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Operazione Foibe continua...
 
1) Trieste 8/1: Presentazione del nuovo libro di Claudia Cernigoi "Operazione Plutone. Le inchieste sulle foibe triestine"
2) Alessandro Pascale: Le foibe e il 10 febbraio, "giorno del ricordo"
 
 
Segnaliamo che nel 2018 è stato pubblicato sul sito diecifebbraio.info un nuovo aggiornamento dell'Elenco dei premiati per il "Giorno del ricordo". Sono state trovate informazioni per ulteriori 9 nomi passando, rispetto al precedente elenco del 2017, da 345 a 354 riconoscimenti:
http://www.diecifebbraio.info/elenco-dei-premiati-per-il-giorno-del-ricordo/
 
 
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Trieste, martedì 8 gennaio 2019 
alle ore 17:30 presso il Circolo della Stampa di Trieste, Corso Italia
 
Presentazione del libro di Claudia Cernigoi
 
Operazione Plutone. Le inchieste sulle foibe triestine
 
Udine: Edizioni Kappa Vu, 2018

Introduce Pierluigi Sabatti, presidente del Circolo della Stampa, presentazione dell'avvocato Alessandro Giadrossi.
 
Una delle tante mistificazioni diffuse in materia di “foibe” è quella che contro gli “infoibatori” non furono mai celebrati i processi. 
In realtà all’epoca del Governo Militare Alleato (GMA), e nello specifico tra il 1946 ed il 1949, a Trieste furono celebrati una settantina di processi per questi reati, conclusisi a volte con assoluzioni od amnistie, altre volte con condanne anche pesanti.
È proprio perché su queste vicende si è parlato e si continua a parlare citando acriticamente (e spesso anche in modo distorto) documenti che in realtà non sono basati su fatti ma solo su illazioni od opinioni, che l’Autrice ha sentito la necessità di fare una disamina delle relazioni sui recuperi dalle foibe triestine e delle vicende giudiziarie che ne sono seguite, in modo da presentare una visione il più possibile esaustiva di queste tematiche. 
Nella prima parte del testo, dopo l’analisi dell’attività di recupero delle salme e delle indagini condotte quasi tutte dall’ispettore Umberto De Giorgi, vengono approfonditi gli iter processuali relativi alle esecuzioni sommarie avvenute presso le foibe di Gropada e di Padriciano e la foiba di Rupinpiccolo, evidenziando come non sempre le risultanze giudiziarie siano coerenti con quanto appare in altra documentazione. 
La seconda parte è invece dedicata allo studio dei fatti che culminarono negli “infoibamenti” dell’abisso Plutone, presso Basovizza: l’Autrice ha analizzato assieme ad uno dei protagonisti, Nerino Gobbo, i documenti giudiziari e le varie testimonianze, contestualizzandoli nel periodo storico in cui si svolsero, in modo da dare una descrizione ancora inedita di quanto accade nel periodo cosiddetto dei “40 giorni” di amministrazione jugoslava di Trieste.
 
 
 
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www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 10-02-18 - n. 661

Le foibe e il 10 febbraio, "giorno del ricordo"

Alessandro Pascale

10/02/2018

Nel 2004 con la Legge n° 92/2004, la Repubblica Italiana ha istituito il "Giorno del Ricordo", per omaggiare "la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale". Da diversi anni tale ricorrenza è utilizzata per commemorare il fantomatico "eccidio di Italiani" che sarebbe avvenuto durante la Resistenza ad opera dei partigiani "slavo-comunisti" nella Venezia Giulia. Gente che sarebbe stata gettata ancora viva in cavità carsiche (le foibe appunto) dove sarebbe stata lasciata morire tra enormi atrocità per il solo fatto di essere italiana. In queste foibe sarebbero state gettate migliaia, decine (e qualcuno arriva pure a dire centinaia) di migliaia di persone. Nel 2002 l'allora Presidente della Repubblica Ciampi disse che le foibe furono una "pulizia etnica". Galliano Fogar, storico dell'Istituto Regionale friulano per la Storia del Movimento di liberazione, ha affermato che nessuno storico serio "osa sostenere tale tesi". Vediamo di ricostruire in maniera completa i fatti storici che si intrecciano alle vicende di un'area, quella dei Balcani, che per secoli è stata un crogiuolo di etnie, popoli, lingue e religioni assai diversificati, ma viventi in relativa tolleranza e tranquillità.

1) 1918-1940 - Le premesse

Nel 1918 la vittoria dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale rinfocola in alcune frange del Paese idee e velleità imperialiste e irredentiste, sempre ampiamente finanziate e sostenute da settori della Confindustria e dell'Alta Finanza. Ricordiamo a tal riguardo i finanziamenti provati all'Associazione Nazionalista Italiana fondata nel 1910, responsabile culturale primaria dell'interventismo italiano prima in Libia poi contro l'Austria-Ungheria, e il parallelo finanziamento dei progetti politici di Mussolini. In questo clima si assiste anche all'episodio di Fiume, con cui D'Annunzio ha occupato la città con mille uomini per un anno godendo di protezioni politiche ed economiche. Nel 1920 viene siglato il Trattato di Rapallo, con cui l'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabiliscono consensualmente i confini dei due Regni e le rispettive sovranità: l'Italia non otteneva la Dalmazia (come da accordi del Patto di Londra, 1915), bensì solo Zara e alcune isole, oltre chiaramente all'Istria, Trieste, Gorizia e Gradisca. In tutto si trattava di 356 mila sudditi "italiani" nuovi. Ne erano esclusi 15 mila, ancora interni alle frontiere slave, ma compensati da 500 mila sloveno-croati ora cittadini italiani.

È immediato il tentativo di violenta assimilazione culturale: nel 1919 vengono chiuse 45 scuole croate su 49. Il razzismo del fascismo si manifesta la prima volta, quasi vent'anni prima delle leggi contro gli ebrei, nel '20 a Pola con le parole di Mussolini: «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone». Con la Legge Gentile del 1923 vengono chiuse in generale tutte le scuole non italiane presenti nel Paese. 500 scuole elementari slovene-croate sono strasformate in scuole dove si parla solo nella lingua di Dante e Manzoni. Poi iniziano le violenze squadriste, che partono nel 1919 con intensità crescente fino al 1922: nel 1920 viene incendiato il Narodni Dom, la sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, nel quale si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo. Capitano episodi come questo: 21 fascisti sparano a bambini da un treno, facendo 2 morti e 5 feriti. In un susseguirsi di violenze oltre 1000 circoli culturali, sportivi e assistenziali sloveno-croati sono chiusi, i loro beni e le sedi confiscate e date ad organizzazioni fasciste.

Con il rafforzamento istituzionale al potere del fascismo si intensifica l'italianizzazione forzata della regione, in ossequio ai principi nazionalisti propagandati da Mussolini: si assiste all'allontanamento o al trasferimento di dipendenti pubblici non italiani, all'italianizzazione di toponimi, nomi e cognomi stranieri. Inizia a questo punto la Resistenza della minoranza oppressa anche culturalmente e umanamente oltre che socialmente e politicamente. Nascono organizzazioni come TIGR e BORBA che adottano forme di lotta armata come risposta alla violenza subita. La repressione è spietata: tra il 1927 e il 1943 vengono svolti 544 processi a sloveno-croati, dando luogo a 476 condanne, 33 delle quale alla pena di morte.

2) 1941-1943 – L'aggressione militare italiana

Durante la guerra la repressione aumenta di intensità: a Trieste e nei territori italiani viene accentuata la repressione antislava e anticomunista con l'istituzione di diversi organismi, tra cui l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, la Polizia Economica, la Guardia Civica, la Milizia di Difesa Territoriale, la Guardia di Finanza e la Decima Mas. Un esempio di repressione è la Strage di Lipa, sulla strada tra Fiume e Trieste, avvenuta il 30 aprile 1944: in rappresaglia ad un attacco partigiano che ha ucciso 4 soldati tedeschi le truppe nazifasciste radunano gli abitanti sparsi nelle vicinanze, li stipano in un casolare e li bruciano vivi. Gettano poi bombe a mano per distruggere completamente la casa e rendere impossibile un riconoscimento delle vittime. I morti sono 269, fra cui donne e bambini (tre bambine non avevano neanche un anno).

Nell'aprile 1941 forze italo-tedesche invadono il Regno di Jugoslavia che viene sottomesso in un paio di settimane. Tra le ragioni della partecipazione italiana è da segnalare che nel periodo dal 1925 al 1934 si è sviluppata un'ampia propaganda a sostegno del mito della "vittoria mutilata", in riferimento al mancato rispetto del Patto di Londra nell'ambito dei trattati di Pace della Prima Guerra Mondiale. Il tema è ampiamento ripreso dal fascismo che amplifica la politica nazionalistica e imperialista del regime. Ne segue da parte dei Servizi Segreti italiani in questo periodo il finanziamento a gruppi terroristici nazionalistici macedoni, kosovari e gli Ustascia croati. L'obiettivo è esasperare e rendere impossibile la convivenza etnica così da favorire in seguito all'annessione militare lo smembramento del Paese: in questi anni si diffonde anche culturalmente sulle riviste italiane l'idea di una "grande Croazia" e di una parallela "grande Albania", strutturati su sistemi fascisti simili a quello italiano. In tale ottica all'Italia sarebbero andati l'egemonia sulla Serbia e sulla Slovenia.

Con la sconfitta jugoslava del 1941, il ruolo militare giocato dai Tedeschi fa si che siano loro a decidere nei fatti la spartizione territoriale. All'Italia si accorda il controllo diretto del Montenegro, della Dalmazia, della Slovenia meridionale e del Kosovo. In Croazia viene favorita la nascita dello Stato collaborazionista degli Ustascia fascisti di Ante Pavelic. Tale regime ottiene l'appoggio politico del Vaticano e del clero locale, nonostante su una popolazione di 6 milioni di persone solo il 50% sia cattolica. Seguono anni di violenze, stragi e persecuzioni da parte dei croati contro le etnie rom, i serbi e gli ebrei. Si può parlare di un vero e proprio sterminio etnico. Nel solo lager di Jasenovac muoiono 100 mila persone. Una parte di questi lager sono situati nelle zone di occupazione italiane, a Pag e Jadovno, nella connivenza totale delle autorità politiche e militari italiani. L'arcivescovo di Zagabria, Stepinac, legittimò questa pulizia etnica sostenendo il regime reazionario clerico-fascista di Pavelic, e dichiarando che tutto ciò fosse in nome di Dio. La chiesa cattolica ebbe così un ruolo di primo piano nell'Olocausto balcanico giustificandolo come una conversione di massa degli infedeli (serbo-ortodossi). Il frutto di questo regime criminale sostenuto dal Governo Italiano è di 240 mila persone obbligate a convertirsi al cattolicesimo, di 300 mila esuli in fuga dal Paese e di oltre 500 mila serbi uccisi, da aggiungersi ai 25 mila ebrei e a 20 mila rom. Di questi fatti è data perfino notizia sulla stampa italiana, sulla quale però compare anche il sostegno esplicito e consapevole dei fascisti italiani. Molte sono le testimonianze degli stessi soldati italiani presenti alle esecuzioni degli Ustascia. Citiamo quella del generale Ponticelli, in una intervista rilasciata al giornale "Il Tempo": "...quattro lustri di odio sono esplosi in un massacro che in un breve lasso di tempo ha avuto quale risultato lo sterminio di 350 mila serbi e decine di migliaia di altri... Tutti furono uccisi con torture inimmaginabili... Tutto può essere facilmente accertato e apparire in tutte le sue atrocità... Gli orrori che gli ustascia hanno commesso sulle ragazze serbe superano ogni idea... Centinaia di fotografie confermano i misfatti subiti dai pochi sopravvissuti: colpi di baionetta, lingue e denti strappati, occhi estirpati, seni tagliati, tutto ciò accadeva dopo che esse erano state violentate...".

In questo contesto nasce e si sviluppa la Resistenza Partigiana guidata dal Partito Comunista, il cui leader è Josip Broz, detto Tito. Questi propone a chi lo segue di ricostruire il Paese jugoslavo con l'unità delle varie etnie presenti ma rinnovando profondamente la società, con l'abbattimento dei rapporti di produzione capitalistici e l'instaurazione di un regime socialista. È contro i partigiani titini che si svolgono a questo punto le manovre militari italiane. Viene intensificata l'occupazione e la militarizzazione del territorio e si risponde alla rivolta slavo-comunista con la repressione selvaggia. Si prendono perfino accordi con un altro gruppo partigiano, quello di "destra" dei cetnici, nazionalisti monarchici guidati da Mihailovic (la cui organizzazione prenderà il nome di MVAC dal '42, arrivando a contare circa 100 mila unità). Questi preferiscono rivolgere le armi contro i partigiani comunisti piuttosto che contro gli occupanti stranieri. Gli italiani giocano così con successo la tattica del "Divide et Impera". Il generale italiano Roatta a tal riguardo ha detto chiaramente: "si sgozzino tra di loro". Nella repressione del movimento partigiano si distinguono per ferocia anche gli Ustascia croati: per ogni caduto dell'Asse vengono giustiziati 10 prigionieri comunisti.

Dall'altra parte i titini ricevono direttive ben precise: non bisogna scatenare punizioni collettive contro i prigionieri di guerra ottenuti: i soldati semplici catturati vanno cooptati nelle proprie fila, vanno tenuti ostaggi o se la situazione non lo consente vanno rilasciati. Diversa sorte invece per gli ufficiali militari e i riconosciuti fascisti, ustascia e nazisti, che vengono giustiziati. Facile capire il perché: le maggiori violenze italiane sono messe in atto da squadre e truppe speciali fedeli direttamente al Partito Nazionale Fascista. Sono insomma le truppe più fanatiche ed esaltate di odio razzista e anticomunista. Al comando dei generali Robotti e Roatta sono in tutto più di 300 mila i soldati italiani nella regione. A loro viene ordinato di mettere in atto quello che è un vero e proprio regime di "terrore" contro le popolazioni civili. Le pratiche usate sono rappresaglie, deportazioni, confische, cattura di ostaggi, fucilazioni. In un discorso rivolto ai soldati della Seconda Armata in Dalmazia, nel 1943, Mussolini afferma: "So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori." Si segue la tattica della terra bruciata, tanto che gli italiani vengono chiamati dalla popolazione locale con epiteti che significano "bruciacase" e "mangiagalline". I partigiani catturati sono sempre fucilati. Spesso basta il semplice sospetto di essere legati ai partigiani per perdere la vita. Il tutto vale anche per le donne. In almeno un caso è attestato che sia stata fucilata anche una donna incinta. La guerra viene condotta dall'Italia con uno stile che in passato era stato riservato solo alle popolazioni coloniali africane. Gli alleati Tedeschi fanno lo stesso e applicano la regola per cui ogni morto tedesco meriti la fucilazione di 100 slavi. L'Italia, per ordine del generale Biroli, ritiene che un soldato semplice valga 10 slavi, ma se si tratta di un ufficiale allora si debba rispondere con 50 esecuzioni. Mussolini propone di procedere alla nuova equazione per cui ad ogni semplice ferito seguano 2 fucilati, alzando la quota a 20 slavi per ogni soldato italiano morto. 100 mila slavi sono deportati in 50 campi di concentramento presenti nell'Italia centro-meridionale, in 10 campi dell'Italia settentrionale, e nei campi costruiti sul luogo, come Gonars e Arbe. In quest'ultimo su 10 mila internati sono 2 mila i morti.

Durante questi anni di repressione e di occupazione il partito comunista serbo si organizza e già nel 1941 arriva a contare su 80 mila partigiani. La parola d'ordine lanciata dai partigiani jugoslavi è "Smrt fazismu - Slaboda narodu" (Morte al fascismo - Libertà al popolo). Al termine della guerra l'esercito partigiano guidato da Tito è il più grande in tutta l'Europa occupata, arrivando a contare circa 800 mila uomini, trasformandosi nella fase finale della guerra in un vero e proprio esercito regolare capace di liberare autonomamente il Paese dal nazifascismo senza alcun contributo militare esterno, con il solo aiuto di due formazioni partigiane formate dagli ex militari italiani: la Divisione Garibaldi e la Divisione Italia. La prima opera in Montenegro e raduna circa 16 mila combattenti. In tutto saranno 7000 gli italiani morti combattendo tra le fila partigiane di Tito, andando a riscattare almeno in parte il nostro popolo che aveva portato il flagello del fascismo e della guerra.

3) 1943-45 Le foibe

Occorre certamente avere presente tutta questa storia pregressa per capire il fenomeno delle "foibe", il quale comunque va spiegato nel dettaglio. I momenti messi in discussione sono due:

a) il primo riguarda il periodo successivo all'8 settembre 1943, data in cui il generale Badoglio, che ha preso il potere d'accordo con la monarchia e i fascisti destituendo Mussolini, annuncia l'armistizio e l'uscita dell'Italia dalla guerra. Nell'anarchia che colpisce l'esercito privo di direttive chiare, la nostra penisola viene invasa dai tedeschi e nella zona dell'Istria si crea un vuoto di potere di cui approfittano i partigiani, che riescono a liberare temporaneamente le principali città esercitando un mese di potere popolare. La rabbia popolare e la denuncia dei crimini di guerra dei nazifascisti porta a realizzare centinaia di processi popolari che portano a 500 condanne a morte eseguite. Di questi solo un centinaio sono "civili", incriminati per la loro attività di collaborazionismo con le istituzioni nazifasciste. La stragrande maggioranza sono giustiziati per fucilazione, e solo una piccola parte dei cadaveri viene poi gettata nelle foibe, per ragioni di disorganizzazione, di fretta e di igiene (prevenire epidemie). Queste grotte d'altronde sono state spesso usate come "cimiteri", specie in tempo di guerra, tant'è che le avevano usate anche nella Prima Guerra Mondiale e gli stessi fascisti italiani negli anni precedenti. Inammissibile che per l'episodio in questione si possa parlare di "pulizia etnica". Si può segnalare a tal riguardo come l'8 gennaio 1949 un giornale locale di destra come "Trieste Sera" fosse costretto ad ammettere: "se consideriamo che l'Istria era abitata da circa 500mila persone, delle quali oltre la metà di lingua italiana, i circa 500 uccisi ed infoibati non possono costituire un atto anti-italiano ma un atto prettamente anti-fascista. Se i partigiani rimasti padroni della situazione per oltre un mese avessero voluto uccidere chi era semplicemente "italiano", in quel mese avrebbero potuto massacrare decine di migliaia di persone". Chi commette un vero ed efferato sterminio sono le SS assieme ai repubblichini di Salò quando nell'inverno del '43 riprendono il controllo della penisola istriana e massacrano 13mila persone. La maggioranza dei cadaveri (questi sì) viene gettata nelle foibe.

b) il secondo caso riguarda 40 giorni di potere partigiano nel maggio del 1945. In quel periodo scompaiono tra le 2000-3000 persone. Si tratta sempre di uomini e donne processati per la loro conclamata corresponsabilità in crimini di guerra e in atti di collaborazionismo con il nemico oppressore ora sconfitto. I processi politici sono svolti spesso in maniera sommaria e contro le indicazioni venute dal centro politico della direzione partigiana titina. Ad essi seguono fucilazioni, arresti e deportazioni in campi di prigionia. Pochi sono i cadaveri dei giustiziati che sono finiti nelle foibe. Le stime complessive parlano di 500 persone in tutto tra il '43 e il '45. È del tutto falso che fosse pratica usuale quella di giustiziare direttamente i condannati sull'orlo della foiba. Storiche locali come Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan parlano di un ordine di grandezza di alcune decine di infoibati collegati per lo più alle forze fasciste e di occupazione. Sulle famigerate foibe in cui si sostiene siano state gettate migliaia di italiani, le loro ricerche evidenziano che: nella foiba di Basovizza (che non è nemmeno una foiba ma il pozzo di una miniera), quando si è scavato alla ricerca di corpi, si sono trovati i resti di alcuni militari tedeschi risalenti alla prima guerra mondiale e qualche carcassa di animale; nella foiba di Opicina (Monrupino) si trovarono solo alcuni corpi di soldati morti in battaglia gettati lì per evitare che le carcasse diffondessero epidemie; nella foiba di Fianona non si è mai trovato nulla e nella zona nessuno ha mai sentito parlare di corpi ivi gettati. Infine, si è pure parlato delle foibe di Fiume…c'è solo un piccolo problema: a Fiume non ci sono foibe! L'unica foiba in cui si rinvennero i cadaveri di 18 fucilati è l'abisso Plutone. Si tratta in questo caso di prigionieri fascisti che vennero fucilati dalla cosiddetta banda Steffè, una banda composta in realtà da militari della X MAS che commettevano crimini facendosi passare per partigiani al fine di screditare questi ultimi agli occhi della popolazione.

