendo sempre le posizioni di un altro paese, anche se è il più
grande: siamo amici e con gli amici discutiamo". Parole che piacciono
al
presidente della commissione esteri Giangiacomo Migone (Ds), secondo
cui "il rapporto di lealtà in un'alleanza non comporta che si debba
essere sempre d'accordo, comporta invece delle rivendicazioni, ad
esempio sul metodo della collegialità delle decisioni politiche o della

scelta degli obiettivi".
Venendo così all'affare Telecom-Serbia e alle rivelazioni connesse, le
sfaccettature della vicenda si moltiplicano. E con esse gli
interrogativi.
Che riguardano in sostanza due aspetti: quello economico e quello
politico.
Le parole pronunciate da Dini al senato sono infatti un salto di
qualità
rispetto a quanto affermato dallo stesso ministro in mattinata alla
camera. Rispondendo alle interrogazioni, Dini aveva in primo luogo
smentito che dietro l'affare ci fosse l'intenzione di fornire "una
boccata
di ossigeno al regime di Milosevic". Il ministro aveva però fatto
capire
che la Farnesina non era all'oscuro, benché non seguisse "direttamente"

la transazione. Nei corridoi parlamentari c'è intanto chi osserva come
alla Farnesina non ci fosse solo il ministro in persona che può aver
avuto una parte in commedia nella transazione. Comunque, concludeva
Dini alla camera, "ben venga l'inchiesta della magistratura".
E così sarà, dato che sia la procura di Torino che quella di Belgrado
hanno aperto un fascicolo. Ma se le eventuali illegalità riguardano
comunque la magistratura, le allusioni di Dini sulla Cia aiutano invece
a
rivelare il possibile scenario politico in cui si collocano l'affare
Telecom-Serbia e i veleni che esala.
La premessa accertata è che gli Stati uniti vedevano come il fumo negli

occhi la politica italiana nei Balcani. E con questo, nota un esperto
di
casa ds, "si sfata anche un'idea caricaturale del ruolo dell'Italia nel

conflitto. C'erano due poli, quello della partecipazione e quello del
rientro al più presto nella legalità attraverso il G8 e il
coinvolgimento
della Russia". Tradotto: c'erano l'ansia di accreditamento presso la
Nato
di D'Alema e la diplomazia ostinata di Dini.
Tutti, comunque, si sentono di escludere l'ipotesi che gli eventuali
veleni sparsi sul caso Telecom-Serbia siano una vendetta postuma degli
Stati uniti nei confronti di Dini o dell'Italia. Chi ha praticato le
sedi
diplomatiche indica piuttosto gli "interessi commerciali".
L'affare Telecom, riflette chi ha ascoltato Dini ieri, "rientrava anche
in
una politica di condizionamento democratico di Milosevic". Del resto,
ricordava lo stesso Dini alla camera, anche la francese Alcatel e la
tedesca Siemens erano in lizza. L'Italia però è entrata nei Balcani con

tutti e due i piedi: Telecom, come Fiat e tanti altri.
Ma adesso la grande torta da affettare nei Balcani è quella della
ricostruzione: un affare da migliaia di miliardi. Una partita dove da
un
lato c'è l'Europa che lavora per l'allargamento dell'Unione e la
penetrazione commerciale, dall'altro ci sono le mire statunitensi sul
classico business della ricostruzione. Un partita in cui gli aerei Nato

hanno già fatto la loro parte, dato che - come ricorda Ramon Mantovani
del Prc - "avevano come obiettivo prioritario il sistema di
telecomunicazioni" (e chissà che anche per questo l'Italia non gradisse

il metodo tutto statunitense di selezione degli obiettivi). Che dunque
in
questo quadro ci sia un'ostilità nei confronti dell'Italia al limite
del
tentativo di delegittimazione non è da escludere. Tanto più che, come
osserva un fonte informata sulle prassi di oltreoceano, "non è che un
agente della Cia avverte Collin Powell prima di passare informazioni,
gli
agenti rispondono a tanti poteri".