Al di là del fenomeno contestato delle foibe occorre ribadire il bilancio bellico finale nella regione jugoslava, che ha visto morire 15 mila italiani a fronte di un milione di slavi.

4) 1945-50s – L'esodo

Con il Trattato di Pace di Parigi siglato il 10 febbraio 1947 la gran parte dell'Istria viene assegnata alla Jugoslavia, grazie ad accordi che verranno stabilizzati definitivamente solo con il Trattato di Osimo del 1975. A questo punto entra in gioco il tema dell'esodo, ossia della cosiddetta "cacciata" degli italiani dalle terre entrate a far parte della Jugoslavia. In realtà non c'è mai stata nessuna cacciata né tantomeno una persecuzione degli italiani in quanto tali. La presenza italiana in Istria e Dalmazia è rimasta viva ed attiva da allora fino ad oggi: sotto la Jugoslavia ha goduto sempre di tutele (scuole, istituzioni culturali, bilinguismo ecc) ed ancora oggi, nonostante il nazionalismo croato abbia ripreso vigore, è rispettata. A parte chi si macchiò di gravi colpe, nessuno fu costretto a lasciare la propria casa. L'esodo fu un'iniziativa volontaria, spalmatasi nell'arco di un decennio, della maggioranza della popolazione italiana presente in Istria e Dalmazia. Tra le 200 e le 250 mila persone emigrarono dalla regione, la gran parte verso l'Italia ma anche verso altri Paesi (Canada, USA, Australia). Occorre ricordare che agli abitanti delle zone divenute jugoslave venne data la possibilità di decidere quale cittadinanza scegliere, tant'è che in questo flusso migratorio si infilarono anche 30 mila croati e 10 mila sloveni, che non gradivano l'idea di vivere in uno Stato socialista. Questa in effetti è stata la principale motivazione per cui anche migliaia di italiani, in molti casi insediatisi sul territorio in epoca fascista, decisero di rientrare in Italia per il timore di essere identificati come ex fascisti e perdere il posto di lavoro; contano anche le pressioni del Governo italiano e del CLN di Fiume e Pola, controllati dalle forze partigiane più moderate e nazionaliste. L'assenza di una politica esplicitamente discriminatoria nei confronti degli italiani è confermata indirettamente dal fatto che 2500 operai italiani della "Cantieri riuniti" nell'arco del biennio '46-'48 decidono di trasferirsi a Fiume e Pola per lavorare al servizio del nuovo Stato socialista.

5) Il revisionismo storico

Dato che questi sono i fatti accertati storicamente, perché e come si è arrivati ad istituire il 10 febbraio "giornata del Ricordo"? Per 50 anni in effetti la retorica delle decine di migliaia di italiani "infoibati" e di altre centinaia di migliaia "in fuga" ha fatto parte solo della propaganda neofascista, mentre né lo Stato Italiano né le principali forze politiche italiane (ma neanche gli storici seri) hanno mai posto con forza la questione. Ciò è dipeso da svariati fattori, non ultime le ragioni della Guerra Fredda che vedeva la Jugoslavia un Paese sì socialista ma "amico" dell'Occidente, risultando così sconveniente polemizzare su tali fatti, sapendo peraltro quanto sarebbe stato facile agli jugoslavi rinfacciare i disastri compiuti dall'aggressione fascista, mostrando il reale rapporto di causa e conseguenza. Questi temi trovano nuovo spazio all'inizio degli anni '90, in un nuovo contesto storico che ha visto il crollo dell'URSS e della Jugoslavia socialista, ma anche del forte e radicato PCI. Nel 1994 va al Governo in Italia Silvio Berlusconi, alla guida di un'alleanza politica di centro-destra comprendente per la prima volta nella storia repubblicana forze politiche di origine fascista (Alleanza Nazionale, ex-MSI, il partito nostalgico del fascismo durante la Prima Repubblica). In questo periodo inizia anche in Italia l'accostamento tra fascismo e comunismo nell'ambito degli opposti totalitarismi criminali e in tale ottica risulta utile riprendere anche il tema delle foibe, su spinta della destra italiana, che appoggia e sostiene pubblicamente una serie di storici e di "testimoni" di simpatie e trascorsi fascisti, che pubblicano una serie di lavori su cui è stata espressa una dubbia metodologia scientifica.[1]

Anche le forze di centro-sinistra, in buona misura ex-comuniste, appoggiano e sostengono tali processi di revisionismo, per mostrare di aver tagliato i ponti con le ideologie passate e per legittimarsi pienamente al Governo dopo 50 anni di "fattore K" (ostruzione dei comunisti dal Governo per le ragioni della Guerra Fredda). Hanno poi una grande responsabilità i presidenti della Repubblica Ciampi e Napolitano, che inseriscono il "giorno del ricordo" in un progetto complessivo in cui rientra anche la ripresa delle celebrazioni in pompa del 4 novembre, "festa delle forze armate e dell'unità nazionale" tesa a celebrare la vittoria della Prima Guerra Mondiale, un massacro di contadini e lavoratori definito "inutile strage" perfino da Papa Benedetto XV. È un progetto teso a ricostruire un'identità nazional-patriottica agli italiani che recupera temi irredentisti e militareschi, legittimando al contempo le forze politiche che per anni li avevano portati avanti e che anche per questo erano state considerate una minaccia per la democrazia. È il periodo in cui il Presidente del Consiglio Berlusconi nel 2003 afferma testualmente che "Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino", dichiarazioni che andavano a gettare ulteriore discredito sul valore della Resistenza Partigiana Antifascista, base costitutiva della Repubblica Italiana. I discorsi parlamentari del Presidente della Repubblica Napolitano hanno peraltro provocato anche gravi tensioni diplomatiche con i Governi della Croazia e della Slovenia, i quali hanno protestato vigorosamente per la nuova narrazione storica proveniente dall'Italia, improntata al recupero di minacciosi argomenti imperialisti e razzisti. Argomenti diffusi non solo con discorsi e libri ma anche nel senso comune: per diffondere la nuova narrazione delle foibe è stato messo in atto "un progetto integrato piuttosto articolato e complesso" (Tenca-Montini), che ha previsto ampi finanziamenti pubblici alle associazioni dei reduci e un'attenzione particolare alle potenzialità della televisione, principale strumento di informazione. Il risultato più evidente di questo processo di propaganda è stata la fiction televisiva della RAI "Il cuore nel pozzo", improntata ad un bieco razzismo anti-slavo e anti-partigiano. Si è giocato poi negli anni sull'equiparazione tra Shoah e Foibe e si è riusciti con ampie pressioni mediatiche e politiche organizzate dalle forze di centro-destra a far intitolare vie, monumenti e parchi ai "martiri delle foibe", pur non senza ampie resistenze politiche provenienti da alcune forze politiche di sinistra oltre che dai settori dell'ANPI e degli intellettuali.

6) Una lotta storiografico-politica ancora in corso

Tutte queste sono le ragioni principali per cui negli ultimi anni è stato istituito il "Giorno del Ricordo" e si è messa in atto una riscrittura della Storia alla quale si sono opposti gli storici italiani di livello internazionale, oltre alle organizzazioni politiche rimaste coerentemente antifasciste. Ad oggi il numero totale dei "martiri italiani" alla cui memoria sono stati attribuiti i riconoscimenti pubblici e finanziari previsti dalla Legge n° 92 del 2004, è di appena 323, di cui "infoibati" in senso stretto una minima frazione, mentre la gran parte di queste figure sono appartenenti alle forze armate o personale politico dell'Italia fascista, senza contare gli episodi che non hanno niente a che fare con la narrazione ufficiale delle "più complesse vicende del confine orientale" cui si riferisce la Legge. Tutto ciò considerato, il 2 aprile 2015 la stessa Segreteria Nazionale dell'ANPI ha chiesto di interrompere quantomeno l'attribuzione di onorificenze e medaglie della Repubblica, mentre nel 2017 numerose personalità antifasciste in una Lettera Aperta al MIUR hanno invocato un drastico cambiamento di rotta rispetto alla modalità revisionista e rovescista con cui l'argomento è trattato nelle scuole. Si è arrivati all'assurdo per cui un partito neofascista come Casapound abbia attaccato l'ANPI accusandola di "revisionismo storico" (!) e di "negazionismo", incriminazioni che sono mosse a chiunque intenda mettere in dubbio pubblicamente la versione dominante decisa politicamente, in una riscrittura della Storia di stampo orwelliano. In questo stesso giorno, 10 febbraio 2018, si svolge invece a Torino tra le polemiche un contrastato convegno (organizzato tra gli altri dalla illustre rivista di storia critica Historia Magistra), che si intitola "GIORNO DEL RICORDO, UN BILANCIO", con l'obiettivo di investigare "le ricadute dell'inserimento del Giorno del Ricordo nel calendario civile della Repubblica, che appaiono molto pesanti a livello politico, culturale e di autopercezione identitaria della Nazione, nonché a livello didattico-scientifico e financo per le casse dello Stato." La lotta insomma, sia a livello storiografico che politico, è su questo tema tuttora in corso e non è detto che tutti gli studenti futuri abbiano professori che decidano di far loro una lezione su questi argomenti con un simile livello di approfondimento. La scuola è uno degli ultimi baluardi per reagire a questa offensiva culturale semi-totalitaria.

Tutto ciò non deve comunque impedire il ricordo di quei pochi italiani innocenti e inconsapevoli che possano essere incappati in persecuzioni per errore, per vendette personali o per l'associazione italiano=fascista fatta da settori minoritari dei popoli slavi, in ogni caso mai legittimati formalmente dal governo jugoslavo. Serve però a ricordare la responsabilità primaria imputabile al nazifascismo degli orrori che hanno colpito in primo luogo i popoli slavi e in in misura quantitativa assai minore anche quegli italiani che si sono fidati malamente delle promesse di Mussolini.

Fonti

- Eric Gobetti, "Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Laterza, Roma-Bari 2013;
- Claudia Cernigoi, "Operazione foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al neoirredentismo", Kappa Vu, Udine 1997;
- Federico Tenca Montini, "Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi", Kappa Vu, Udine 2014;
- i materiali presenti sul sito http://www.diecifebbraio.info/;
- le pagine Wikipedia "I massacri delle foibe" (https://it.wikipedia.org/wiki/Massacri_delle_foibe), "Giorno del Ricordo" (https://it.wikipedia.org/wiki/Giorno_del_ricordo), "Invasione della Jugoslavia" (https://it.wikipedia.org/wiki/Invasione_della_Jugoslavia) e "Occupazione italiana del Montenegro e del Sangiaccato"; (https://it.wikipedia.org/wiki/Occupazione_italiana_del_Montenegro_e_del_Sangiaccato)
- Lorenzo Filipaz, "#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo", 2015, disponibile su https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/02/foibe-o-esodo-frequently-asked-questions-per-il-giornodelricordo/;
- Piero Purini, "Come si manipola la storia attraverso le immagini: il #GiornodelRicordo e i falsi fotografici sulle #foibe", 2015, disponibile su https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/03/come-si-manipola-la-storia-attraverso-le-immagini-il-giornodelricordo-e-i-falsi-fotografici-sulle-foibe/;
- Video "Le foibe. Per non dimenticare" (disponibile su youtube al link https://www.youtube.com/watch?v=h_n_afXJOkU) come esempio di video di propaganda fazioso e mistificatorio.

Note:

[1] Per capire la colossale montatura nascosta dietro alla favola delle foibe basta sapere chi sono gli "eminentissimi" storici che sono stati fonte di questa propaganda. Nell'ordine: Luigi Papo, noto fascista sotto il regime e a capo della Milizia Montona, responsabile di eccidi e di rastrellamenti partigiani, considerato dalla Jugoslavia un criminale di guerra di cui chiese l'estradizione (senza ottenerla, il che vale anche per molti altri casi); Padre Flaminio Rocchi, fascista esponente dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia; Maria Pasquinelli collaboratrice della X MAS e dei servizi segreti della RSI; Marco Pirina, incriminato per il tentativo di golpe Borghese del 1970; Giorgio Rustia, militante di Forza Nuova; Ugo Fabbri associato al MSI. Il tutto coordinato dalla regia dell'avvocato Augusto Sinagra, legale di Licio Gelli ed asserito iscritto alla loggia P2. E che dire dell'unico sedicente supersite ad una Foiba che si conosca, Graziano Udovisi? Oggi intervistato con tutti gli onori dalla RAI, si tratta di un criminale di guerra già condannato dalla giustizia italiana: la sua pena, ma guarda un pò, venne attenuata in quanto scampato ad una famigerata foiba a Fianona.
 
 
CUBA. GLI ANNI PASSANO, LA RIVOLUZIONE RESTA
di Giusi Greta Di Cristina
(Circolo di Parma - Ass. Italia-Cuba) 
 
Cuba, dicembre del 1958. 
L’isola è percorsa dal fuoco rivoluzionario che, né Batista né gli Usa suoi alleati, sono riusciti a spegnere. Al contrario: esso è ormai penetrato in ogni angolo di quella terra, agitando il popolo, informando di sé ogni spirito ormai convinto che il tiranno, anche a Cuba come in URSS, potesse essere sconfitto.
Il Movimento 26 Luglio, guidato da Ernesto Guevara e da Camilo Cienfuegos, dopo un inutile tentativo da parte delle forze governative di distruggere alcune posizioni guerrigliere di istanza a Escambray, decide di iniziare l’attacco definitivo a Batista. E lo fa  attaccando Santa Clara, cuore dell’isola e ultimo baluardo da conquistare per arrivare alla capitale. 
Era il 28 dicembre del 1958.
Batista, seguendo la tradizione dei codardi, decise di scappare e lasciò il Paese in mano al generale Cantillo.
Qualche giorno dopo, attraverso la messa in campo di una lucidissima strategia politica (formare il popolo alla Rivoluzione, avanzare militarmente), Fidel Castro entra trionfalmente a Santiago de Cuba, dichiarandola capitale provvisoria del Paese. 
Era l’1 gennaio 1959. Il sogno della Rivoluzione era divenuto realtà.
Da quel momento Cuba rappresenta l’ “altro mondo” possibile. E davvero Cuba lo è, questo mondo possibile, se si pensa ai prodigi compiuti da questo Paese nonostante un blocco economico (per favore, non chiamatelo embargo!). Blocco che continua ancora oggi, che anzi è divenuto ancor più duro.
Eppure Cuba resiste. 
Vi siete mai fermati a pensare come sia possibile che un’isola così piccola riesca a sopravvivere, riesca ad autodeterminarsi, riesca a sconfiggere lo Stato che, oggi come ieri, è responsabile per via diretta e indiretta dei più feroci e sanguinosi crimini, gli Stati Uniti. 
Negli anni l’imperialismo statunitense ha tentato di distruggere Cuba e la sua Rivoluzione, attraverso i tentativi di uccidere il Comandante en Jefe, Fidel Castro Ruz, guida del Paese fino alla sua morte, guida di ogni socialista per l’eternità. Ha tentato di soffocare il popolo cubano con il blocco economico, falsamente chiamato embargo, iniziato da Eisenhower con le restrizioni economiche nel 1960 e poi allargato dal Proclama 3447 a firma di J.F Kennedy. 
Cuba, terrore del liberismo, avamposto del comunismo proprio dinnanzi agli anticomunisti, segno reale e concreto di un socialismo vivo e vegeto, voluto e amato, difeso a qualsiasi costo. 
Perché questo è Cuba, e non il sogno romantico che certa sinistra poco incline allo studio vorrebbe far passare. Non è la faccia del Che Guevara sulle magliette, né l’esotismo del caldo a tutte le stagioni: Cuba è teoria che si fa prassi, è gioventù educata alla rivoluzione, è esercito fedele agli ideali rivoluzionari. 
Cuba è soprattutto il popolo cubano che sceglie, ogni giorno, il socialismo. 
E lo ha fatto nei mesi passati, attraverso il lavoro sul progetto della nuova Costituzione, che prenderà il posto di quella vigente, del 1976.
 
LA NUOVA COSTITUZIONE DI CUBA
La bozza del progetto della Carta Costituzionale è stata proposta alla Consulta popolare per essere rivista e per dare la possibilità al popolo di proporre eventuali cambiamenti. 
In quella che viene definita una dittatura persino dai maître à penser nel nostro Paese, quasi nove milioni di cittadini – emigrati inclusi – hanno potuto dire la loro sulla bozza costituzionale, che una volta rientrata è stata aggiornata con le proposte avanzate dalla Consulta popolare. Ad occuparsi della redazione della stessa e dell’incorporazione delle modifiche proposte dalla Consulta popolare, una commissione guidata dall’ex presidente e Primo Segretario del Partito Comunista Cubano, Raúl Castro.
La bozza, votata all’unanimità dai deputati dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare il 22 dicembre appena trascorso, è stata fatta oggetto dell’interesse della stampa internazionale che plaudiva alla proposta iniziale di togliere l’aggettivo “comunista” come indirizzo del governo cubano. In sostanza, destra e sinistra imperialista (come non pensare ai nostrani Il Manifesto, Left, Internazionale?) hanno sprecato fiumi di inchiostro per festeggiare la fine del comunismo a Cuba, il ripiego verso il capitalismo, l’abbandono della Rivoluzione. Una sorta di requiem, esasperato dal ritornello “Miguel Díaz-Canel non è Fidel Castro”.
Avremmo tanto voluto vedere le facce di questi soloni del nulla, di questi cantori del liberismo, di questi cani da guardia degli USA, nel leggere che nella stesura definitiva, quella che è stata appena approvata all’unanimità, è stata ripristinata la formula prima tolta, ovvero “gli alti obiettivi della costruzione del socialismo e l’avanzo verso la società comunista” (art.5). E dà soddisfazione sottolineare che il ripristino di questo elemento formale e sostanziale fa parte delle proposte della Consulta Popolare. 
Per quanto concerne gli altri cambiamenti inseriti nella nuova Costituzione – che verrà sottoposta a referendum il 24 febbraio dell’anno che è appena iniziato – due sono gli aspetti particolarmente interessanti: il primo riguarda l’assetto governativo, l’altro la tanto chiacchierata apertura ad una economia capitalista, altro aspetto sul quale la stampa borghese e liberista tante falsità ha scritto.
Per quel che concerne il primo punto, il Partito Comunista Cubano, di matrice marxista-leninista, rimane la guida del Paese. Viene però inaugurata l’istituzione della figura del Presidente della Repubblica e quella del Primo Ministro. Vengono ampliati i diritti e le garanzie dei cittadini, compreso il rispetto delle varie confessioni religiose.
La Commissione Costituzionale ha eliminato il controverso articolo che avrebbe consentito il matrimonio omosessuale a Cuba. Ha però promesso di aprire un tavolo di discussione sul tema che durerà due anni, quando verrà redatto il nuovo Codice di Famiglia (anch’esso verrà sottoposto a referendum). 
Vediamo ora di fare chiarezza sul secondo punto. E per farlo è necessario un passo indietro. Chi afferma che a Cuba, d’emblée, si sia deciso di aprire le porte al capitalismo pecca d’ignoranza o di malafede. Cuba sperimenta un sistema di economia mista da almeno dieci anni, anni segnati dalle riforme economiche volute dal generale Castro (2008-2018). Chi conosce Cuba sa bene quanto, negli ultimi tempi, il Paese abbia proposto centinaia di possibilità di investimento a regime di economia mista (uno fra tutti, cito l’esempio della Zona Mariel). Leggiamo dunque le righe del progetto costituzionale, laddove si parla di riconoscimento della proprietà privata e della necessità degli investimenti stranieri 
per lo sviluppo economico del Paese, come nient’altro che la strutturazione, nero su bianco, di un orientamento economico – ma anche politico – già deciso e messo in campo. 
Vorrei anche sommessamente aggiungere che il voler a tutti i costi legare il cammino cubano a quello cinese rappresenta una forzatura: nell’enorme bisogno che abbiamo noi occidentali di trasporre ogni evento geograficamente lontano sotto una chiara comprensione, rischiamo di dimenticare troppo spesso l’originalità nazionale di ogni esperienza. Cuba non è la Cina, per varie ragioni, non ultime quelle di natura geofisica. 
Cuba è Cuba, con le sue peculiarità, le scelte economiche che opera sono finemente cucite sui bisogni e le necessità del popolo cubano. E del suo benessere, ça va sans dire.
Inoltre, i deputati hanno approvato un articolo che dispone che “i mezzi di comunicazione fondamentale non possono essere oggetto di nessun altro tipo di proprietà che non sia quella socialista di tutto il popolo”. È superfluo aggiungere quanto questo sia necessario per evitare deviazioni che altrove hanno segnato la fine delle esperienze socialiste e che si sono servite dei mezzi di comunicazione antirivoluzionari e borghesi per incistarsi nella vita quotidiana e nella coscienza dei popoli.
 
La nuova Costituzione che, ripetiamo passerà ora al vaglio referendario il 24 febbraio dell’anno appena iniziato, si è confermata nella struttura quella proposta dalla bozza: 229 articoli, 11 titoli, due disposizioni speciali, 13 transitorie e due finali. 
 
CUBA, RIVOLUZIONE PERENNE
Sessant’anni son passati da quella splendida mattina in cui gli eroi della Rivoluzione segnano la fine della dittatura di Batista.
Uno di quegli anniversari che non è solo commemorazione, ma che stringe in sé un profondo significato di rivalsa e vittoria dei popoli che combattono contro l’imperialismo. 
Chi vi dice, chi ci dice che ormai tutto è passato, che il comunismo ha perso, lo dice incurante della situazione in cui si trova a dover sopravvivere la maggioranza delle donne, degli uomini, dei bambini e degli anziani di questo Pianeta: il sistema capitalistico si è imposto trascinando nella miseria, nell’indigenza, nella guerra persino Nazioni che hanno conosciuto il benessere per qualche decennio. L’aggressività degli USA e degli Stati vassalli è accresciuta enormemente dopo il tradimento e il crollo dell’URSS, i Paesi dell’ex blocco sovietico – secondo recentissimi sondaggi – vorrebbero il ritorno allo stato socialista, dopo l’inganno del capitalismo e la beffa dell’occupazione Nato. 
A Cuba tutto questo non è accaduto, non accade, non accadrà. Lo diciamo con sicurezza, col sorriso. E lo sa anche chi, da questa parte del mondo, sperava il contrario con la dipartita del Comandante Eterno.
Cuba vanta tra i migliori sistemi sanitari al mondo, e il migliore dell’America Latina. Cuba ha sconfitto la fame: nessun bambino muore di fame a Cuba. Cuba ha tra i migliori sistemi educativi al mondo, e il migliore dell’America Latina, surclassando quelli nati dalle dittature dei militari preparati dai nazisti scappati dalla Germania e assoldati dai democraticissimi USA. Al contrario, in questi Paesi la gente rovista tra i rifiuti per mangiare. 
A Cuba si è sopravvissuti al periodo especial, si sopravvive ancora a una restrizione economica, a una angheria finanziaria sotto la quale probabilmente qualsiasi altro Paese sarebbe crollato. 
Cuba sarebbe un miracolo, se noi credessimo ai miracoli. Cuba è il prodotto della ferrea disciplina marxista-leninista e dell’educazione alla rivoluzione. 
Cuba, seguendo gli esempi antecedenti, su tutti quello di José Martí, ha plasmato la sua lotta di liberazione in chiave nazionale, applicando le lezioni di Lenin, di Stalin, di Mao sulla necessità di creare la Rivoluzione nel proprio Paese sposando le caratteristiche più idonee che possano renderla vincente, nel proprio Paese. 
E in questi tempi oscuri, di antifascismo un tanto al chilo, letto in chiave esclusivamente ruffiana, in cui chiunque parli di difesa della sovranità popolare viene accusato di rossobrunismo – quando non direttamente di fascismo! - da Cuba ci arriva forte il monito: “Patria o Muerte!”. 
Se il futuro che scegliamo per la Patria (perché Paese o Nazione e non Patria? Cosa avrà mai fatto di male questo termine per suscitare una tale repulsione tra gli ambienti cosiddetti di sinistra?) è quello socialista, se lottiamo per questo obiettivo, se lo sosteniamo col nostro impegno militante, la nostra dedizione agli insegnamenti marxisti-leninisti, come non possiamo ritrovare nella Rivoluzione cubana, nella sua difesa alla patria socialista l’indirizzo al quale volgerci, anche oggi, nel 2019?
È chiaro: proprio in virtù di quanto appena affermato non possiamo trasporre pari pari quella che fu, anzi quella che è, la Rivoluzione Cubana entro i nostri confini (altra parola che pare abbia assurto connotati da demonizzare): possiamo però studiare, analizzare, approfondire quella che, tra le pochissime, non è solo il sogno di ciò che poteva essere ma la realtà di ciò che è.
 
Lunga vita alla Rivoluzione Cubana. Lunga vita a Cuba!
 
 
 
Inizio messaggio inoltrato:

Da: Partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana <partigiani7maggio @ tiscali.it>
Oggetto: Auguri e aggiornamenti
Data: 25 dicembre 2018 20:22:55 CET
 
Nel rivolgere i migliori auguri di 
 
Buone Feste e Sereno Anno Nuovo

cogliamo l'occasione per un breve aggiornamento sulla campagna "Rete della memoria e dell'amicizia per l'Appennino centrale".

La Assemblea dei Soci 2018 di Jugocoord Onlus, riunitasi all'inizio di dicembre, preso atto della mancata erogazione di fondi per i nostri progetti da parte della Tavola Valdese, ha stabilito lo stanziamento di somme comunque rilevanti rispetto al bilancio della associazione, finalizzate alla prosecuzione dei progetti stessi previa verifica di alcune condizioni, e precisamente per:
Acquasanta Terme (AP): rifacimento integrale lapidi Cimitero Partigiano Internazionale;
Valle Castellana (TE): allestimento Biblioteca Comunale e apposizione di una lapide commemorativa in località Morrice.
Comunicazione formale su tali stanziamenti è già stata data ai Sindaci interessati.

Una somma più contenuta è stata messa a disposizione per le altre località individuate nell'ambito della campagna, vale a dire Monte Cavallo (MC – ex base partigiana dell'Eremo della Romita), Altamura-Gravina (BA – ex campo di addestramento NOVJ/EPLJ) e Colfiorito di Foligno (PG – ex campo di concentramento delle "Casermette"). 
L'obiettivo per le prime due località è quello di spronare i rispettivi Comuni alla riscoperta del significato storico dei siti e alla progettazione di interventi di messa in sicurezza e valorizzazione, eventualmente organizzando "campi di lavoro" volontari per la pulizia e la apposizione di protezioni e/o cartellonistica di carattere storico-escursionistico, nonché dibattiti e celebrazioni.
Per Colfiorito, invece, sono stati intrapresi passi formali concreti per la realizzazione di un monumento-memoriale che finalmente "segni" la memoria del luogo. Tali passi, dei quali daremo conto nei prossimi mesi, fanno seguito alla iniziativa pubblica tenuta nel 75.mo Anniversario della Grande Fuga dal campo, sulla quale ha recentemente scritto anche V. Kapuralin per il sito del SRP di Croazia (Svečanost obilježavanja bijega iz logora u Italiji).

Segnaliamo infine l'appello pubblicato sul sito Jugocoord, rivolto a chiunque possa dare notizie sul luogo in cui furono scattate alcune fotografie del "battaglione Tito" della brigata Gramsci dell'Umbria: si tratta forse della casa di famiglia del partigiano Otello Loreti, sulla montagna sopra Spoleto?
(italiano / english)
 
Strategic disinformation – they call it 'fake news'
 
1) AskPinocchio, il software sponsorizzato dall'Unione Europea (F. Santoianni)
2) Der Spiegel's Claas Relotius' Scandal:
– The Relotius Case. Answers to the Most Important Questions (Der Spiegel)
– Il giornalista di Der Spiegel oltre a falsificare le notizie ha sottratto le donazioni agli "orfani" siriani
– Fraud ‘on grand scale’: Top journalist at reputable German magazine faked his stories for YEARS (RT)
– Game of deception: How a fraudster who faked his stories for years got to be Germany’s top reporter (RT)
– Tanks on Maidan, president’s gold bath & more outrageous Ukraine fakes by disgraced Spiegel reporter (RT)
3) All corrupt on the Western front? Der Spiegel latest to fall from media mountaintops (R. Bridge)
 
 
=== 1 ===
 
 
AskPinocchio, il software sponsorizzato dall'Unione Europea che spaccia per buone le bufale del mainstream
 
di Francesco Santoianni
23/12/2018
 
Una volta, lanciai in Rete due miei personalissimi software per imparare le lingue straniere. Il primo si chiamava “Amigos della lingua spagnola”: aggiungeva automaticamente una “s” a tutte le parole; il secondo era “Tovarish della lingua russa”: aggiungeva una “ov”. Insomma, come software non erano un granché, anche se fui tentato di mettere su una Startup per arricchirmi rifilando, una “sola”.
 
Ben altre prospettive si direbbero abbiano i promotori del “Progetto Fandango”: una partnership, benedetta dall’Unione Europea e che vede, tra gli altri, il coinvolgimento dell’ANSA. Una iniziativa già osannata dai media mainstream) in quanto promette: “…grazie all'intelligenza artificiale, una lotta senza quartiere alle Fake News (…) fornendo agli stakeholder del settore giornalistico degli indici di affidabilità della notizia, basati su una combinazione di elementi che aiutino a rivelarne la verità.”

Si, ma come fa la tecnologia DS4biz, cuore del software, a discernere le notizie “vere” dalle Fake News? Attraverso “algoritmi in grado di riconoscere e identificare le relazioni che sussistono all’interno del testo e del titolo della notizia, nelle frasi e nelle relazioni che si instaurano tra le parole e la loro frequenza.”

Sbalordito di questa magia (che, tra l’altro, fa piazza pulita di tre millenni di considerazioni filosofiche) e confortato da un articolo del Il Sole 24 Ore, ho voluto provare Askpinocchio il software front-end del Progetto Fandango, che discerne le notizie “vere” dalle Fake News semplicemente dal link di un articolo “sospetto” incollato in un modulo. Dunque: per, ben, trenta dei miei articoli su l’Antidiplomatico la risposta è stata sempre la stessa: “Non sono sicuro di questa notizia... Potrebbe trattarsi di una fake news il contenuto della notizia contiene elementi particolarmente bufalosi.” Elementi bufalosi?! Prostrato per l’essere stato smascherato; sperando che, per errore, analogo trattamento fosse stato riservato anche a blasonati giornalisti, ho inserito il link dell’articolo: “Juncker al vertice Nato non era ubriaco: barcollava per un problema di salute”; poi dell’articolo “Sono i russi Alexander Petrov e Ruslan Boshirov i sospettati dell’avvelenamento di Sergei e Yulia Skripal”; poi dell’articolo “Ora gli sgherri di Maduro uccidono indios per l'oro. I raid con gli elicotteri governativi”. Risultato del software anti Fake News? “Credo che la notizia sia vera!”

Che altro dire davanti a questo Prodigio dell’Intelligenza Artificiale? Quasi quasi, vado anche io a chiedere finanziamenti all’Unione Europea per i miei due software.

 

 
=== 2 ===
 
 
The Relotius Case. Answers to the Most Important Questions
 
December 19, 2018
 
In recent years, DER SPIEGEL published just under 60 articles by reporter and editor Claas Relotius. He has now admitted that, in several instances, he either invented stories or distorted facts...
 
or
 
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Il giornalista di Der Spiegel oltre a falsificare le notizie ha sottratto le donazioni agli "orfani" siriani
 
Fonte: Der Spiegel – Notizia del: 24/12/2018
 

Il giornalista ha incoraggiato i lettori a fare donazioni per due bambini siriani, che sono stati costretti a fuggire in Turchia. Si ritiene che uno dei presunti beneficiari non sia mai esistito.


Claas Relotius, giornalista di Der Spiegel, che ha falsificato molte delle suoi reportage strazianti, ora affronta un'indagine criminale sulle donazioni di denaro per i bambini siriani. La rivista tedesca ha presentato una denuncia penale contro Relotius dopo che si è saputo che il giornalista non solo ha inventato protagonisti e citazioni nei suoi racconti, ma avrebbe anche potuto ingannare i suoi lettori.
 
"I figli del re"
 
I lettori hanno informato i media che il giornalista ha usato la sua e-mail privata per organizzare una campagna di raccolta fondi per gli orfani siriani che vivono in Turchia. La storia è stata pubblicata nell'articolo di Relotius del 2016 intitolato "Children of the King".
 
Tale relazione ha raccontato la storia di Ahmed Alin e suo fratello, che sono stati costretti a fuggire in Turchia dopo che i suoi genitori sono morti nella città siriana di Aleppo. Per sopravvivere, i bambini lavoravano per lunghe ore e vivevano in condizioni terribili. Relotius sosteneva di aver parlato con entrambi i bambini, che vivevano a 300 chilometri di distanza, nelle città turche di Mersin e Gaziantep.
 
Storia "falsificata e fortemente drammatizzata"
 
Tuttavia, Der Spiegel ha riferito che il minore apparentemente non è mai esistito. Il fotografo turco Emin Ozmen, che ha accompagnato il giornalista tedesco durante il suo viaggio, ha raccontato di aver visto solo il ragazzo, la cui storia è stata "falsificata e fortemente drammatizzata", riporta la rivista.
 
Inoltre, si è appreso che i bambini (nel caso ce ne fossero due) non erano orfani, dal momento che la loro madre era viva e lavorava in un negozio di mobili a Gaziantep. Der Spiegel continua la sua indagine sulla storia, ma deve ancora trovare qualcuno che corrisponda alla descrizione della presunta sorella di Ahmed.
 
Il giornalista ha affermato di essere riuscito a portare i bambini in Germania, dove sono stati adottati da un medico e dalla sua famiglia. Tuttavia, questo "è apparentemente finzione", secondo la rivista. Steffen Klusmann, redattore capo di Der Spiegel, ha affermato che i fondi "probabilmente non hanno mai raggiunto quelli per cui erano destinati".
 
I media hanno dichiarato di non essere a conoscenza dello schema usato da Relotius, poiché nessun lettore l'aveva segnalato al momento della raccolta fondi. Non è ancora chiaro cosa sia successo alle donazioni ricevute.
 
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Fraud ‘on grand scale’: Top journalist at reputable German magazine faked his stories for YEARS
Published time: 19 Dec, 2018
 
One of Germany’s most popular papers, Der Spiegel, has found itself at the center of a scandal involving one of its top reporters who was caught fabricating elements of his stories.
Claas Relotius, who worked at Der Spiegel as a freelancer for 6 years until receiving a staff position in 2017, seemed to be a paragon of modern journalism. The 33-year-old has received numerous prestigious journalism awards, both in Germany and abroad.
Just this December he was awarded a prize by the German reporter’s association for his story about the life of a child in Syria. In 2014, Relotius was warmly welcomed by CNN who named him ‘Journalist of the Year.
However, his seemingly brilliant career has turned out to be a house of cards that is now falling apart, just as it had with Stephen Glass, a former staff writer at the New Republic who authored one of the most spectacular fabrication campaigns in the history of American journalism.
It was recently revealed that Relotius literally made up details in his stories and even “invented protagonists” – people he had never met in person.
One of his colleagues who was working with Relotius on a story about the situation on the US-Mexican border grew suspicious of some of the details in the journalist’s report. The man then tracked down two alleged sources Relotius quoted extensively in his text, only to find out that none of them ever actually met him.
The subsequent investigation by Der Spiegel into Relotius’ activities also uncovered that he fabricated details in another story including a claim that he had seen a sign in a US town that read: “Mexicans keep out.” When faced with the incriminating evidence, the journalist confessed to faking elements of his texts – not just in one story, but in a number of them.
So far, at least 14 stories out of almost 60 pieces the journalist wrote for Der Spiegel’s print and online editions turned out to contain fake details, the magazine said, adding that that figure might potentially be higher, and warning that other media outlets might also be affected.
Over the years, Relotius worked for about a dozen German news outlets, including the well-known Die Welt, Die Zeit and Financial Times Germany. Notably, the list of his stories that were proven to be at least partially fake included several pieces that had won journalism awards, including stories about Iraqi children kidnapped by Islamic State and prisoners in Guantanamo.
In a lengthy article which serves as both a clarification of the case and an apology, Der Spiegel said it was “shocked” by the discovery and offered an apology to its readers along with all those affected by Relotius’ articles. It also described the situation as "a low point in Der Spiegel's 70-year history."
Relotius, who resigned after the fraud came to light, told Der Spiegel that he regretted his actions and felt “deeply ashamed.” Meanwhile, the magazine’s management has set up a special investigative commission consisting of what it calls “experienced internal and external persons” to look through all of the journalist’s pieces and prepare recommendations to improve “safety mechanisms.”
 
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Game of deception: How a fraudster who faked his stories for years got to be Germany’s top reporter
Published time: 21 Dec, 2018
 
Germany has been rocked by a scandal involving one of the top reporters writing for the reputable Der Spiegel magazine, who turned out to be a fraudster. What made a fabulst into a star? Let’s look at some of his stories.
Claas Relotius, the ‘brilliant reporter’-turned-fabricator, carved his way to pages of some of the most prestigious German newspapers with curious, sentimental and touching human stories from everyday life. Although, some of these intimate private stories clearly had some political angle.