"Il Manifesto" 01 Marzo 2001

Telekom serba, terra di conquista
C'è una drammatica vicenda industriale dietro l'investimento italiano e
greco nella
telefonia di Belgrado
GUGLIELMO RAGOZZINO


La controversia sulla Telekom di Serbia e sull'acquisto di una
importante
partecipazione da parte della Telecom Italia è precipitata in una
contesa politica, come spesso avviene in Italia, dai tempi gloriosi di
Antelope Cobbler. I protagonisti sono i soliti: ministri, servizi
segreti,
tangentisti, malavita. La discussione alla camera dei deputati non è
servita a offrire altri elementi di qualche valore. Le ricostruzioni di

Repubblica negli articoli di Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo, a metà
febbraio, hanno fatto testo e sono stati ripresi e citati nel corso
della
discussione alla Camera dai deputati dell'opposizione, che però hanno
rimandato ogni tentativo di conoscenza dei fatti a una futura
Commissione d'inchiesta. Commissione che dovrebbere vertere su di un
punto unico: chi ha preso tangenti e tangentine che hanno
accompagnato il pagamento principale alla Telekom serba?
Invece di prendere atto di una tale scarsa capacità di analisi, e
provare
a correggerla, il ministro degli esteri Lamberto Dini se l'è presa
molto,
al punto di attribuire alla Cia l'insieme delle rivelazioni
dell'inchiesta,
ottenendo l'insolito risultato di regalare all'inchiesta giornalistica
la
patente di verosimiglianza e all'opposizione l'opportunità di qualche
fastidioso autocompiacimento.
In questo ingorgo politico spionistico diplomatico finirà probabilmente

travolta la questione vera: l'investimento di Telecom Italia e di Ote
greca in Serbia. E si tratta di una questione quasi irrilevante per i
livelli
di attenzione italiani, di una questione mediocre per quelli
dell'economia greca, ma di una questione centrale per Belgrado. Nel
corso degli ultimi cinque anni Telecom Italia ha cambiato di nome, da
Stet che era, si è fusa con se stessa, si è divisa dai telefonini, ha
venduto le pagine gialle per poi ricomprarle, ha cambiato quattro volte

gruppo dirigente, (Tommasi-Rossignolo-Bernabè-Colaninno) ha
quadruplicato di valore, è stata privatizzata, ha dato forma a un
nucleo
duro di cariatidi bancarie e finanziarie e infine è stata giustamente
scalata da uno ben deciso. Mentre cadeva il monopolio di fatto e anche
quello naturale, Telecom Italia cercava entrate laterali in settori
contigui e scorrerie all'estero; esattamente come gli altri operatori
in
tutta Europa. Accordi, fusioni, impegni in ogni paese dove è possibile
arrivare e corsa coloniale verso i paesi meno dotati di attrezzature
telefoniche, come l'America latina o l'Africa o l'Europa dell'est. E
così in
Argentina Telecom Italia e Telefonica spagnola si sono spartite il
paese
in due (e la città di Buenos Aires) assicurandosi metà rete.
In piccolo il caso della Ote compagnia pubblica greca dei telefoni è
assai simile e tenta di sfuggire all'assedio da parte delle Telecom
maggiori allargando l'attività in Romania o appunto in Serbia.
La Serbia nella prima metà degli anni novanta ha deciso a sua volta di
privatizzare; ma se vi erano in Italia e probabilmente in Grecia molti
strati sociali e politici che contrastavano e contrastano, per quanto è

possibile, questa deriva, in Serbia le difficoltà per i privatizzatori,

capeggiati da Slobo Milosevich, devono essere state assai più forti,
anche per la tradizione autogestionaria del paese. Un intero partito,
lo
Jul, a volte indicato sommariamente come il partito personale di Mira
Markovich, moglie di Milosevich, capo del Partito socialista serbo, ha
in
sostanza avuto il compito di rappresentare gli interessi dei dirigenti
delle imprese e delle attività pubbliche in via di privatizzazione. Al
momento di stabilire chi ha comprato e chi ha venduto, chi avesse la
possibilità di mettere il veto e chi sia stato pagato per non farlo,
occorrerà riflettere su tutto questo. E tenere conto di una stranezza
nel
mondo variegato delle tangenti. Quelle che nella ricostruzione fornita
da
Repubblica appaiono come tangenti e subtangenti, sono
percentualmente identiche sul lato greco e su quello italiano dei
pagamenti; e questo farebbe pensare a compensi richiesti da chi vende
e non a quattrini per un intermediario dei compratori pagato due volte.