Syrian ‘Resistance’ hero

The piece that brought him his latest (and probably the last) journalist award delved into a much more high-profile and much more politicized topic – the Syrian crisis. The article centers around the plight of a Syrian teenager living in the city of Deraa, who stood against the Syrian President Bashar Assad, using graffiti as a tool to express himself.
Written in summer 2018, when the city was still at the hands of the militants, the piece calls Deraa the last “resistance” stronghold and the start of the Syrian conflict a “revolution” while the teenager himself is described as “Syria’s liberator” and a “legend” to “thousands.” Now, Der Spiegel has to embarrassingly admit that this story that so vividly depicted the rebels’ selfless fight against their supposed oppressors was mostly fabricated and many details described in the articles were just made up by the author.

Children ‘orphaned’ by Assad

Another report Relotius dedicated to the dire plight of Syrians tells the readers about a heartbreaking story of two Syrian siblings. “They had lost everything – their parents, their house and their country” at the hands of “dictator”Assad and his soldiers, the article says, inconspicuously interweaving the two orphans’ personal story with that of the battle for the Syrian city of Aleppo.
The piece also puts the blame for the tragedy of the Aleppo residents almost entirely on the Assad government and the Syrian Army, missing on the many extremists, who kept the city hostage.

Death threats over joke

Sometimes, the journalist also entertained his readers with the reports from a little bit more exotic corners of Earth. One particularly eyebrow-raising story recounts a haunting experience of a Scotsman, who was mercilessly chased and almost killed by the people of an entire country – Kyrgyzstan – just for a low joke about their food.

Trump’s ‘border hunters’

Notably, Relotious also often wrote about the US but apparently could not stay unbiased here as well. One of his latest pieces, which became a starting point of Spiegel’s investigation against him, used made up details to play to the popular anti-Trump angle in the complicated situation on the US-Mexico border. It tells the readers about a group of self-styled “border hunters” militia.
Its somewhat unlikeable members praise President Donald Trump and viciously hate all illegals seeking to come to the US. One of the supposed group members, who goes in the story by the imposing alias ‘Pain’, says “he wants to kick the devils, who are running into America, out just like Donald Trump.”
This man, however, turned out to be nothing but a phantom born in the fraudster’s inventive mind as the story turned out to be made up as well. Now, Der Spiegel has announced it established a special commission to investigate all Relotius’ works and develop recommendations to help it improve its control mechanisms..
However, it also admitted that “even with the sincerest of intentions, it is impossible to fully rule out” such incidents in the future as their causes lie in “human frailty” and journalists are just as “fallible” as any other people. So what made it so difficult for Der Spiegel and other reputable media outlets to see that Relotius was a fraudster?
Maybe, he just was that good at delivering the German media what they themselves craved for so much. His pieces seem to be a blend of heartbreaking personal stories perfectly fitted into the ‘liberal’ narrative touted by the Western media. An ideal deception.
Kirill Kuznetsov, RT
 
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Tanks on Maidan, president’s gold bath & more outrageous Ukraine fakes by disgraced Spiegel reporter
Published time: 22 Dec, 2018
 
One wonders just how outrageous ‘fake news’ must be in order to get busted, but Der Spiegel's ex-star reporter Claas Relotius got away with it all while writing for several outlets – maybe because it was about places like Ukraine.
Titled ‘Bribing prohibited’ Relotius’ piece on the new Ukrainian police has all the elements of his trademark style: dramatic narrative, likeable heroes – and entirely made-up ‘facts’.
The ‘report’, published by the Swiss magazine Reportagen in June 2016, tells a tale of two young people – Dimitri and Valeria – who became members of the rebranded police force of post-Maidan Ukraine. Given the recent revelations over his fictional reporting, it's now unclear whether Relotius met the duo in reality, but the story makes for a very compelling read indeed.
It states that each day before going on patrol, Dimitri and Valeria have been coming to the center of Kiev to pray near the “altar” erected in memory of those who died during the 2014 Euromaidan unrest. The two were among the protesters back then, it reveals, describing how they recall burning buildings, the “smell of corpses,”a man “with a child in his arms” shot dead beside an old well – and a ruined wall, where dozens were “slayed by snipers” and “rolled over by tanks.”
Wait, what? Given that the majority of victims in Kiev – both protesters and law enforcement officers – were killed over two days of murky clashes in February 2014, the “smell” of dead bodies appears to be a little of an exaggeration. No “old wells” could immediately be found in central Kiev, and there's nothing to back up the story about a “man with a child” either.
But most glaring of all, no “tanks” were ever deployed to curb the city unrest, so the “ruined wall” part was made up in its entirety. In reality, the police unsuccessfully tried to use light APCs to storm some barricades, but the vehicles were pelted with Molotovs and burnt down.. At least the “burning buildings” part holds some water, as some central Kiev sites, including the Trade Unions Building, were indeed put to the torch.
It's not much of a surprise that the rest of the article is riddled with inconsistencies and false statements. Notably, it claims that the ousted President of Ukraine, Viktor Yanukovych, had a mansion where he “lived like a pharaoh, with banisters and baths made of pure gold.” The claim appears to be based on the long-debunked rumor that the protesters who stormed the president's lavish residence discovered a golden toilet.
Incumbent president of the country – Petro Poroshenko – is also described, for some reason, as a “billionaire praline manufacturer from Odessa.” Poroshenko has held several top government posts since the early 2000s, but this fact is not even mentioned in the article. He was indeed born in the Odessa region in the Soviet Union, yet the image of a “successful businessman from Odessa” seems to be quite a stretch.
Describing the old bribery mindset the new police officers have been supposedly battling, Relotius managed to make another, quite outlandish, mistake. The article says that the new police force was in use not only in the capital city of Kiev, but in other major cities, namely “in Kharkiv and Donetsk, in Lviv and in Odessa.”
The problem is, at the time of publication, the eastern city of Donetsk had for two years been under the control of anti-Kiev rebels, who rejected the Euromaidan coup, proclaimed their own republic, and had actual tanks and warplanes sent to crash them into submission – with only limited success.
It doesn't seem probable that the new Ukrainian police force would have been welcome there – a fact that may have eluded the disgraced Der Spiegel reporter. Just as it, sadly, would go over the head of many of his readers, submerged in the MSM reporting on Ukraine – a narrative often fed from the Kiev government's POV – and with little fact-checking.
 
 
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All corrupt on the Western front? Der Spiegel latest to fall from media mountaintops
 
by Robert Bridge, 21 Dec, 2018
 
Once again, a reporter has been accused of writing fake stories – over a span of years – reinforcing the suspicion that we are living in a post-truth world where words, to paraphrase Kipling, “are the most powerful drug.”
This week, Der Spiegel, the German news weekly, was forced to admit that one of its former star reporters, the award-winning Claas Relotius, “falsified his articles on a grand scale.”
Indeed, it seems the disgraced journalist was motivated more by fiction writers John le Carre and Tom Clancy than by any media heavyweights, like Andrew Breitbart and Walter Cronkite.
Relotius, who just this month took home Germany’s Reporterpreis (‘Reporter of the Year’) for his enthralling tale of a Syrian teenager, “made up stories and invented protagonists,” Der Spiegel admitted.
There is a temptation to rationalize Relotius’s multiple indiscretions, not to mention the failure of his fastidious employer to unearth them for so long, as an unavoidable part of the dog-eat-dog media jungle. After all, journalists are not robots – at least not yet – and we are all humans prone to poor judgment and mistakes, perhaps even highly unethical ones.
That explanation, however, falls short of explaining the internal forces battering away at the foundation of Western media, an institution built on the shifting sand of lies, disinformation and outright propaganda. And what is readily apparent to those outside of the Western media fortress is certainly even more apparent to those inside.
A good example is Russiagate. This elaborate myth, which has been peddled repeatedly and without an ounce of 100-percent real beef since the US election of 2016, goes like this: A group of Russian hackers, buying a few hundred social media memes for just rubles to the dollar, were able to do what all the Republican campaign strategists, and all the special interests groups, with all of their billions of dollars in their massive war chest, simply could not: keep Democratic voters at home on the couch come Election Day – a tactic now known as “voter suppression operations” – thereby handing the White House to Donald Trump on a silver platter. Or shall we say ‘a Putin platter’?
Don’t believe me? Here’s the opening line of a recent Washington Post article that should be rated ‘R’ for racist: “One difference between Russian and Republican efforts to quash the black vote: The Russians are more sophisticated, insidious and slick,” wailed Joe Davidson, who apparently watched too many Hollywood films where the Russkies play all of the villains. “Unlike the Republican sledgehammers used to suppress votes and thwart electorates’ decisions in various states, the Russians are sneaky, using social media come-ons that ostensibly had little to do with the 2016 vote.”
Meanwhile, Der Spiegel, despite being forced to come clean over the transgressions of Claas Relotius, will most likely never own up to its own factual shortcomings with regards to their dismal reporting on Russia.
For example, in an article published last year entitled ‘Putin’s work, Clinton’s contribution,’ the German weekly lamented that “A superpower intervenes in the election campaign of another superpower: The Russian cyber-attack in the US is a scandal.” Just like their fallen star reporter, Der Spiegel regurgitated fiction masquerading as news.
However, there is no need to limit ourselves to just media-generated Russian fairytales. The Western media has contrived other sensational stories, with its own cast of dubious characters, and with far greater consequences.
Consider the reporting in the Western media prior to the 2003 Iraq War, when most journalists were behaving as cheerleaders for military invasion as opposed to conscientious objectors, or at least objective observers. In fact, two reporters with the New York Times, Michael Gordon and Judith Miller, arguably gave the Bush administration and a hardcore group of neocons inside Washington, which had been pushing for a war against Saddam Hussein for many years, the barest justification it required for military action.
Just six months before the bombs started dropping on Baghdad, Gordon and Miller penned a front-page article in the Times that opened with this stunning claim: “Iraq has stepped up its quest for nuclear weapons and has embarked on a worldwide hunt for materials to make an atomic bomb, Bush administration officials said today.”
The article in America’s ‘paper of record’ then proceeded to build the case for military action against Iraq by quoting an assortment of anonymous senior administration officials, anonymous Iraqi defectors, and anonymous chemical weapons experts. In fact, much of the story was based on comments provided by one ‘Ahmed al-Shemri,’ a pseudonym for someone purported to have been connected to Hussein’s chemical-weapons program. The authors quoted the mystery man as saying: “All of Iraq is one large storage facility.”
Gordon and Miller also claimed their source had said that “he had been told that Iraq was still storing some 12,500 gallons of anthrax.”Several months later, just weeks before the US invasion of Iraq commenced, US Secretary of State Colin Powell invited the UN General Assembly to imagine what a “teaspoon of dry anthrax”could do if unleashed on the public.
Powell, who later said the testimony would be a permanent “blot” on his record, even shook a tiny faux sample of the deadly biological agent in the Assembly for maximum theatrical effect.
Shortly after the release of the Times piece, top Bush officials appeared on television and alluded to Miller’s story in support of military action. Meanwhile, UN inspectors on the ground in Iraq never found chemical weapons or the materials needed to build atomic weapons. In other words, the $1-trillion-dollar war against Iraq, which led to the deaths of tens of thousands of innocent civilians, was a completely senseless act of aggression against a sovereign state, which the US media helped perpetrate.
Aside from the question of whether readers really put much faith in these fantastic media stories, complete with pseudonymous characters and impossible to prove claims; there remains another question. Does the Western media itself believe its own stories?  The answer seems to be no, at least not always.
With regards to the Russiagate story, for example, an investigative journalism outfit, Project Veritas, caught a few Western journalists off-guard about their true feelings in relation to the claims against Russia, and their feelings in general about the state of the media.
“I love the news business, but I’m very cynical about it – and at the same time so are most of my colleagues,” CNN Supervising Producer John Bonifield admitted, unaware he was being secretly filmed.
When pushed to explain why CNN was beating the anti-Russia drum on a daily basis, things became clearer: “Because it’s ratings,”Bonifield said. “Our ratings are incredible right now.”
In the same media sting operation, Van Jones, a prominent CNN political commentator who has pushed the anti-Russia position numerous times on-air, completely changed his tune when caught off-air and off-guard. “The Russia thing is just a big nothing burger,” he remarked.
This brings us back to the story of the fallen Der Spiegel journalist. It seems that a deep cynicism has taken hold in at least some parts of the Western media establishment. Journalists seem increasingly willing to produce extremely tenuous, fact-challenged stories, many of which are barely held together by a rickety composite of anonymous entities.
And why not? If their own media bosses are permitting gross fabrications on a number of major issues, not least of all related to Russia, and further afield in Syria, why should the journalists be forced to play by the rules?
Under such oppressive conditions, where the media appears to be merely the mouthpiece of the government’s position on a number of issues, those working inside this apparatus will eventually come around to the conclusion that truth is not the main priority. The main priority is hoodwinking the public into believing something even when the facts – or lack of them – point to other conclusions.
Thus, it is no surprise when we find Western reporters imitating the greatest fiction writers, because in reality that is what they have already become.  
 
 
Robert Bridge is an American writer and journalist. Former Editor-in-Chief of The Moscow News, he is author of the book, 'Midnight in the American Empire,' released in 2013.
 
 
Nuova operazione di propaganda fascista
 
1) Parma 17/12: Assemblea pubblica della Officina Popolare sul film "Red Land – Rosso Istria"
2) Claudia Cernigoi: Recensione del film "Red Land – Rosso Istria"
3) Alessandra Kersevan: Recensione del film "Red Land – Rosso Istria"
4) Gli sceneggiatori del film “Red Land – Rosso Istria” (di Claudia Cernigoi)
(srpskohrvatski / english / italiano)
 
Cronache dal XX Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai
 
1) Intervista a Francesco Maringiò [della Direzione PCI] al XX incontro internazionale dei Partiti Comunisti e Operai di Atene
 
2) Комунисти Србије на 20. МСКРП (Међународном Састанку Комунистичких И Радничких Партија) у Атини
SUPPORT FOR KOSOVO AS AN INTEGRAL PART OF THE REPUBLIC OF SERBIA / KOMUNISTIČKE I RADNIČKE PARTIJE SVETA DALE PODRŠKU PARTIJI „KOMUNISTI SRBIJE“ DA JE KOSOVO I METOHIJA SASTAVNI DEO REPUBLIKE SRBIJE / KOMUNISTIČKA PARTIJA RUSKE FEDERACIJE IZDALA KNJIGU: OKTOBARSKA ZNAMENJA KOMUNISTIČKE PLANETE / ИЗВЕШТАЈ СА 20.МЕЂУНАРОДНОГ САСТАНКА КОМУНИСТИЧКИХ И РАДНИЧКИХ ПАРТИЈА У АТИНИ / РЕФЕРАТ НА 20. МЕЂУНАРОДНОМ САСТАНАКУ КОМУНИСТИЧКИХ И РАДНИЧКИХ ПАРТИЈА У АТИНИ
 
3) SRP Hrvatske na XX. IMCWP i obilježavanje 100-te godišnjice osnivanja KKE 
VIDEO i FOTO / ODRŽAN XX. IMCWP I OBILJEŽAVANJE 100-te GODIŠNJICE OSNIVANJA KKE / SPEECH BY SRP REPRESENTATIVE VLADO KAPURALIN

 
Sul XX Incontro dei P.C.O. (Atene, 23-25 novembre 2018) si vedano anche:
 
* Appello del 20° Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai
ORIG.: 20 IMCWP, Appeal of the 20th International Meeting of Communist and Workers’ Parties
* 20° IMCWP: Lista dei Partiti Comunisti e Operai partecipanti
 
Sulla situazione del movimento comunista internazionale segnaliamo anche:
 
* l'Appello "Solidarietà al Partito Comunista Polacco!"
sulle recenti persecuzioni anticomuniste in Polonia
https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it/2018/12/03/solidarieta-al-partito-comunista-polacco-le-prime-adesioni-allappello/
 
* Il Forum Internazionale del Partito Comunista di Ucraina (Kiev 12 luglio 2018)
http://www.marx21.it/index.php/comunisti-oggi/in-europa/29191-il-forum-internazionale-del-partito-comunista-di-ucraina

 
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Intervista a Francesco Maringiò 
[della Direzione PCI] al XX incontro internazionale dei Partiti Comunisti e Operai
30 Novembre 2018
 
da amna.gr

Pubblichiamo un'intervista che Francesco Maringiò ha rilasciato in occasione del XX incontro internazionale dei Partiti Comunisti


A più di 100 anni della rivoluzione di ottobre ci sono persone che ritengono il comunismo una cosa del passato. Lei è d'accordo? Cosa significa essere comunista nel 21° secolo?

Chi considera il comunismo una cosa del passato commette due errori principali. Il primo è quello di aver creduto alla campagna mediatica occidentale che ha cercato di far passare l’idea che la fine dell’esperienza sovietica coincidesse con la fine del comunismo nel mondo.
Non è così: il Novecento è il secolo dove il movimento comunista internazionale è nato ed ha mosso i primi passi e quell’esperienza, dopo grandi traguardi e straordinari successi, accanto ad alcuni errori, ha lasciato una traccia indelebile che è oggi seguita dalle organizzazioni comuniste di tutto il mondo, a partire dai paesi socialisti che, con la Cina (ma non solo), hanno assurto ad un ruolo di grande protagonismo sul piano politico. Alla luce di questo, parlare di comunismo come di un’esperienza del passato, significa - come diciamo noi italiani - mettersi il prosciutto davanti gli occhi per non vedere la verità. Al contrario, come recitava uno slogan della KNE di alcuni anni fa, il comunismo è la gioventù del mondo. Il secondo errore è quello di non aver imparato nulla dalla storia e di considerare immortale questo ordinamento sociale e politico capitalistico, dimostrando la stessa superstizione degli uomini del medioevo che consideravano quel sistema sociale immodificabile ed immortale. Nulla è immodificabile, neanche questo sistema che genera guerra, povertà, insicurezza sociale e sfruttamento. Pertanto essere comunista nel XXI secolo significa riproporre un nuovo e più razionale sistema sociale che rompe con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nulla di più attuale e necessario per il futuro dell’umanità.

I partiti comunisti sono sempre stati in prima linea contro la soppressione dei diritti sociali e del lavoro. Tuttavia l'attacco neoliberista sferrato contro i diritti del popolo è molto vasto. Quale deve essere la risposta dei comunisti?

L’attacco ai diritti dei popoli e ai diritti sociali è aumentato in questi anni, parallelamente all’aumento della crisi organica del capitalismo, che si è manifestata chiaramente in tutto il mondo. Aumenta la crisi ed aumenta la repressione, come la storia ci ha già insegnato nel passato. I comunisti sono chiamati ad un doppio compito: da un lato lottare al fianco della classe operaia nella difesa dei suoi diritti, organizzare la lotta e sostenere le mobilitazioni popolari e, dall’altro, portare un contributo unificante nelle lotte e nella coscienza generale. Perché non c’è soluzione a questa situazione, se ciascuno lotta solo per il miglioramento della propria condizione, senza una visione generale e, soprattutto, non c’è soluzione senza avanzare una proposta alternativa a questo sistema sociale, che alimenta la repressione al fine di perpetrare lo sfruttamento di classe..

Ovunque testimoniamo l'ascesa delle forze populiste di destra, accompagnata da un forte revisionismo della storia e delle condizioni sociopolitiche. Come devono reagire i comunisti a questa situazione?

Come dicevo precedentemente il mondo è grande e le idee del socialismo si stanno rafforzando e crescendo. Questo non avviene in Europa, dove invece aumenta il revisionismo storico ed il malessere sociale è attratto dalle posizioni della destra o del populismo di destra. Anche questo, purtroppo, è già avvenuto in passato, aprendo pagine drammatiche della storia europea e mondiale. Ma la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, per cui i comunisti sono chiamati ad un lavoro di resistenza per difendere le grandi conquiste della lotta della classe operaia ed un pensiero critico, capace di aprire un percorso diverso nella storia dell’umanità.

In Italia, il Partito Comunista non è più quello degli anni in cui esercitava la massima influenza politica e sociale. Nonostante sia andato al governo dopo la sua trasformazione, esso non rappresenta più l’anima della sinistra nel paese. Crede che esistano prospettive di un cambiamento in senso comunista nel suo paese e quali sono le sfide che il Partito deve affrontare?

Se si riferisce al Partito Democratico, evoluzione delle trasformazioni che ha avuto il PDS nato dallo scioglimento del vecchio Partito Comunista Italiano, non solo esso non rappresenta le istanze della sinistra, ma è evidente che rappresenta gli interessi del grande capitale finanziario internazionale nel nostro paese. Hanno appoggiato tutte le politiche antipopolari e di austerity imposte dall’Ue e sono stati in prima linea ad appoggiare le missioni di guerra, come nel caso della Libia. E’ un esempio fulgido di come nell’ultima fase il PCI, oramai corrotto nel suo orientamento ideologico, abbia venduto la sua anima per poter andare al governo, senza neanche riuscirci mai realmente. E’ stato usato dalle classi dominanti per sconfiggere le istanze comuniste e popolari e poi oggi viene scaricato e vive una condizione di sostanziale crisi. Certo, servirebbe un cambio di rotta nella politica italiana, in direzione della lotta per il socialismo, ma è ancora un percorso lungo, che chiede tutto il nostro impegno e, soprattutto, impone a tutti i militanti di non perdere la fiducia in questi tempi drammatici che viviamo. La sfida maggiore è quella di riuscire a vincere la battaglia per la sopravvivenza.

La Grecia è stata negli ultimi anni il campo di battaglia dell'attacco neoliberista contro la sovranità degli stati nazionali e del popolo. Quale messaggio volete trasmettere al partito comunista greco e ai greci in generale?

La Grecia è stato il banco di prova delle politiche neoliberiste e della sottrazione della sovranità popolare da parte delle istituzioni europee e dei loro alleati nel paese. Il risultato è drammatico ed il popolo greco conosce meglio di chiunque altro questa situazione, che ha sofferto in prima persona. Il Partito Comunista Greco ha scelto la strada coraggiosa di organizzare la lotta sociale e la coscienza del popolo, senza illuderlo che la soluzione fosse rientro l’angolo. Abbiamo tanto da imparare da questo punto di vista e voglio sfruttare l’occasione di questa intervista per porgere a tutti i suoi militanti ed alla sua leadership il mio saluto militante per il centesimo anniversario della sua fondazione.
 
 
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* SUPPORT FOR KOSOVO AS AN INTEGRAL PART OF THE REPUBLIC OF SERBIA / KOMUNISTIČKE I RADNIČKE PARTIJE SVETA DALE PODRŠKU PARTIJI „KOMUNISTI SRBIJE“ DA JE KOSOVO I METOHIJA SASTAVNI DEO REPUBLIKE SRBIJE
http://www.komunistisrbije.rs/komunisticke-i-radnicke-partije-sveta-dale-podrsku-partiji-komunisti-srbije-da-je-kosovo-i-metohija-sastavni-deo-republike-srbije/
Na 20. Međunarodnom sastanku Komunističkih i Radničkih partija Sveta koji je održan u Atini od 23-25.Novembra 2018. Godine, Partija „Komunisti Srbije“ pokrenula je inicijativu za podršku da je Kosovo i Metohija sastavni deo Republike Srbije.
U prilogu je prikazan spisak KP i RP koje su svojim potpisom dale podršku za ovu inicijativu. Ovi podaci su dostupni javnosti i na web sajtu
solidneta: www.solidnet.org

* KOMUNISTIČKA PARTIJA RUSKE FEDERACIJE IZDALA KNJIGU: OKTOBARSKA ZNAMENJA KOMUNISTIČKE PLANETE
 
 
http://www.komunistisrbije.rs/извештај-са-20-међународног-састанка-ко/

ИЗВЕШТАЈ СА 20.МЕЂУНАРОДНОГ САСТАНКА КОМУНИСТИЧКИХ И РАДНИЧКИХ ПАРТИЈА У АТИНИ

[ SLIKE: Hаша делегација са Владимиром Карченком из одељења за интернационалну сарадњу КПРФ

SLIKE: Наша делегација са Андреасом Бруксом генералним секретаром и Питером Хендy чланом ЦК Нове Комунистичке партије Британије

SLIKE: Наша делегација са другом Куцумбасом председником КПГ ]

Од 23. до 25. 11. 2018. године у Атини одржан је 20.МСКРП у организацији КП Грчке која је обележила 100.годишњи јубилеј свог историјског пута. Тема МСКРП је била: „Савремена Радничка класа и њен савез; Задаци њене политичке авангарде-комунистичких и радничких партија у борби против експлоатације и империјалистичких ратова, за права радника и народа за мир, за социјализам. Биле су присутне делегације из 90 земаља са свих конитината.

Делегати су осудили догађаје на међународном, регионалном и националном нивоу. Резмењена су мишљења и искуства стечена као резултат борбе партија у својим земљама заједнчким акцијама у претходном периоду, класној борби у својим срединама, њиховим напорима за зближавање радничке класе са другим народним и антимонополским слојевима.

У току рада било је објављено низ изјава солидарности са прогресивним снагама целога света. Наша делегација поднела је иницијативу да се пружи подршка Србији везано за Косово као саставни део Србије. Солиднет је подржао нашу иницијативу. Комунистичке и радничке партије дале су иницијативу за акције у наредном периоду:

  • Против империјалистичких ратова, интервенција и милитаризације,
  • У одбрани историје комунистичког покрета и вредности пролетерског интернационализма,
  • За учвршћивање интернационалне солидарности са народима који се боре против окупације империјалистичких претњи и интервенција,
  • Свеобухватна класна солидарност са борбом радника за радна, социјална, синдикална права и против агресивног капитала,
  • За права и еманципацију жена,
  • Борбу за политичку и синдикалну слободу и демократска права против фашистичких сила, реакционарних режима, расизма и ксенофобије, религиозне затуцаности и социјалног угњетавања.

КП Грчке је низом манифестација обележила свој јубилеј. Издвајамо изложбу историјског пута КПГ преко разних архивских материјала као и митинг у дворани „Мира и пријатељства“ у Атини коме је присуствовало 40 000 комуниста. На митингу је била присутна и наша делегација са својим партијским обележијима.

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http://www.komunistisrbije.rs/20-међународни-састанак-комунистичких/

20. МЕЂУНАРОДНИ САСТАНАК КОМУНИСТИЧКИХ И РАДНИЧКИХ ПАРТИЈА У АТИНИ

У периоду од 23. до 25. новембра ове године наша делегација у саставу другарица Аријана Колунџић и друг Дејан Јовановић заједно са још 90 делегација КП и РП из читавог света учествовали су на 20.МСКРП. Домаћин састанка била је КП Грчке (ККЕ) која је овом приликом обележила и 100 година од свог оснивања. Том приликом наша делегација поднела је следећи реферат:

Драги другови и другарице,

Велико ми је задовољство да у име партије “Комунисти Србије” и у име наше делегације поздравим учеснике 20.састанка Комунистичких и радничких партија. Желим посебно да се захвалим Комунистичкој партији Грчке и другу Димитросу Куцумбасу на инзваредним напорима које су уложили током припреме овог састанка и на свему што су учинили да се пријатно осећамо у Атини и честитам вам јубилеј 100 година од оснивања велике Комунистичке партије Грчке.

У дугој историји ККЕ наша партија изражава најискреније поштовање према комунистима Маркосовим партизанима који су се борили и гинули за слободу и социјализам. Колико су грчки партизани били уважавани показује друштвена организација села Буљкес, у Југославији. Кроз Буљкес је прошло 50 000 партизана углавном рањеника и њихових фамилија. У селу је важила грчка монета, имали су своју општинску управу, позориште, школе и новине, а Југословенска власт им је обезбеђивала квалитетније животне услове него својим грађанима. Солидарност међу комунистима некад је била на много већем нивоу него данас.

Тема даншњег састанка је веома важна за интересе и права радничке класе и комуниста као њихове авангарде. Она укључује и потребу остварења револуционарних, стратешких и тактичких активности на остваривању циљева и интереса радничке класе, а то је насилно рушење капитализма.

Савремена радничка класа подразумевајући целу њену структуру (раднике у производњи, промету, пољопривреди, образовању, здравству, науци и др.) је организована у бројне субјекте који не чине довољно напора за усклађивање активности ради остваривања циљева од интереса за припаднике радничке класе. За разлику од ње припадници капиталистичког система остварују висок степен јединства у супротстављању интересима рада, мира, а у интересу експлоатације, империјализма и против настојања за остваривање социјалистичког друштва и система.

На међународној сцени, у интересу капитала, присутно је непоштовање права на којем се заснива организација УН што је за последицу имало уништавање некад стабилних држава као што су биле Ирак, Либија, Сирија и др. у и-ме “демократије” при чему су прави интереси били експлоатација нафтних извора и других богатстава а у Европи разарање Југославије, а затим ради наводно “заштите” људских права и бомбардовање Србије без одлуке Савета безбедности.

На српској политичкој сцени присутан је велики број тзв. невладиних организација од којих је већина у функцији страног капитала и од њих финансирано.

Велики  је и број, за наше услове, регистрованих, искључиво буржоаских политичких партија (преко 90) од којих је више од половине партија националних мањина, што још више компликује јединственост радничке класе у остваривању њених интереса.

Власт је у име потенцијалног чланства у неофашистичкој ЕУ, а ради испуњења тражених елемената реализовала елиминисање друштвене својине предузећа (пљачкашким приватизацијама) и извшила укидање права радника, а све у интересу капитала. Раслојавање становништва на веома богате и већину сиромашних без постојања средње класе реализовано је и враћањем национализоване имовине.

Обједињеним послодавцима у јединствена удружења треба да парира организованост радника у комунистичке организације ради остваривања својих права, пошто су синдикалне организације у данашњим условима поткупљене са недовољно координације у активностима што такође одговара интересима капитала.

Велики проблем представља и информативна блокада у обавештавању о активностима наше партије што је производ приватизације  средства информисања које у највећем броју случајева такође делују по профитном систему.

Сложену ситуацију у нашим условима чини и то што под називом социјалистичких, комунистичких и радничких партија делују и један број организација које су у служби буржоазије и немају интерес за уједињавањем.

Авангарда своје активности мора базирати на стратешком циљу дефинисаном поставкама научног социјализма, марксизма и лењинизма што подразумева оружану револуцију, а после тога и диктатуру пролетеријата.

Следеће године у Београду заједно са комунистичким и радничким  партијама из Координационог одбора са простора Југославије обележићемо 100 година од оснивања славне Комунистичке Партије Југосалвије. Само 26 година од оснивања КПЈ са Маршалом Јосипом Брозом Титом на челу је сопственим снагама поразила фашисте, срушила капитализам и почела изградњу најхуманијег социјализма на свету. У револуцији је погинуло 50 000 чланова партије, 70 000 скојеваца и исто толико кандидата за партију. Једини критеријум за пријем у партију била је храброст у борбама. Ти комунисти су наши узори. Ми у Србији већ 28 година живимо у капитализму али због својих слабости и тешких услова у којима делујемо, ни данас ни у блиској будућности, нећемо имати снаге да поведемо народ у оружану револуцију. Зато нас је срамота. Међутим никада нећемо бити фалсификатори Марксизма-Лењинизма и нећемо лагати народ да се изборима може срушити капитализам. Све земље социјализма настале су у оружаним револуцијама. Оружана револуција је једини пут за праве комунисте. Сви они који нису за тај пут су или незналице или кукавице или отворено раде за интерс буржоазије. Очистимо своје редове од квазикомуниста. Подсетимо се Лењиновог става из “Државе и револуције”: “Смена буржоаске државе пролетерском немогућа је без насилне револуције”.

ЖИВЕО СВЕТСКИ КОМУНИСТИЧКИ ПОКРЕТ !

По повратку наше делегације из Атине објавићемо детаљан извештај са састанка.

Партија „Комунисти Србије“
 

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ODRŽAN XX. IMCWP I OBILJEŽAVANJE 100-te GODIŠNJICE OSNIVANJA KKE

29. studenoga 2018. / SRP
 
U Ateni je od 23. do 25. studenog održana 20. Konferencija komunističkih i radničkih partija, organiziranih u SOLIDNET-u.
Domaćin je bila Komunistička partija Grčke, koja je obilježila 100-tu godišnjicu osnivanja. Događaju se odazvalo 172 predstavnika 90 partija iz 71 zemlje. S jugoslavenskog prostora bili su predstavnici KP Makedonije, Komunista Srbije, NKPJ iz Srbije i Socijalističke radničke partije iz Hrvatske.
Konferenciju, radnog naziva: Suvremena radnička klasa i njeni savezi; zadaci njene političke avangarde – komunističke i radničke partije – u borbi protiv imperijalističkih ratova, za radnička i ljudska prava, za mir, za socijalizam, u prostorijama partije otvorio je drug Dimitris Koutsoumpas, generalni sekretar CK Komunističke partije Grčke. U dva dana, predstavnici svake od prisutnih partija imali su na raspolaganju 9 minuta da iznesu referat.. Intervencije su dostupne na web stranici SOLIDNET. SRP su predstavljali Vladimir Kapuralin i Kristofor Štokić. Intervencija SRP-a je u prilogu. 25. studenog je proslavljena 100. godišnjica osnivanja Komunističke partije Grčke KKE, koja je inicijalno do 1924. godine nosila ime Socijalistička radnička partija Grčke. Zvuči poznato.
Na početku radnog dijela proslave, odana je minutom šutnje počast kubanskom revolucionaru, političaru i predsjedniku Fidelu Castru, povodom dvije godine od odlaska sa životne scene. Poslije podne, gosti su razgledali bogatu izložbenu postavu koja je kronološki obuhvatila razdoblje koje je prethodilo osnivanju partije, osnivanje, period između dva svjetska rata, razdoblje građanskog rata 1946. – 1949. godine, poslijeratno doba progona i ilegale, situacija za vrijeme vladavine vojne hunte 1967. – 1974. godine i razdoblje nakon legalizacije 1974. godine. Jedan pano posvećen je demonstracijama grčkih komunista u Solunu za vrijeme NATO agresije na SR Jugoslaviju 1999. godine. Solunska luka je u to vrijeme korištena za dopremu vojnih oruđa i logistike, a grčki su komunisti vršili ometanja tokom transporta.
Navečer, održana je glavna političko-kulturna izvedba u Pireju, gdje je partija i osnovana. Manifestacija je održana u višenamjenskoj mega-dvorani „Mira i prijateljstva“, koju zbog njene veličine nazivaju Stadion. Pretpostavlja se da je u punoj dvorani predstavu s tribina i iz partera pratilo oko 20.000 prisutnih.
 
Zaključak

U vrijeme kada su velike komunističke partije zapada: KP Italije, Francuske i Španjolske, imale uticaj među radnicima i imale veliki broj članova, sljedbenika i simpatizera, a komunističke partije istoka započinjale socijalističku izgradnju ratom razorenih vlastitih država, grčki su komunisti i njihove porodice bili zatvarani, maltretirani, ili su spas morali potražit u emigraciji.
U vrijeme nakon dobrih startnih pozicija nakon završetka II sv rata, kad su spomenute partije zapada počele gubiti snagu i uticaj među radnicima, rastakane napuštanjem revolucionarnog puta, prihvaćanjem reformizma, dijaloga s građanskim partijama i kretanjem putem tzv.. Eurokomunizma, KKE je tek izlazila iz ilegale 1974. godine. Sve nakon toga je dobro poznata novija povijest.
KKE se poput mitske ptice Feniks uzdigao, savladao prepreke i danas slovi kao respektabilan politički subjekt na domaćoj političkoj sceni. Grčke komuniste ni tektonski kontrarevolucionarni društveno-politički procesi 90-ih godina prošlog stoljeća, kada su Komunističke partije socijalističkih zemalja mahom napuštale revolucionarni put i nestajale s političke scene, nisu skrenuli s revolucionarnog puta. Stoga mnogi grčku komunističku partiju na evropskom, a i širem, prostoru doživljavaju kao Pijemont komunističkog i radničkog pokreta. Ispravnost ili ne takve percepcije, potvrdit će povijest.
Bez ulaska u dublju analizu razloga zbog čega je to tako, već samo letimičan pregled događanja u svijetu govori o dosljednosti KKE kao političkog subjekta socijalističkoj ideji, odustajanja od svakog kompromisa s reformizmom i socijaldemokratskim natruhama i ustrajnom ostajanju na revolucionarnom putu. Sve to ne bi bilo dovoljno bez podrške narodnih i radničkih masa, koji nisu napustili klasnu viziju.
 
 
20. MEĐUNARODNA KONFERENCIJA KOMUNISTIČKIH I RADNIČKIH PARTIJA
IMCWP, ATENA 23.-25. XI. 2018.

http://www.solidnet.org/article/20-IMCWP-Written-Contribution-of-SWP-of-Croatia/

Dragi drugovi i prijatelji,

u ime Socijalističke radničke partije Hrvatske, u ime onih članica koordinacije komunističkih i radničkih partija s jugoslavenskog prostora koje nisu ovdje prisutne i u svoje lično ime, upućujem drugarski pozdrav svim prisutnima. Našim domaćinima, Komunističkoj partiji Grčke, upućujem izraze zahvalnosti za organizaciju ovog skupa koji nam omogućava da iznesemo svoja razmišljanja o aktualnoj situaciji i da zajedničkim snagama doprinesemo rješavanju problema koji nas okružuju. Posebno želim čestitati domaćinima, KKE, na jubilarnoj 100-toj godišnjici osnivanja Komunističke partije Grčke.

Frustrira saznanje da na početku XXI. Stoljeća, usprkos enormnom razvoju proizvodnih sredstava, tehnike i tehnologije, koja bi trebala omogućit dostojan život stanovnicima širom svijeta, mi smo još duboko ukopani u rovovima klasne podjele. Razlike između onih koji imaju previše i onih koji nemaju dovoljno za dostojan život, pa i osnovne životne potrebe, danas su veće od onih na početku XX. stoljeća. Iako je to posljedica nametanja hegemonije svjetskih financijskih centara moći predvođenih SAD-om, EU i NATO-om nad svima koji ne prihvaćaju njihovu imperijalnu dominaciju, to ne negira argument o evolucijskom zastoju ljudske svijesti u odnosu na druge osobine i čovjeku kao predatoru.