Ma si può anche pensare che approfittando di un intervallo tra due
periodi di sanzioni e embarghi, presumibilmente breve - e questo
Miloseviuh lo sapeva più di chiunque altro - i serbi incercassero di
tenere quattrini all'estero per avere fondi per gli usi pubblici o
privati,
militari o finanziari; chiunque avesse l'autorità di farlo. Certo c'è
quel
mattacchione di Milosevich che indica "quei mafiosi degli italiani"
come i
destinatari finali delle tangenti, ma non è necessario dargli retta.
Poi ci sono i serbi. Gli operai guadagnavano quando la Telekom era
loro,
sui 200 marchi al mese. Pochissimo certo, ma molto di più - più del
doppio - di quanto prendano ora, dopo che la Telekom è stata
modernizzata, venduta agli italiani (29%) e ai greci (20%) e poi
bombardata dagli stessi che l'avevano comprata due anni prima. Sì,
perché anche questa è una bella storia che potrebbe essere presa a
esempio da chi volesse spiegare la periodica autodistruzione che il
capitale realizza per aumentare il proprio tasso di profitto. E inoltre
da
quattro mesi gli stipendi non sono pagati e così i lavoratori
scioperano,
con manifestazioni. Italiani e Greci non sono popolari alla Telekom
serba.

"Il Manifesto" 03 Marzo 2001

Telekom Serbia, ancora sciopero?
I lavoratori chiedono aumenti salariali. E temono un "terzo
concorrente"
TOMMASO DI FRANCESCO

Ultimissime dalla vicenda Telekom-Serbia. I lavoratori dell'azienda
multinazionale che il 24 febbraio scorso avevano deciso di "congelare"
il
loro sciopero per dieci giorni, potrebbero tornare la prossima
settimana
in lotta, già a partire da mercoledì prossimo. Se, come promesso dal
nuovo governo serbo, i problemi in questo periodo non saranno risolti.
I belgradesi dunque, forse, li vedranno ancora una volta sfilare e
distribuire volantini. Nella loro piattaforma ufficiale chiedono con
forza
un aumento salariale del 100% e la costituzione del nuovo consiglio
d'amministrazione. Il loro salario medio è di circa 5.000 dinari (più
2.000 dinari per il pranzo) - dunque circa 7.000 dinari al mese, 230
marchi tedeschi (il tasso di cambio è da novembre fisso: 1 Dm=30
Dinari).
Gli impiegati laureati nell'azienda hanno il salario di circa 10.000
dinari
(più 2.000 per il pranzo) - in totale circa 400 Dm. I pagamenti - ci
dicono i lavoratori che abbiamo ascoltato - sono abbastanza regolari:
metà dello stipendio il 1 del mese, la seconda metà il 15, ed il pranzo
il
7 di ogni mese.
Naturalmente non ci sono solo questioni salariali (questi salari sono
bassissimi, ma quelli degli altri lavoratori sono da fame). Dietro la
voce
salariale non nascondono infatti le preoccupazioni per la stabilità del

posto di lavoro, sia per la gestione italiana e greca di questa
privatizzazione, ma soprattutto dopo le rivelazioni sull'"affare"
politico
internazionale che starebbe dietro la privatizzazione della telefonia
serba (del resto lo stesso sistema "segreto" utilizzato per tutte le
privatizzazioni a Est). Così, a mezza bocca, quelli che siamo riusciti
a
sentire direttamente parlano anche del timore che il governo,
attraverso
una proposta di legge del ministro delle telecomunicazioni Boris Tadic,