Urušavanjem socijalizma u Istočnoj Evropi, nestale su mnoge energije iz kojih je snagu i ideje crpio radnički i sindikalni pokret evropskog zapada pa su stečena prava i standard radnika niža. Osim toga, restrukturiranjem privrede, sve većim udjelom servisnog udjela rada u odnosu na onaj proizvodni, nepovoljno utiče na nivo revolucionarne svijesti zaposlenih. Rast nezaposlenosti, pad broja zaposlenih, sve veći udio zapošljavanja na određeno radno vrijeme u odnosu na neodređeno, obnavljanje radnih ugovora, često i na vrlo kratke intervale, uzrokuje trajnu nesigurnost radnika i dovodi do neprestanog smanjenja broja organiziranih radnika. Društvene mreže i spontane, često vrlo masovne, akcije radnika i nezadovoljnih građana nisu dovoljna zamjena za nedostatak svijesti i radničke solidarnosti, koji su danas, na puno nižoj razini od one prije jednog stoljeća. Radnici se sve manje identificiraju kroz klasni argument, a sve više kroz nacionalni i građanski. Za posljedicu imamo pojavu i jačanja ekstremističkih grupa, sve do eksplicitno fašističkih.

Socijalistička ideja se stigmatizira na svim razinama, u tome prednjače zemlje nekadašnjeg istočnog bloka, dodvoravajući se svojim novim gospodarima.

Evropa, Azija i Afrika poprišta su permanentnih ratnih sukoba i imperijalističkih agresija: Jugoslavija, Afganistan, Irak, Libija, Sirija, državni udar u Ukrajini od strane nacističkih organizacija direktno podržanih od Amerike i zapada. U svim tim slučajevima radi se o klasičnoj borbi za prostor s ciljem osvajanja tuđih teritorija na kojima se, po ustaljenom postupku, obara postojeća vlast i uspostavljaju podanički protektorati u kojima novopostavljena marionetska vodstva omogućavaju eksploataciju prirodnih resursa i infrastrukture, ali i korištenje novoosvojenog prostora u strateškom nadmetanju.

Sve te agresije ostavile su iza sebe enormna civilna stradanja i infrastrukturna razaranja koja su nagnala milione ljudi da napuste svoje domove i pokušaju naći spas u emigraciji. Ogroman broj njih je na tom putu stradao, dok je većina preživjelih upotrebljena u određenom vremenskom trenutku za proizvodnju najveće izbjegličke krize u Evropi, kojom se manipulira i koristi za političku trgovinu i ustupke.

Evropa nema pravo da se proglašava žrtvom terorističkih napada ili poplavom izbjeglica. To joj se samo poput bumeranga vraća ono u čijem stvaranju je i sama sudjelovala. Vjerno je izvršavala volju Amerike i podržavala i učestvovala u većini prljavih ratova protiv suverenih država, a prije toga je stoljećima kao kolonijalna sila izrabljivala širom Afrike, Bliskog istoka, Azije i obiju Amerika.

Već sam spomenuo jačanje radikalne desnice u Evropi. Ta je pojava postala dio svakodnevnice i u Hrvatskoj. I dok se ona u nekim evropskim zemljama pojavila kao odgovor na izbjegličku krizu i migracijske tokove ili kao izraz nezadovoljstva vazalnim odnosom matičnih država u odnosu prema Americi, u Hrvatskoj ima potpuno različito ishodište.

U Hrvatskoj afirmacija radikalne klerofašističke desnice nije posljedica protoka izbjeglica, on je protekao uglavnom bez većih potresa, nego je posljedica pobjede kontrarevolucije i secesije 90-ih godina prošlog stoljeća, posvemašnje revizije povijesti i restauracije slijednika poražene politike kolaboracionista u II. svjetskom ratu. Drugim riječima, malo blaži oblik događaja u Ukrajini.

Dakle, kapitalizam, koji je ispunio svoju povijesnu misiju, ne nudi više odgovore na potrebe čovječanstva i on stvara sve dublje društvene, političke, ali i ekološke krize, čime se određuje kao destruktivan poredak. Analiza te destrukcije nameće potrebu pomaka težišta akcije iz esencijalne sfere u egzistencijalnu. Kapitalizam je jedini sistem u ljudskoj povijesti koji je u stanju uništit čovječanstvo i to ne samo vojnim sredstvima, on uništava životvornost prirode i čovjeka. Ne uspije li čovječanstvo ukinuti kapitalizam, ukinut će on čovječanstvo. Naime, još pred jednim stoljećem Rosa Luxemburg je ustvrdila da je budućnost čovječanstva socijalizam ili barbarstvo.

Pred sobom imamo jedan vrlo organizirani stroj s jako dobro osmišljenom tehnologijom vladanja ljudima i borba protiv njega ne može biti stihijska nego organizirana.

Budući da su kritika i samokritika ugrađeni u same temelje djelovanja revolucionarne klasne ljevice, moramo pogledat istini u oči i ocijeniti naš udio odgovornosti za postojeće stanje. Sveprisutna nesloga, rivalstvo, personalne ambicije, fragmentacija do atomizacije na ljevici, multipliciranje broja organizacija s malobrojnim članstvom, oportunizam, skretanje s revolucionarnog puta i priklanjanje reformizmu i socijaldemokraciji, uz eksplicitnu podršku pojedinih komunističkih partija vojnim intervencijama, čini nas nepouzdanim i neozbiljnim osloncem za široke mase. Time direktno radimo u korist vlastite štete i pomažemo svojem klasnom neprijatelju. Condicio sine qua non bilo kakvog pomaka u toj borbi je prevladavanje postojećih podijeljenosti na klasnoj osnovi.

Uvjereni smo da će i izlaganja ostalih sudionika konferencije ukazati na probleme s kojima se naše partije susreću i da ćemo iz tih činjenica odredit pravce naših budućih djelovanja, a ono mora biti usmjereno ka jačanju međusobne suradnje. Raduje me da vas mogu obavijestiti da na području nekadašnje Jugoslavije od 2011. godine djeluje Koordinacija komunističkih i radničkih partija, koju trenutno čine po jedna partija iz svake nekadašnje republike.

Hvala na pažnji!

Vladimir Kapuralin

Atena, 23.-25. XI. 2018.
 
 
Da Rajko Blagojević della Udruzenje Medjunarodna Radnička Solidarnost di Kragujevac riceviamo e volentieri diffondiamo le seguenti sintesi sulla situazione generale socio-economica in Serbia e sugli sviluppi alla fabbrica ex-Zastava oggi FIAT-Chrysler (FCA) di Kragujevac.
 
Sulla situazione in Serbia si veda anche l'articolo di Enrico Vigna pubblicato nel settembre 2018 a questi link:
 
 

SERBIA – SITUAZIONE ATTUALE

 

Alcuni giorni fa all’indirizzo di ogni pensionato in Serbia è arrivata lettera di ringraziamento firmata dal presidente serbo Aleksandar Vučić nella quale lui ringrazia pensionati per la pazienza, la responsabilità, il rispetto e l’affetto verso patria dimostrato nel periodo precedente e perchè con il loro sacrificio e rinuncio di una parte della loro pensione si è potuto garantire il futuro dei nostril figli..

Le reazioni sono state più che accese per vari motivi. Innanzitutto il mittente è il partito radicale serbo il cui logotipo si trova sulla busta. Poi, è noto che solo Fondo pensionistico possiede evidenza sui pensionati mentre con la legge su privacy (protezione dei dati sulle persone) sono protetti i dati di ogni singolo cittadino e cosi anche del pensionato. Ed infine, i pensionati non accettano il fatto che il governo senza chiedere il loro consenso, dal 2014 fino ad oggi, aveva tolto 10 % dalle pensioni, in base ai criteri completamente sconosciuti. Perciò tale lettera viene vista da loro come offesa perchè le pensioni sono una proprietà acquisita come è noto a tutti.

In Serbia ci sono 2.583.000 impiegati e 1.720.000 pensionati che sono  nella fascia più vulnerabile della popolazione secondo i dati ufficiali. La pensione minima di 14.338,00 dinari (120 euro) ricevono perfino 290.000 pensionati mentre cca 663..000 pensionati ricevono meno di 25.000,00 dinari (210 euro).

La situazione non è rosea nemmeno per quelli che lavorano nonostante il fatto che il governo attuale continua a dichiarare che la Serbia sia un leader economico nei Balcani e che tutto “vada molto bene per noi.”

Al contrario, la realtà ci dimostra che con salario medio stiamo quasi ultimi d’Europa e da anni non ci spostiamo con la crescita economica trascurabile.

Non sorprende il dato che 25,6 % della popolazione (uno su quattro) vive sotto la soglia di povertà e più in rischio sono i giovani tra i 18 – 26 anni. La maggioranza di quelli che lavorano ricevono il salario minimo (cca 200 euro), lavorano tramite agenzie interinali “importate” dall occidente, non osano costruire proprie famiglie, non hanno casa loro e vivono dai genitori.

Il tenore di vita e dimostrato dal paniere mensile calcolato per una famiglia di quattro componenti. Per cibo, bollette, tasse, materiale igienico, istruzione, trasporto, farmaci necessita spendere circa 110.000,00 dinari (920 euro). Siccome il salario medio risulta di 46.000,00 dinari (390 euro) e se supponiamo che tutti e due genitori lavorino (???) risulta che ogni mese mancano circa 18.000,00 dinari (140 euro). I calcoli sono fatti  per salario medio statistico e cosa dire per la famiglia in cui genitori ricevono il salario minimo di 24.800,00 dinari (cca 200 euro) che è il caso di maggioranza dei lavoratori nel settore industriale.

Un altro dato significativo – in Serbia ci sono 76 “cucine popolari” dove si distribuisce un pasto gratuito al giorno alle persone che non hanno nessun sussidio.

I giovani laureati che non vedono un futuro promettente studiano il tedesco ed il norvegese sperando di costruire la vita fuori Serbia. Il dato ufficiale dimostra  che in questo secolo dalla Serbia sono andati via 486.940 cittadini.

 

FIAT – SITUAZIONE ATTUALE

 

In Serbia, uno stato dove si vive con costanti problemi e sotto stress, non fa grande notizia che il 23 novembre la Fiat ha sospeso produzione e che i lavoratori di tutti e due turni sono mandati in ferie lunghe, più probabilmente entro metà gennaio 2019. Oltre ferie di Capodanno i lavoratori saranno pagati 6 giorni con 65 % che significa i salari di dicembre ridotti. Tutto sommato i lavoratori Fiat nell’anno 2018 sono stati a casa 40 giorni.

Non è la prima volta che la Fiat cessa la produzione prima delle feste natalizie però i lavoratori sono preoccupati perchè questa volta è successo con un mese di anticipo e perchè la direzione si è decisa per un mese intero invece di più interruzioni periodiche come si faceva in precedenza. Viene spiegato che il motivo è la richiesta del mercato calata e com’è già noto la Fiat non produce scorte ma si adegua alle richieste del mercato.

Questa interruzione porta all’interruzione di produzione dell’indotto. Quando sarà ripresa la produzione non si sa.

Il sindacato in Fiat con segretario Zoran Marković fa pressioni costanti su premier Ana Brnabić di dare informazioni sul futuro della fabbrica. La premier aveva promesso che il management della Fiat avrebbe presentato i piani per i 5 anni successivi entro fine 2018 e non oltre i primi di gennaio 2019.

Ricordiamo che Fiat Chrysler Automobili il 1. giugno in Italia e poi il 29. settembre a Kragujevac (dopo la scadenza del contratto stipulato per 10 anni) ha pubblicato che la produzione a Kragujevac sarebbe continuata. Oltre al modello standard 500L sarebbe prodotta anche la versione ibrida e quella con elettromotore mentre la produzione di un modello completamente nuovo dovrebbe iniziare nella seconda metà del 2019.

Ricordiamo il grande sciopero nel 2017 quando gli operai non contenti delle condizioni di lavoro, della non adeguata organizzazione del lavoro e  dei salari bassi, hanno abbandonato i posti di lavoro ed hanno scioperato prima in fabbrica e poi davanti al Comune. Allora la premier Brnabić ha dichiarato rivolgendosi agli operai "forse il salario di 42.000 dinari (350 euro) non vi basta per la vita però se la Fiat se ne va avrete ZERO dinari e verrete di nuovo davanti al governo serbo per chiedere risoluzione del problema."

Tale posizione della premier dimostra in quale categoria sono lavoratori in industria. Ha altresì dichiarato che lo sciopero era una vergogna perchè i loro posti di lavoro erano pagati con soldi di tutti i cittadini serbi. Questo è vero perchè ha pensato alle enormi sovvenzioni che sono state date alla Fiat nei 10 anni precedenti.

Tenendo presente tutto questo ci chiediamo se il problema consiste in un contratto nuovo tra la Fiat e lo stato serbo? Non è un segreto che  il management di Torino vorrebbe il contratto senza modificare quello precedente. Il governo serbo però, che parecchie volte ha criticato il governo precedente per questo contratto, ritiene che alla Fiat non debbano dare agevolazioni cioè che la Fiat debba iniziare a versare i contributi per 2500 lavoratori con tutti i dazi, tasse e IVA. Con tale contratto nuovo anche la città di Kragujevac potrebbe finalmente avere qualche vantaggio che finora non aveva. Ciò si riferisce anche al terreno che la fabbrica occupa – 140 ettari e le fabbriche dell’indotto – 30 ettari, che sono di proprietà del Comune di Kragujevac.

Nel 2017 la Fiat ha prodotto e venduto 65.000 delle 500L (le capacità produttive sono per 180.000 unità) mentre i dati per l’anno 2018 non sono ancora pubblicati ma si sa già che il numero sarà ridotto.

Lo stato serbo partecipa con il 33% del capitale. Nella fabbrica sono stati investiti 1,3 miliardi di euro però è un dato sconosciuto quanto è stato investito da ciascuna delle parti.

 

Rajko Blagojević

29.11.2018.

 

[[ https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8972 ]]

(srpskohrvatski / italiano)
 
Cento anni di Jugoslavia
 
1) Cent’anni di Jugoslavia (Giorgio Fruscione)
2) 100 Godina od osnivanja Jugoslavije (Komunisti Srbije)
 
 
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Cent’anni di Jugoslavia

di Giorgio Fruscione – East Journal, 30 novembre 2018

Da BELGRADO – Domani ricorre il centenario della proclamazione dell’unione di serbi, croati e sloveni in un unico regno, ovvero la Jugoslavia, come verrà ufficialmente rinominato il paese nel 1929.
 

La nascita del Regno di Serbi, Croati e Sloveni può considerarsi l’esito più politicamente rilevante della Prima guerra mondiale per la regione balcanica. Uno degli artefici della realizzazione dell’unione, re Aleksandar Karadjordjevic – che si guadagnerà l’epiteto di “unificatore” – sostenne personalmente che l’obiettivo principale dell’esercito serbo nella Grande Guerra fosse quello di arrivare a una liberazione degli slavi nel sud e alla costruzione della Jugoslavia.

D’altronde, la Jugoslavia viene spesso erroneamente fatta coincidere quasi esclusivamente con la successiva federazione di Tito, che invece non è che una delle realizzazioni di quell’ideale – lo jugoslavismo, appunto – nato circa un secolo prima la stessa Jugoslavia socialista.
Un errore che si accompagna a quello di ritenere la Jugoslavia come un ideale e uno strumento a servizio della politica “granserba”. Lo dimostrano l’attività letteraria e artistica di molti croati che fondarono il movimento culturale jugoslavo, che vide una moltitudine di collaborazioni sull’asse Belgrado-Zagabria. Ne è esempio Ljudevit Gaj, che nella seconda metà dell’Ottocento collaborò con Vuk Karadzic, padre della riforma della lingua serba, arrivando insieme a gettare le basi della futura lingua serbo-croata. E ancora lo scultore Ivan Mestrovic, amico personale di re Aleksandar, a cui corse in aiuto con le sue sculture per plasmare un’identità jugoslava attraverso monumenti in ricordo di quell’epopea che fosse interpretabile in chiave unificatrice – come la tomba del milite ignoto costruita sul monte Avala nel primo dopoguerra, ornata da cariatidi che indossano abiti tradizionali di tutte le regioni del nuovo regno. Sia Gaj che Mestrovic furono, a loro modo e in due distinti periodi storici, sia croati che jugoslavi, ovvero promotori di un’identità trasversale.

Da quel primo dicembre 1918 passarono quasi venticinque anni quando si arrivò alla seconda Jugoslavia. Ieri è infatti ricorso anche il settantacinquesimo anniversario dalla seconda seduta dell’AVNOJ, il consiglio antifascista jugoslavo, che nel 1943 a Jajce (Bosnia-Erzegovina) in piena Seconda guerra mondiale diede vita alla federazione jugoslava guidata dai partigiani di Tito.

Il sottile filo rosso che collega re Aleksandar al maresciallo Tito è a malapena percettibile. Un serbo e un croato; un monarca e un comunista; uno per lo stato centralizzato e l’altro per la federazione. Eppure Aleksandar e Tito furono due autentici interpreti della Jugoslavia. Entrambi imposero una dittatura personale nel nome del bene comune, ponendo insomma la propria autorità a ruolo di arbitri e garanti dell’ordine multinazionale, affinché non prevalesse un gruppo nazionale sugli altri. Non fu facile, soprattutto per Aleksandar.

Il cambio del nome in Regno di Jugoslavia del 1929 fu solo l’inizio della cosiddetta “Dittatura del 6 gennaio”, quando il re sciolse il parlamento, dichiarò illegali tutti i partiti politici e impose un rigoroso jugoslavismo. Fu l’estrema risposta all’attentato nel parlamento di Belgrado che pochi mesi prima portò alla morte di Stjepan Radic, leader del movimento contadino croato, in seguito alle ferite da arma da fuoco per mano del deputato nazionalista serbo Punisa Racic.
La dittatura finì con l’aumentare la rabbia nazionalista.. Il 9 ottobre del 1934, durante una visita a Marsiglia, re Aleksandar fu vittima di un attentato mortale ochestrato da nazionalisti croati (poi conosciuti col nome di “ustascia”) e macedoni del VMRO, organizzazione politico-militare che ambiva alla grande Bulgaria. Le sue ultime parole, negli istanti successivi all’attentato, furono: “Prendetevi cura della mia Jugoslavia”.

Gli errori di Aleksandar facilitarono in parte Tito, che impostò la Jugoslavia socialista su una maggiore uguaglianza tra i popoli – riassunta dal motto Unione e Fratellanza – e che spesso viene interpretata, anche in questo caso erroneamente, come l’applicazione della formula “una Serbia debole, per una Jugoslavia potente”. Fu vero il contrario, non solo per la Serbia, ma per tutte le repubbliche. E forse è per questo che vollero, così violentemente, emanciparsi da Belgrado a partire dal 1990, quando dieci anni dopo la morte del maresciallo finì il potere della Lega dei Comunisti Jugoslavi.

Per la Jugoslavia, quindi, non funzionò il centralismo e nemmeno il decentramento dei poteri, la monarchia e neanche il comunismo. Eppure, furono due entità che a modo proprio funsero da contenitore a un insieme di autentiche attività artistiche e culturali – per non parlare della crescita economica raggiunta con il socialismo dell’autogestione tra gli anni Cinquanta e Settanta – di cui tutt’oggi abbiamo traccia.