possa chiedere la costituzione di un nuovo polo di telefonia, il famoso

"terzo concorrente". In buona sostanza il governo, per prendere le
distanze dalla gestione della telefonia nel tempo di Milosevic, vuole
agevolare la presenza di un nuovo interlocutore. Si parla di interessi
tedeschi (che non sia servita anche a questo la vicenda delle
"rivelazioni"?).
Del resto le loro preoccupazioni sulla stabilità del posto di lavoro
sono
confermate da troppe voci. A Roma, quando abbiamo incontrato il nuovo
presidente del Parlamento, Dragoliub Micunovic, si è detto preoccupato
che tanto rumore alla fine non spingesse la Telekom a non mantenere i
propri impegni. Il presidente Colaninno non a caso decide di correre a
Belgrado. E che un terzo concorrente potrebbe insidiare le posizioni
della Telekom-Serbia è dato anche dai voraci appetiti che la telefonia
sollecita nei Balcani - dove, fatto surreale, proprio il livello
violento di
non-comunicazione tra individui e popoli ha contribuito alla
devastazione della guerra. Ma gli affari stanno tutti lì: così è andato
per
gli interessi tedeschi, della Siemens e della Telekom internazionale
nella telefonia dell'alleata Croazia, così è stato per i
favoreggiamenti
espliciti dell'ex Amministratore Onu del Kosovo, il francese Bernard
Kouchner, che ha facilitato, a dir poco, l'ingresso nella regione
martoriata dell'Alcatel, leader francese della telefonia mobile.
Surreale come la considerazione (del nostro Guglielmo Ragozzino su il
manifesto di venerdì 1 marzo) che - come da manuale, nell'intento del
capitale di avviare la propria periodica autodistruzione - è accaduto
che
i paesi che avevano investito nella telefonia di Belgrado siano stati
gli
stessi che hanno approvato, solo due anni dopo, i bombardamenti
"umanitari" sugli stabilimenti privatizzati (e sulle case dei
lavoratori).

---

Questa lista e' provvisoriamente curata da componenti
dell'ex Coordinamento Nazionale "La Jugoslavia Vivra'",
oggi "Comitato Promotore dell'Assemblea Antimperialista".

I documenti distribuiti non rispecchiano necessariamente le
opinioni delle realta' che compongono questa struttura, ma
vengono fatti circolare per il loro contenuto informativo al
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LA PROFEZIA DI ANDRE' MALRAUX

"Nel vostro paese succede qualcosa... Il pericolo principale viene
dall'Albania. Attenti a cio' che vi dico! Di li' puo' venire il peggio.
(...) Mi sorprende che voi jugoslavi non riusciate a capire. Lo sapete
che l'unica frontiera aperta in Europa e' quella tra l'Albania e la
Jugoslavia? E' una pazzia!... Fra due Stati con rapporti bilaterali tra
i peggiori su tutto il continente, si circola da un territorio all'altro
come se non ci fosse nessuna frontiera. (...) Se non lo sono gia', i
vostri nazionalismi possono essere manipolati, provocati, studiati fino
a spezzarvi. Un paese piu' piccolo, l'Albania, gia' sta approfittando di
questa occasione e, temo, in senso nefasto per voi. Che dire, poi, delle
grandi potenze che ficcano il naso dappertutto... Ho sentito anche di
certi calcoli che possono significare una spartizione della Jugoslavia a
meta'..."

Qualche mese piu' tardi, nell'estate del 1975, da Verrier, dove abitava
Malraux, ci hanno chiamato per andare a prendere il manoscritto che lo
scrittore aveva preparato come regalo per la Biblioteca Nazionale di
Belgrado. Sono arrivato a casa sua con il libro "Gli affreschi bizantini
in Jugoslavia". A caso ha aperto il libro alla pagina con il ritratto di
re Milutin, fondatore di Gracanica, ed ha esclamato: "Questo e' il
Trecento!", ed ha chiesto di mostrargli sulla cartina, nel libro, dove
si trova il monastero. Quando gli ho detto che si trova a Campo dei
Merli ha voluto che gli ripetessi il nome originale (Kosovo) e ad un
tratto, come scosso da qualcosa, ha esclamato: "E' gia' Albania!
Vedrete, ve l'assicuro!", ed ha continuato non badando al mio stupore.
(...) "Dovete aprire gli occhi dinanzi alla tragedia che si avvicina...
Il Kosovo non e' solo il paese della vostra storia, esiste nel cuore
della vostra cultura e la cultura, quando si tratta del valore piu' alto
che hai, non e' mai passato..."

(Testimonianza di Zivorad Stojkovic, su: "Rivista di Studi Slavi",
Parigi 1984)

---

Questa lista e' provvisoriamente curata da componenti
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              ANTIWAR, Thursday, March 8, 2001

              Balkan Express
              by Nebojsa Malic
              Antiwar.com

              The Fourth Balkan War

              On Tuesday night it seemed as if the Albanian militants
who invaded the
              Macedonian border village of Tanusevci [Tanushevtsy] were
retreating,
              unhindered, into Kosovo after Monday's pitched battle with
Macedonian
              forces. Despite the fierce fighting, government forces did
not manage to
              dislodge the militants, who were well-armed, even better
positioned, and
              protected by minefields. Three Macedonian soldiers were
killed during
              the operation - two hit landmines and bled to death, as
Albanians shot
              at KFOR helicopters that tried to evacuate them, while one
was killed by
              sniper fire. Parallel to NATO's statements that the
militants were
              supposedly retreating, the government in Skopje said the
insurgency was
              far from over. The army detected traces of militants that
suggested
              other villages in the area might have been affected. Prior
experience
              indicates that this is not the last Macedonians have seen
of the
              "National Liberation Army," or the last attempt of
militant Albanians to
              carve out their desired Balkan empire.

              ONE, TWO, THREE

              Early in the 20th century, the continued Ottoman
occupation of Balkan
              lands was of great concern to those nations that spent the
prior century
              struggling for their freedom. In 1912, they formed a
coalition and
              attacked the Turks in what became known as the First
Balkan War, driving
              them almost all the way back to the Bosporus before
Austria-Hungary
              intervened to stop the Turkish defeat. The great powers
then dictated
              the terms of peace, creating Albania as a state and
limiting the
              territorial gains of Serbia and Greece. Bulgaria, unhappy
with its share
              of the spoils, attacked Serbia in 1913. Other allies
joined Serbia and
              defeated Bulgaria in the Second Balkan War, which gave the
Turks a
              chance to recapture some territory and cut Bulgaria off
from the Aegean.
              Events of the 1990s could justifiably be called the Third
Balkan War -
              as events from 1991 to 1995 represented a continuum that
ended with the
              Dayton Agreement, once again a solution forced upon the
combatants by
              the world powers. Given that the fighting in Kosovo, which
started in
              1998, stopped only under a temporary armistice between
NATO and
              Yugoslavia in June 1999, we might as well face the stark
reality that we
              are in the middle of the Fourth Balkan War. The stakes are
as high this
              time as they were ninety years ago, or ten years ago, and
the
              bloodletting may have just begun.

              CAUSES OF WAR

              At the heart of this Fourth War is the Albanian drive for
separation,
              not only from Serbia but from Macedonia, Greece and even
Montenegro.
              Whether this separation serves the purpose of a "Greater
Albania," or a
              "Greater Kosovo" seems immaterial. The program of Greater
Albania is,
              after all, advocated by Kosovo Albanians more than any
others, and the
              future capital of this "country" is supposed to be in
Pristina, not
              Tirana. Albania proper may be on the periphery of events
right now, and
              could even express public criticism in order to deflect
bad press, but
              there is little doubt it would join a Greater Kosovo if
that monstrous
              creation ever came into being.

              PATTERNS OF BEHAVIOR

              From what little is known of them, it seems the Albanian
militants in
              Macedonia have the same modus operandi as those in
southern Serbia, even
              the KLA in Kosovo. It seizes and holds a village or
multiple villages,
              provoking an armed response. At the same time, it rants
and raves to the
              international press about the horrible "repression"
Albanians are
              subjected to. Once attacked by government forces, the
insurgents fight
              hard, then withdraw, taking or ordering many civilians
along. These
              "refugees" are then used to bolster the militants' claim
of "genocide"
              now pursued by the government that have until then merely
"repressed"
              them. Of course, the militants declare their absolute
commitment to a
              peaceful solution, which invariably entails the de facto
separation of
              the territories they claim, and its placement under
international
              protectorate or armed occupation. This "peace process"
should be
              "mediated" by an external broker, preferably NATO or the
US. This was
              the case at Rambouillet in early 1999, and the Albanians
claiming
              Presevo valley in southern Serbia are demanding it be the
case again. If
              the pattern holds, Albanians from Macedonia are likely to
make a similar
              demand in a month or so. All along, however, these
militants will refuse
              to disarm, retreat or disband, claiming their existence is
necessary to
              "protect and defend" their people. They are, of course,
open to the
              possibility of "demilitarization" by submitting to NATO
command and
              getting on the payroll, as the "reformed" KLA did by
transforming into
              the KPC.