La Jugoslavia e lo jugoslavismo, oggi, sono una sorta di sopravvivenza contro la storia. E non si tratta solo di jugonostalgia, identificabile come un rammarico più o meno politico per il periodo di Tito; o di “jugosfera”, apparato di legami culturali e commerciali che, come sostiene l’esperto Tim Judah, tiene ancora in vita i rapporti tra gli ex della Jugoslavia. Si tratta anche e soprattutto di un’identità che resiste. Nell’instancabile rock jugoslavo che ancora riempie gli stadi a Zagabria e Belgrado; nel successo di quel cemento “brutalista” contro la ghettizzazione urbana; o, più semplicemente, nei discorsi da bar di quegli appassionati di sport che, puntualmente ad ogni mondiale, iniziano sempre con la frase “che squadra che avrebbe oggi la Jugoslavia…”

 
 
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100 GODINA OD OSNIVANJA JUGOSLAVIJE

U organizaciji Udruženja Jugoslovena iz Lajkovca održana je proslava 100 godina od formiranja Kraljevine SHS, na kojoj je prisustvovala i naša delegacija.
 

REFERAT PARTIJE “KOMUNISTI SRBIJE”

Drugarice i drugovi u ime partije KOMUNISTI SRBIJE pozdravljam sve prisutne i zahvaljujemo se udruženju JUGOSLOVENA iz Lajkovca i predsedniku istog Vlastimiru Jevtiću koji je ujedno i član CENTRALNOG KOMITETA naše partije na organizaciji ove jubilarne manifestacije i gostoprimstvu.

Komunisti Srbije su revolucionarna marksističko-lenjinistička partija čvrste jugoslovenske orijentacije. Mi ne priznajemo razbijanje Jugoslavije  i borimo se za njenu reintegraciju u AVNOJEVSKIM granicama. Mi nismo jugo-nostalgičari mi smo jugo-futuristi. Svedoci smo danas da se falsifikuje istorija i da se rehabilituju ratni zločinci i saradnici fašističkog okupatora od razbijanja SFRJ. U Srbiji je preko 2000 ratnih zločinaca i kvinslinga rehabilitovano što predstavlja sramotu za našu državu. Pre 100 godina osnovana je zajednička država južnih slovena, ali obzirom da je bila monarhija i da je na vlasti bila reakcionarna buržoazija kojoj nije bilo u interesu da reši ni nacionalno ni socijalno pitanje nije ispunila velika očekivanja naroda i narodnosti. Kraljevina Jugoslavija je posle Albanije bila najsiromašnija država u Evropi što važi i za Srbiju danas koja se vratila 100 godina unazad. Tek je pobedom u NOB-u i socijalističkoj revoluciji predvođena slavnom KPJ i maršalom Josipom Brozom Titom na čelu ostvarila vekovni san jugoslovenskih naroda i narodnosti u okviru SFRJ da žive slobodno i ravnopravno u najhumanijioj državi na svetu. Socijalistička Jugoslavija je bila uvažavana i respektovana u čitavom svetu a njenog lidera druga Tita konsultovali su najzačajniji svetski lideri za rešavanje brojnih međunarodnih konflikata i kriza u Svetu. Današnje državice na prostoru eks Jugoslavije ne predstavljaju nikakav faktor na međunarodnoj političkoj sceni a njihovi lideri su obični politički šarlatani. Primer za to je najnovije poniženje koje je doživeo predsednik Srbije u Parizu na proslavi 100 godina od pobede saveznika u Prvom svetskom ratu.

Samo u socijalističkoj Jugoslaviji,naši narodi i narodnosti mogu povratiti slobodu, ravnopravnost i socijalnu sigurnost.

SMRT FAŠIZMU – SLOBODA NARODU !

 



I veri Bush

Proponiamo un commento di Pino Cabras, parlamentare M5S, su George Bush. Nel fiume di retorica totalmente acritica, se non addirittura agiografica, questo è uno dei pochi commenti che merita di essere letto.

3 Dicembre 2018

di Pino Cabras

In morte dell’ex presidente USA George Herbert Walker Bush (1924-2018), si stanno già sprecando i commenti giornalistici e istituzionali che ne esaltano la figura. Preparatevi a una scorpacciata di buone parole e santificazioni postume. Molti commentatori che quando parlano di Putin aggiungono sempre in automatico, quasi fosse un secondo cognome, la formula «ex-spia-del-Kgb», trascureranno, altrettanto in automatico, un dettaglio biografico che riguarda Bush, l’essere stato direttore della Cia.
Trascureranno cioè una qualificazione più accurata di uno dei quadri dirigenti della guerra fredda, un personaggio emblematico di un sistema che ha plasmato l’infrastruttura imperiale americana. L’appartenenza di Bush ai settori più opachi delle classi dirigenti statunitensi non è insomma una nota a margine della Storia, un incidente di percorso, una piccolezza, bensì la chiave per capire il suo ruolo con sufficiente respiro storico. Ho letto anni fa il documentatissimo saggio di Russ Baker “Family of Secrets” (Bloomsbury, 2008), che ripercorre l’incredibile galleria di azioni sporche collegabili in episodi decisivi della storia USA a quel gruppo patrizio di cui i Bush sono una componente centrale.

Poiché nei fatti quella dei Bush è una dinastia, come per tutte le dinastie ci si deve muovere dai patriarchi, a partire dal nonno del defunto, ossia Samuel Prescott Bush, tra il 1914 e il 1918 un fedelissimo di Percy A. Rockfeller (padrone della City Bank e della Remington Arms Co.), amministratore della War Industries Board (industria a produzione militare che si espanse moltissimo grazie alla prima guerra mondiale), socio del magnate della finanza Bernard Baruch e del ‘banchiere nero’ Clarence Dillon , habitué dei circoli esclusivi dell’alta finanza che originarono il CFR (Council of Foreign Relations).

Si deve poi passare a suo figlio (e padre del defunto), Prescott Sheldon Bush, amministratore e socio della Union Banking Corporation (UBC) [Ben Aris, Duncan Campbell, “How Bush’s grandfather helped Hitler’s rise to power,” «The Guardian», 25 settembre 2004. http://www.guardian.co.uk/usa/story/0,12271,1312540,00.html.] Il suo partner più importante in Germania era l’industriale nazista Fritz Thyssen: la banca fu fondata per finanziare la riorganizzazione dell’industria tedesca. Investiva ad esempio nell’Overby Development Company e nella Silesian-American Corporation (diretta dallo stesso Bush), da cui l’industria bellica di Hitler si approvvigionava di carbone anche dopo l’entrata in guerra degli USA. Investiva inoltre nella compagnia di navigazione Hamburg-Amerika Line (poi denominata Hapag-Lloyd dopo la fusione con un’altra società), le cui navi, negli anni trenta, fornivano le milizie naziste di armi provenienti dagli Stati Uniti. L’attivismo del senatore Prescott Sh. Bush fu premiato: venne insignito dal regime nazista dell’‘Aquila tedesca’. Il certificato di attribuzione di questa onorificenza in data 7 marzo 1938 fu firmato da Adolf Hitler e dal segretario di Stato Otto Meissner, come risulta dagli archivi del Dipartimento della Giustizia statunitense. Nel corso del 2001 sono venuti a galla dei documenti impressionanti sui traffici di Prescott Sh. Bush. Queste recenti ricerche dimostrano che quel Bush installò una fabbrica nei pressi di Auschwitz, dove lavorarono, ridotti in schiavitù, i prigionieri dei vicini campi di concentramento [Gli archivi vennero compulsati da John Loftus, presidente del Florida Holocaust Museum. Si veda Toby Rodgers, “Heir to the Holocaust, How the Bush Family Wealth is Linked to the Jewish Holocaust”, in «Clamor Magazine», maggio-giugno 2002.]

La nostra attenzione a questo punto può finalmente spostarsi su George Herbert Walker Bush, vicepresidente nell’amministrazione Reagan (1981-1989) e poi 41° presidente degli Stati Uniti (1989-1993). I suoi vasti interessi in zone oscure della morale politica hanno spaziato dalla copertura di certi traffici di droga a quelli di armi e petrolio, solo a stare alla vicenda Iran-Contra.

Citiamo alcuni passaggi di questa sfolgorante e spregiudicata carriera. Seguendo le orme dei suoi familiari, George debutta molto presto nei circoli anticomunisti dell’alta finanza nordamericana. Oltre ad aver occupato le massime cariche alla Casa Bianca, il suo cursus honorum lo vede fra i coordinatori del fallito sbarco nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961, poi punto di riferimento del narco-dittatore panamense Noriega, infine superconsulente di Carlyle Group , ossia uno dei principali azionisti di molti fornitori delle forze armate americane. Ma fu anche direttore della CIA tra il 1976 e il 1977. Tra il 1981 e il 1986 – da vicepresidente degli Stati Uniti – Bush selezionò decine di figure chiave dell’amministrazione coinvolte in colossali traffici nel mercato internazionale della droga.

Nello stesso periodo, e anche questa è cosa ben nota, furono molto fitti e costanti i rapporti tra la famiglia Bush e quella bin Lāden (tanto che entrambe hanno ricoperto posizioni rilevanti nel Carlyle Group). Khalifa, Bin Mafouz, Salem bin Lāden (fratellastro di Osāma) erano nel consiglio di amministrazione della BCCI quando scorrevano immensi flussi di denaro per l’affare Iran-Contra. Quando, alla fine del 1980, alcuni emissari repubblicani s’incontrarono in segreto a Parigi con i khomeinisti moderati per far rimandare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e sconfiggere così Jimmy Carter alle elezioni, George padre arrivò in tutta fretta al vertice a bordo dell’aereo di Salem bin Lāden. I bin Lāden investirono nel Carlyle Group circa 1,3 miliardi di dollari e James Baker, a capo dello staff di Bush Senior, ha ammesso ufficialmente che Bush ha incontrato i bin Lāden anche nel novembre 1998 e nel gennaio del 2000.

Possiamo dunque cogliere già con pochi cenni che questo pezzo di “patriziato americano” rappresentato dalla dinastia dei Bush si tramanda una grande spregiudicatezza nei rapporti di potere con presunti nemici. Dentro le guerre, dentro i grandi affari dell’industria a produzione militare, dentro le consorterie di petrolieri che brindano all’uccisione dei Kennedy e al trionfo delle petromonarchie.

Sono strutture di potere che durano al di là delle singole persone, al punto che perfino una persona di ridottissime capacità come George W. Bush, figlio di George Herbert Walker Bush, è riuscito poi a diventare anche lui presidente, orgogliosamente dichiaratosi «a president of war» e dunque corresponsabile dei grandi disastri bellici di cui oggi ereditiamo le conseguenze.

Non uniamoci perciò alle canonizzazioni di Bush. Misuriamo semmai la serietà dei giornali dalla capacità di farne il vero ritratto.



(english / italiano)

Nebojša Slijepčević: Srbenka

1) Srbenka, un documentario sugli aspetti più intimi della xenofobia (Tatjana Đorđević)
2) «Srbenka», come guarire dai traumi? (Gianfranco Miksa)

Nota del curatore: l'uso della categoria della "xenofobia" per indicare il disprezzo vigente in Croazia verso i concittadini di cultura serba è fondamentalmente inappropriato, poiché assume che i serbi di Croazia siano stranieri nella loro stessa terra. (I.S.)

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SRBENKA, documentary, DIR: Nebojša Slijepčević, 2018, 75 min

TRAILER (DAFilms, 3 mag 2018): In the winter of 1991 a 12-year old Serbian girl was murdered in Zagreb. Quarter of century later director Oliver Frljić is working on a theatre play about the case. Rehearsals become a collective psychotherapy, and the 12-year old actress Nina feels as if the war had never ended...


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Srbenka, un documentario sugli aspetti più intimi della xenofobia

Quando Nina scopre di essere serba ha 7 anni e vive in Croazia. La sua vita si trasforma in un incubo

TATJANA ĐORĐEVIĆ
Giornalista freelance e corrispondente dall'Italia per vari media serbi

Diretto dal regista croato Nebojsa Sljepcevic, Srbenka (miglior documentario a Cannes 2018) indaga con una inaudita profondità il modo in cui le minoranze, e in particolare i suoi membri più giovani, vivono il presente e come interpretano il passato. Sullo sfondo, una Croazia che non ha mai chiuso i conti con la guerra.

“Una volta ho chiesto a mia madre: Mamma, sono Srbenka? All’epoca, non sapevo esattamente come si dicesse ‘serba’. Ho iniziato a piangere, perché fino all’età di sette anni pensavo di essere croata”. Inizia cosi la storia di Nina, la protagonista del documentario Srbenka. Il titolo nasce proprio dall’errore di pronuncia della piccola Nina.

Premiato come miglior documentario al Festival di Cannes, il film segue le prove dello spettacolo teatrale “Aleksandra Zec”, diretto dal famoso e controverso regista croato Oliver Frljic, che cerca di esaminare l’omicidio della dodicenne serba Aleksandra (interpretata da Nina), uccisa insieme ai suoi genitori nel dicembre del’91. L’episodio è altamente discusso in Croazia, visto che gli autori di questo crimine ad oggi non sono stati perseguite penalmente. E quando lo spettacolo esordì in scena nel 2014 a Rijeka subì pesanti condanne da parte di media, associazioni, politici e veterani di guerra.

Il regista Nebojša Sljepčević conobbe Nina durante le prove dello spettacolo di Frljic, quando la ragazza casualmente rivelò come avesse scoperto di essere serba. Così nacque l’idea di portare in pellicola Srbenka, un ritratto amaro della società croata contemporanea. Frontiere News ha avuto l’occasione di intervistare Nebojša Sljepčević, che sarà in Italia il 4 novembre per il Festival dei Popoli, a Firenze.

Srbenka descrive le condizioni della minoranza serba in Croazia; quello che emerge sui serbi è applicabile per tutte le minoranze che oggi provano disagio in Europa?

Non è facile generalizzare. Ad ogni modo la crescita dell’intolleranza in Europa è evidente e certamente le minoranze la percepiscono maggiormente. Il documentario Srbenka parla di tutte le minoranze, non solo quelle etniche, ma anche quelle sessuali e politiche.

Il registra Frljic riesamina il passato; lei invece racconta il presente e quindi la situazione attuale della società croata?

Sì, esatto. Non ho pensato neanche un minuto di fare un film che raccontasse il passato, anche se noi che veniamo dai Balcani non possiamo fuggire da quello che c’è stato qui. Anche quando fai un film che racconta il presente, allo stesso tempo parli del passato. Purtroppo il passato influenza le nostre vite e viene usato per manipolare il popolo. Sebbene siano passati venti anni dalla guerra, il ricordo è ancora fresco. In certi ambienti è preferibile che le ferite non guariscano e che i traumi rimangano aperti.

Xenofobia e intolleranza sono parte evidente della società croata. Di chi è la colpa?

Dei politici. Negli ultimi venti anni, in Croazia ha governato l’HDZ (Unione democratica croata), un partito di centrodestra che ha impoverito il Paese e che cerca di nascondere la sua incompetenza facendo emergere nemici fittizi, esterni ed interni. E’ possibile indicare il momento preciso in cui, all’improvviso, l’estremsimo ha iniziato a crescere. E’ successo quando la Croazia è entrata nell’Unione Europea; in quel momento l’HDZ smise di interpretare la parte del partito europeista.

Dall’altra parte, l’SDP (il Partito socialdemocratico di Croazia) non sa dare risposte alla domande importanti. Sempre a causa dell’incompetenza. Ciò apre le porte ai movimenti populisti, che molto spesso usano parole d’odio per mobilitare i propri seguaci. Ma non solo, anche la Chiesa fa la sua parte. Non è molto raro sentire preti che dall’altare diffondono messaggi d’intolleranza oppure riabilitino i criminali di guerra. In Croazia al momento ci sono diversi movimenti conservatori che cercano di ridurre i diritti delle donne e delle minoranze nazionali attraverso il referendum.

Come Nina, altre persone nel documntario raccontano della loro vita nella Croazia del dopoguerra. Da quello che dicono sembra che la guerra non sia mai finita. A chi conviene questa situazione?

A molti. La guerra è una grande vetrina per il futuro, come abbiamo visto in Croazia. Parallelamente alla guerra, c’è stata una forte privatizzazione, di cui ancora oggi sentiamo le conseguenze. Stimolare la paura e l’odio è un modo perfetto per sviare l’attenzione dai problemi reali e dai veri colpevoli.

Del resto anche dalla Serbia arrivano messaggi radicali che alimentano le ostilità. L’estremismo si nutre di estremismo. Proprio in questo momento alcuni media stanno cercando di usare il mio film per diffondere odio. A loro la verità non interessa.

Se da un lato il suo documentario ritrae la società croata attuale, dall’altro fa emergere concetti come democrazia, riconcilazione e tolleranza. Pensa che il suo film potrebbe contribuire a migliorare il clima sociale?

Penso che la pace e la tolleranza non sono valori garantiti, per essi è necessario combattere, sempre. Un film non può cambiare il mondo o fare miracoli, ma penso che ogni contributo a questa lotta sia importante.

Srbenka ha vinto il premio Doc Alliance al Festival di Cannes, il premio per il miglior documentario al Sarajevo Film festival, mentre l’Accademia Europea del Cinema l’ha inserito tra i migliori quindici documentari europei del 2018. Si aspettava questo successo?

Ho girato il film pensando solo al pubblico locale. Eppure già dall’anno scorso, quando abbiamo proitettato la versione incompleta del fim al Sarajevo Film Festival, ho capito che mi ero sbagliato. Le reazioni degli spettatori stranieri sono state molto emozionanti. Mi hanno dato varie motivazioni per spiegarmi perché il film era stato gradito. Quella che mi ha colpito di più è quella secondo la quale gli spettatori stranieri nel film riconoscono la stessa situazione nei loro paesi.


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«Srbenka», come guarire dai traumi?

di Gianfranco Miksa, 21 settembre 2018

FIUME | I retroscena, l’evolversi dei fatti assieme a tutta la fortissima carica emotiva che hanno portato alla realizzazione del pluripremiato spettacolo “Aleksandra Zec” – progetto d’autore del regista Oliver Frljić, allestito dal Teatro HKD di Zagabria, che debuttò nel 2014 –, sul controverso omicidio di una dodicenne, appunto Aleksandra Zec. È questo il fil rouge del documentario “Srbenka” di Nebojša Slijepčević, trasmesso in prima visione giovedì scorso nell’Art cinema “Croatia” di Fiume, quale primo appuntamento della stagione 2018/2019.

La pellicola inizia con la toccante testimonianza di una ragazza di 18 anni, l’età che avrebbe oggi Aleksandra Zec se fosse ancora viva, la quale descrive in lacrime i diversi maltrattamenti subiti nel corso della propria vita soltanto per il fatto di essere serba e di vivere come tale in Croazia. Sta seduta al buio in mezzo al palco, vestita di nero, e difficilmente tira fuori le parole. La sua devastante testimonianza accompagna la proiezione del film come voce fuori campo. Subito dopo viene descritto il processo d’allestimento dello spettacolo diretto da Frljić. 