              EASY PICKINGS

              Another mark of Albanian militants is that their attacks
usually follow
              the path of least resistance. If fought decisively they
will retreat and
              regroup, but never quit. At this point, Macedonia and
Yugoslavia are
              both theoretically strong enough to deal with the
militants. However,
              they are hobbled by NATO's insistence on restraint and, in
come cases,
              indirect support for the militants. In Yugoslavia's case,
the lingering
              effect of the conflict with Kosovo militants has left a
bad taste in
              Belgrade's mouth - not to mention depleted uranium marks -
and seriously
              undermined the new government's will to fight. Barred from
resolving the
              issue themselves, they demand of NATO to intervene on
their behalf. The
              logic of this is most peculiar, especially in the case of
Yugoslavia,
              officially still the enemy of NATO in Kosovo. For if
Yugoslavia were not
              considered an enemy, there would be no need for KFOR's
continued
              occupation.

              Both Macedonia and Yugoslavia have other problems, which
further weakens
              their capability for self-defense. Macedonia has to find a
way to act
              without alienating a large Albanian population, whose
representatives
              are part of the ruling coalition government. The issue of
its official
              name and southern border, which was about to be resolved
with Greece,
              was postponed due to the Albanian attack, and represents a
permanent
              strategic liability.

              Yugoslavia also has to deal with a potentially fatal issue
of
              Montenegrin secessionism, running more rampant as the
country weakens.
              The cobbled-together government of Serbia is very
politically unstable
              and often contradicting itself. As if that weren't enough,
the US-funded
              War Crimes Tribunal continues to blackmail and pressure
Belgrade on the
              issue of its former leaders, indicted for alleged (and yet
unproven) war
              crimes as a boost to NATO's position during the 1999 war.
This
              relentless pressure also magnifies the scope of new
Albanian claims of
              "repression and genocide," propaganda which defies
countermeasures in a
              US/NATO-dominated media world. Even Macedonia has to be
sensitive to
              these accusations, because Balkans mud does not come off
easily.

              LOCAL INTEREST

              The surrounding countries are also interested in the
progress and
              outcome of the conflict. In the west, Croatia hopes the
region would
              calm down but also secretly hopes Serbia would be further
weakened and
              eliminated as a rival. Croat and Muslim ethnic interests
in Bosnia are
              also watching, hoping that Serbia's defeat could open the
possibility of
              "revising" the Dayton treaty by taking out the Serbs
within Bosnia's
              boundaries. In the most moderate scenario, the Serbs would
be
              assimilated into a unitary state. In some less amicable
plans, they
              would meet the fate of Croatian Serbs at the end of the
Third War.

              In the north, there is a growing possibility that Serbia's
province of
              Vojvodina might split off if Albanians have their way. A
sizable
              Hungarian population there could likely advocate
annexation by Hungary.
              Bulgaria could also hope to increase its territory, by
marching into
              what's left of Macedonia after the Albanians are done.
Some fear that
              Bulgaria's offer to send troops to help fight the
Albanians might be the
              first act of just such a move. Moreover, a week ago
Bulgaria's president
              signed a treaty with NATO giving its troops free access to
all of
              Bulgaria.

              Greece has plenty of reasons to worry, as Albanian
aspirations include
              some of its territory as well. If Albanians are allowed to
expand and
              grow stronger, it may be just a matter of time before
Greece is "asked"
              by its NATO allies to relinquish the so-called "Chameria"
region, "in
              the interest of regional stability," of course.

              THE GREAT POWERS

              A common thing to all four Balkan Wars has been the
presence of a
              "shadow participant" - the great power(s). In the First
and Second, the
              strongest force was Austria-Hungary, backed by Germany. In
the Third and
              Fourth, without a doubt, that force is the United States,
through NATO.

              Why? United States' motivation is an area that deserves a
column - and
              volumes of books - in its own right. But it is more than
anything else,
              "realist". It seeks the greatest tangible gains at the
lowest cost.
              American involvement in Bosnia, according to Ambassador
Richard
              Holbrooke, reasserted US leadership in Europe. This
purpose was again
              served in Kosovo, when the US dragooned its European
allies into
              launching a war against Yugoslavia in violation of the
entire body of
              international law. Even though the war barely achieved its
publicized
              objectives, it was far more successful at revamping NATO
as the tool of
              US domination in Europe and elevating it above the UN as
the supreme
              arbiter of conflicts in the "Atlantic" sphere of
influence, wherever it
              might reach.

              Some politicians in Yugoslavia and Macedonia live under
the illusion
              that NATO fought the Kosovo war in the name of democracy,
human rights
              and international law. This assumption has tremendous
potential to prove
              fatal to both countries. The US (and hence NATO) could
care less about
              the first two, save to use them as propaganda slogans,
while they
              brazenly violated the third. If power is America's
foremost goal, why
              would it possibly risk aiding the powerless FRY and
Macedonia at the
              expense of Albanian militants its special forces and
contractors had
              trained and equipped, and on whose behalf its bombers went
to war?

              Last, but not least, the United States and its allies
enjoy domination
              in the media theater, thanks to which they can
effortlessly manipulate
              propaganda and perceptions in favor of their allies. Thus
a Reuters
              reporter can write an absolutely irrational statement that
NATO is
              "worried the gunmen, emboldened by the success or an armed
struggle in
              Kosovo, might extend it to Macedonia" (Reuters, March 6),
while leaving
              out that the "gunmen" owe the success of their "armed
struggle in
              Kosovo" squarely to the Alliance's bombing spree against
everything that
              moved in Serbia, so that NATO's concern stems from either
idiocy or
              hypocrisy.

              WORDS AND DEEDS

              Manipulation of facts is a tremendously understated
weapon. Hypocrisy is
              another. The US is officially striving for stability in
the region. And
              indeed, it might be. A Greater Albania and an expanded
Bulgaria, both in
              America's fold and leaning on Turkey as a staunch US ally,
would ensure
              US domination over southern Europe for decades, and enable
the Empire to
              push into central Asia, towards the vast oil and gas
fields of the
              former Soviet Union. As for the public US commitment to
the integrity of
              borders, the same policy espoused by the Bush I
administration never
              stopped Ambassador Warren Zimmerman from doing his best to
encourage the
              destruction of Yugoslavia by 1992. As Zimmerman himself
said to a
              Croatian magazine in 1992, "nothing is forever." Respect
for borders and
              sovereignty would imply respect for international law,
which the US and
              NATO got to be immune from since their 1999 bombing war.
Hoping that the
              Empire would actually favor ideological ends - protecting
democracies,
              for example - over practical gains is, to put it mildly,
irrational.
              Freed from any moral responsibility, the Empire would
sacrifice anyone
              and anything - especially the people it has demonized for
so long - if
              the result of that sacrifice was more power and more
money.

              Hence, if the US could interfere in the Third Balkan War
to assert its
              domination over Europe and help start the Fourth to cement
this
              leadership, what makes anyone think it would abandon that
objective, or
              the war that leads to it, midway through the fighting? Two
years after
              the armistice, under a new leadership anxious to prove
itself in battle,
              it might be time again to show the increasingly uppity
European vassals
              who the real rulers of the known world are, and if the
Balkans is
              secured in the process, why that would be splendid.

              Just splendid.
 
---

Questa lista e' provvisoriamente curata da componenti
dell'ex Coordinamento Nazionale "La Jugoslavia Vivra'",
oggi "Comitato Promotore dell'Assemblea Antimperialista".

I documenti distribuiti non rispecchiano necessariamente le
opinioni delle realta' che compongono questa struttura, ma
vengono fatti circolare per il loro contenuto informativo al
solo scopo di segnalazione e commento ("for fair use only").
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