Un caso terribile

Il lavoro teatrale narra il terribile e vergognoso caso della dodicenne assassinata nel 1992, assieme ai propri genitori, dalla Polizia militare croata e di come gli esecutori, per un errore processuale, si trovino ancora oggi a piede libero, e pertanto del tutto impuniti. Nel raccontarlo, il regista lavora con un gruppo di attrici e attori e con quattro dodicenni, una delle quali – lo spiega nella pellicola – è di nazionalità serba. Ciascun attore del cast racconta nel documentario l’emozione provata nel rapportarsi con la storia della piccola Aleksandra, ed evoca alcuni traumi della sua infanzia legati alla guerra nell’ex Jugoslavia e di che cosa comporti e quanto influisca semplicemente il fatto di essere di nazionalità diversa in seno alla società croata. Da qui il titolo del documentario, “Srbenka”, che vuole essere una storpiatura del termine “serba”, poiché la bambina nel chiedere ai genitori di quale nazionalità fossero, non riusciva a ripeterla correttamente.
Oltre a documentare la messa in scena e le emozioni degli attori, il cortometraggio riporta anche le reazioni di una parte della società croata – quella di estrema destra di stampo xenofobo – con tutta la sua avversione verso la scelta di affrontare la storia di una sola ragazzina serba assassinata, mentre furono circa 400 i bambini morti nella Guerra patriottica in Croazia. A tale proposito, nel documentario di Slijepčević, il regista Oliver Frljić annuncia la sua intenzione di confrontarsi anche con queste terribili vicende, ma non certamente nei Teatri della Croazia, in quanto sostiene che la società croata non abbia bisogno di questo processo catartico e di questo tipo di confronto con il passato. “Di ciò hanno bisogno ben altri”, dice nel film. Quello che il documentario trasmette è lo stato di cose di una società profondamente traumatizzta, che non ha fatto ancora i conti con il passato e dove la percezione della minoranza serba non è del tutto cambiata. È ancora sempre un elemento estraneo che in molti suscita odio e di cui non bisogna fidarsi.
Alla première fiumana, oltre a un nutrito pubblico, erano presenti anche il regista Nebojša Slijepčević assieme alla troupe cinematografica del documentario interamente girato a Fiume. Il regista ha spiegato i meccanismi e le difficoltà incontrate durante la realizzazione del cortometraggio, ma ha parlato pure della sua grande soddisfazione per il successo internazionale avuto dall’opera. “Srbenka” si è imposta l’anno scorso vincendo nella sezione Docu Rough Cut Boutique del Festival cinematografico di Sarajevo. Più recentemente si è aggiudicata il premio Doc Alliance al Film Festival di Cannes, mentre l’Accademia filmica europea l’ha inserita tra i migliori 15 documentari europei del 2018. Tra gli spettatori nel “Croatia”, anche diversi esponenti del mondo culturale fiumano, tra cui gli stessi attori che hanno partecipato alla realizzazione dello spettacolo teatrale..

“Novine” alla seconda stagione

L’Art cinema fiumano prosegue intanto la sua ricca programmazione. Uno dei prossimi appuntamenti è per domani, alle ore 20.30, con la proiezione dei primi due episodi della seconda stagione della fiction “Novine” (“Il Giornale”), di Dalibor Matanić, l’unica serie televisiva croata acquistata dalla Netflix – e disponibile pertanto in oltre 190 Paesi –, prodotta dall’emittente televisiva croata (HRT).




(english / deutsch / italiano)

Il Tribunale penale internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia (ICTY) ha chiuso da un anno... ma fa ancora danno

0) PRO-MEMORIA: Milano 1 Dic. 2018: "G. Torre" Award Ceremony / Premiazione del concorso "G. Torre"
1) Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto (Italo Slavo / Jacopo Zanchini, marzo 2018)
2) La giustizia che punisce solo i vinti (Paolo Mieli, dicembre 2017)
3) FLASHBACK: Provoking nuclear war by media (John Pilger on ICTY' de facto exoneration of Slobodan Milosevic, 2016)


Altri link / À lire aussi / Weiter lesen / Also recommended:

TPIY : L’ENQUÊTE SUR LE SUICIDE DE SLOBODAN PRALJAK EST CLOSE (Klix.ba | Traduit par Eléonore Loué-Feichter | lundi 5 novembre 2018)
L’enquête sur le suicide de Slobodan Praljak en pleine audience du TPIY, le 29 novembre 2017, n’a pas réussi à établir de quelle manière ni à quel moment l’ancien chef croate d’Herzégovine s’était procuré du cyanure de potassium. Aucune infraction pénale n’a donc pu être établie....

Al link seguente un "articolo" sulla nuova sentenza per Seselj, nel quale però non si parla per niente di quello che avrebbe fatto Seselj per essere processato all'Aia ma in compenso il nome "Milosevic" è menzionato ben sette volte a mo' di insulto... e giù "soldataglia miloseviciana", "centinaia di migliaia di civili" assassinati, Vucic "oggetto di attentati" che si sposterebbe "solo in veicoli blindati", Mira Markovic che con "molti leader del clan panserbo-filorusso vivono oggi a Mosca, con ampi mezzi finanziari", Milosevic "morto suicida in carcere all'Aja", ed altre (come definirle?) invenzioni letterarie per le quali la NATO bombarda, saluta, ringrazia e paga lo stipendio (a cura di Italo Slavo):
SERBIA, LEADER ULTRANAZIONALISTA CONDANNATO IN APPELLO MA EVITA IL CARCERE (di Andrea Tarquini, 12 aprile 2018)
http://www.repubblica.it/esteri/2018/04/12/news/serbia_leader_ultranazionalista_serbo_condannato_in_appello_ma_evita_il_carcere-193652881/

JUSTIFIED GRIEVANCES? A QUANTITATIVE EXAMINATION OF CASE OUTCOMES AT THE INTERNATIONAL TRIBUNAL FOR THE FORMER YUGOSLAVIA (ICTY)
by Jovan Milojevich, February 2018 (Journal of Balkan and Near Eastern Studies, DOI: 10.1080/19448953.2017.1421414 )
Abstract: Scholars have long debated the impartiality of the ICTY. Some argue that the Tribunal is biased while others argue that it fairly and impartially seeks justice for all the victims of the war. The present study offers a narrower approach to the question of possible bias by examining whether certain case variables were associated with case outcomes. The results show strong evidence of an association between the ethnicity of the accused (and of the victims) and the verdict and years sentenced, which calls into question the Tribunal’s impartiality. Nonetheless, the main goal of this study was not to question or dispute its decisions but to assess the validity of certain grievances against the Tribunal. For instance, the Serbs feel the Tribunal has not delivered justice for their victims and—as a result—their ‘collective suffering’ has been disavowed by the other communities in the region as well as by the West. Western political elites have largely rejected the validity of the Serbs’ claim and have attributed their belief to a denial by the Serbs of their role in the war. Unfortunately, the contentious nature of this debate has contributed to the lack of peacebuilding and reconciliation efforts in the region.

Die Webseite www.free-slobo.de, nach fünfjährigem Unterbruch, wird wieder topp-aktuell nachgeführt.. Die sie tragende deutsche Sektion des ICDSM (International Committee to Defend Slobodan Milosevic) hat schon zu Beginn des Jugoslawien Krieges (neben jungewelt.de) dezidiert und fundiert gegen die kriminellen Machenschaften der NATO, insbesondere auch der Dämonisierung von Slobodan Milosevic, Stellung bezogen. (Kaspar Trümpy, ICSM Schweiz)


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Milano 1 Dic. 2018: "G. Torre" Award Ceremony / Premiazione del concorso "G. Torre"



La Commissione per l’attribuzione dei premi “Giuseppe Torre” per elaborati critici sul Tribunale per la ex Jugoslavia, ed. 2018, ha deciso di non attribuire il primo premio e di attribuire due secondi premi ex-aequo a Stefan Karganović e Jovan Milojevich – si veda il comunicato integrale della Giuria: https://www.cnj.it/home/it/diritto-internazionale/8917-i-vincitori-del-concorso-g-torre.html

La PREMIAZIONE dei vincitori si terrà a Milano sabato 1 dicembre p.v., dalle ore 10:30 presso la Galleria Milano, Via Turati 14. Per ragioni organizzative gli interessati a partecipare [ad eccezione dei membri di Jugocoord ed invitati] devono inviare richiesta di iscrizione all'indirizzo jugocoord @ tiscali.it specificando: nome, cognome, telefono di ciascun partecipante. Solo in caso di raggiungimento del massimo della capienza sarà inviata risposta negativa entro 1-2 giorni dalla sottomissione della richiesta.

Programma:

ORE 10:30: Accoglienza

ORE 11:00: Saluti e introduzione del segretario della associazione promotrice Jugocoord Onlus: Andrea Martocchia.

ORE 11:15: Dichiarazione della Giuria del Concorso a cura del membro delegato: Jean Toschi Marazzani Visconti.

ORE 11:30: Premiazioni ed interventi dei vincitori

Stefan Karganović: "ICTY and Srebrenica" [Il TPIY e Srebrenica]

Jovan Milojevich: "When justice fails: Re-raising the Question of Ethnic Bias at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY)” [Quando la giustizia fallisce: riprendendo la questione del pregiudizio etnico al Tribunale penale Internazionale sulla ex Jugoslavia (TPIY)]

ORE 12:00: Proiezione di stralci dal documentario "De Zaak Milosevic" ("Il caso Milosevic", di Jos de Putter / VPRO, Olanda 2003, V.O. sottotitolata).

ORE 12:15: Interventi degli invitati:
Gen. Giorgio Blais, già responsabile di missioni militari all'estero, esperto di Diritto internazionale ed umanitario e protezione dei Beni Culturali
Tiphaine Dickson, già avvocato difensore in casi di crimine internazionale, capo consulente al Tribunale Penale Internazionale sul Ruanda, ex consigliere legale nel processo Milosevic e ora docente alla Scuola di Amministrazione Mark O. Hatfield della Portland State University (Stati Uniti)
Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera, autore di saggi sulle questioni jugoslave tra cui "Imputato Milosevic. Il processo ai vinti e l'etica della guerra"
Slobodan Lazarević, giornalista, presidente del Consiglio Direttivo della Associazione Sloboda–Libertà, Belgrado

ORE 12:45: Discussione e conclusioni.

ORE 13:15: Aperitivo.

I lavori si terranno nelle lingue INGLESE ed ITALIANO


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Slobodan Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto

L'articolo di Jacopo Zanchini, che linkiamo di seguito (1), è una difesa d'ufficio dell'operato del "Tribunale ad hoc" dell'Aia: un bel compitino che non convince più nessuno. Se persino Paolo Mieli la interpreta oramai diversamente (2), "Internazionale", tempio in cui officiano i sacerdoti del mainstream, preferisce andare dritta a testa bassa e con robusti paraocchi.

La sua ricostruzione della guerra fratricida in Bosnia e Jugoslavia è assai carente e faziosa, tutta piegata a dimostrare la vulgata della "aggressione serba"; però già la sintesi dell'operato del "Tribunale ad hoc" è inaccettabile, poiché non solo i numeri degli imputati e dei condannati palesano il pesantissimo squilibrio "etnico" delle accuse, ma soprattutto il loro trattamento prima, durante e dopo le sentenze andrebbe analizzato. Milosevic dal carcere è uscito con i piedi davanti, e non per cause naturali, e non è stato il solo. Come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS abbiamo promosso un concorso (premi "Giuseppe Torre") su questi temi, che non possono essere liquidati come fa Zanchini.

Sulla questione specifica, Zanchini trascura che la assoluzione de facto di Milosevic è stata persino reiterata negli incartamenti della sentenza contro Ratko Mladić a fine 2017 – vedasi il link (3) per tutti i dettagli. Ma non c'è peggior sordo di chi pensa che le fake news siano solo le fake news degli altri.

(1) Slobodan Milošević è pericoloso anche da morto - Jacopo Zanchini - Internazionale 28.3.2018.
https://www.internazionale.it/opinione/jacopo-zanchini/2018/03/28/amp/slobodan-milosevic-assoluzione-notizia-falsa

(2) La giustizia che punisce solo i vinti (di Paolo Mieli, 13 dicembre 2017 – riportato anche di seguito, al punto 2.)

(3) Hague Tribunal Exonerates Slobodan Milosevic Again

(a cura di Italo Slavo)


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La giustizia che punisce solo i vinti

Dopo ventiquattro anni sta per smobilitare il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia

di Paolo Mieli, 13 dicembre 2017

In punta di piedi, se ne andrà, tra quindici giorni, il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Ha operato — la Corte dell’Aia — per ventiquattro anni, nel corso dei quali sono stati portati alla sbarra 161 imputati: 90 hanno poi ricevuto una sentenza di condanna. L’ultima immagine di questo dibattimento giudiziario destinata a rimanere impressa è quella di fine novembre: il settantaduenne generale croato-bosniaco Slobodan Praljak che, appreso di dover stare in prigione vent’anni (due terzi dei quali, già scontati), si è suicidato ingerendo, davanti alle telecamere, una fiala di veleno. Per la cronaca, Praljak in un primo tempo era stato accusato di aver ordinato, nel 1993, la distruzione dello Stari Most. Si trattava del Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico realizzato tra il 1557 e il 1566 sulla Neretva dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar per consentire alle comunità cristiana e musulmana di integrarsi tra loro. I giudici dell’Aia, però, avevano assolto Praljak per quell’ordine stabilendo che quel ponte era un «obiettivo legittimo» in quanto costituiva una «linea di rifornimento del nemico». E si erano limitati a condannarlo per altri crimini. Ma anche questo, evidentemente, era per lui intollerabile pur se gli anni da trascorrere in cella sarebbero stati davvero pochi. Del tutto diverso il suo dal caso di Hermann Göring a Norimberga, al quale pure era stato il generale croato impropriamente paragonato. Göring si era sì dato la morte nell’ottobre del 1946 con il cianuro, ma dopo essere stato condannato a morte. Sarebbe morto comunque. Prima di Praljak si erano suicidati altri imputati di questo interminabile processo: l’ex ministro dell’Interno serbo Vlajko Stojiljkovic, l’ex sindaco di Vukovar Slavko Dokmanovic e, nel marzo del 2006, il quarantottenne presidente della Repubblica serba di Krajina, Milan Babic, impiccatosi in cella mentre stava scontando una pena di tredici anni. Tutti casi di condanne relativamente lievi, ben diversi da quelli del numero due di Adolf Hitler.
Nel corso del tempo trascorso dal 1993, anno in cui il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito, ci sono stati altri decessi in cattività. Sei giorni dopo Babic, morì in cella il grande imputato di questo processo, Slobodan Milosevic. Un infarto, si disse, per giunta alla vigilia della condanna. L’ex presidente serbo aveva più volte avanzato il sospetto che i suoi carcerieri lo stessero avvelenando. Sospetti, non suffragati però da evidenze di alcun tipo. Come, peraltro, di dubbi non sorretti da prove ce ne sono stati più d’uno per le morti improvvise di alcuni dei reduci di quella guerra, rinchiusi nella prigione di Scheveningen. In ogni caso, restando a Milosevic, pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aja lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milosevic di aver cercato di convincere Karadzic che «la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra» e che «l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia». Ed è così potuto accadere che (sempre nel 2016) Prokuplje, una cittadina di trentamila abitanti nel Sud della Serbia, annunciasse l’intenzione di costruire un monumento a Milosevic. E che il capo dello Stato, Tomislav Nikolic, un ex leader del dissenso serbo, non ritenesse di dirsi «contrario» mettendo in imbarazzo l’uomo destinato a succedergli, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic (il quale, nel merito del giudizio da dare sull’iniziativa di Prokuplje, se l’è cavata dicendosi «combattuto»).
Morale: il pur scrupoloso lavoro dei giudici dell’Aja ha avuto l’effetto di produrre addirittura una iniziale riabilitazione di Milosevic. Senza peraltro dare soddisfazione alle vittime di quella guerra degli anni Novanta. Come dimostra un effetto del già citato «caso Karadzic»: il 24 marzo 2016 la Corte dell’Aja ha condannato Radovan Karadzic — l’uomo che si vantò della «pulizia etnica» — a quarant’anni di carcere per dieci capi di imputazione su undici (quanti ne aveva individuato dall’accusa). Ripetiamo, dieci su undici: Karadzic è stato ritenuto responsabile del massacro di Srebrenica (1995), di altri cinque misfatti contro l’umanità e quattro di guerra. Ma è stato assolto dall’accusa di genocidio in sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sarebbero macchiate di esecuzioni, stupri di massa e avrebbero gestito campi di concentramento con l’intenzione di uccidere quanti più musulmani possibile. I giudici hanno sentenziato che di ciò non esisteva prova certa, ed è bastato questo perché il senso della loro decisione fosse capovolto. Un superstite di quelle stragi, Amir Kulagiv, ha dichiarato: «La condanna appare come un premio per quello che Karadzic ha fatto, non una punizione... Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Dopodiché nella Republika Srpska, uno staterello bosniaco controllato dalla Serbia, la casa dello studente di Pale, (cittadina da cui fu lanciato l’assedio a Sarajevo), è stata battezzata con il nome di Karadzic e alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato la moglie del condannato nonché il Presidente Milorad Dodik. Ecco: chi è curioso di sapere come possa accadere che dei criminali di guerra possano, dopo qualche tempo, diventare oggetto di venerazione potrà d’ora in poi studiare con profitto il caso jugoslavo.
Quanto a noi, resta il dilemma che ci perseguita dai processi di Norimberga e Tokio, i quali sanzionarono le colpe di tedeschi e giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si può considerare «giusto» un Tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti? Possibile che non si riesca a trovare neanche una macchiolina sull’abito dei vincitori? Siamo proprio sicuri — ad esempio — che i musulmani bosniaci di Alija Izetbegovic non abbiano qualche morto sulla coscienza? E c’è qualcosa da dire anche a proposito di noi europei, delle Nazioni Unite, dell’Occidente nel suo insieme. Il generale serbo Ratko Mladic il 4 giugno del 1995 incontrò il generale francese Bernard Janvier che comandava le forze Onu nella ex Jugoslavia ed era disposto a qualsiasi concessione pur di ottenere la liberazione dei suoi caschi blu, in gran parte francesi, trasformati dai serbi in scudi umani. Mladic, in cambio del loro «rilascio», chiese la fine dei raid aerei della Nato; la ottenne e marciò su Srebrenica da cui il colonnello Thom Karremans, al comando del battaglione di caschi blu olandesi, l’11 luglio si ritirò chiudendo un occhio, anzi tutti e due, su quel che stava per accadere. Risultato una carneficina con un bilancio finale di ottomila morti. Per quella strage, pochi giorni fa, a fine novembre, Mladic è stato, giustamente, condannato all’ergastolo. Ma forse avrebbe dovuto essere sanzionato con un simbolico giorno di prigione anche qualcuno di coloro che consapevolmente gli consentirono di uccidere quelle migliaia di persone. Non tutti. Almeno uno.


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Provoking nuclear war by media

by John Pilger, 23 August 2016

The exoneration of a man accused of the worst of crimes, genocide, made no headlines. Neither the BBC nor CNN covered it. The Guardian allowed a brief commentary. Such a rare official admission was buried or suppressed, understandably. It would explain too much about how the rulers of the world rule.
The International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) in The Hague has quietly cleared the late Serbian president, Slobodan Milosevic, of war crimes committed during the 1992-95 Bosnian war, including the massacre at Srebrenica.
Far from conspiring with the convicted Bosnian-Serb leader Radovan Karadzic, Milosevic actually "condemned ethnic cleansing", opposed Karadzic and tried to stop the war that dismembered Yugoslavia. Buried near the end of a 2,590 page judgement on Karadzic last February, this truth further demolishes the propaganda that justified Nato's illegal onslaught on Serbia in 1999.
Milosevic died of a heart attack in 2006, alone in his cell in The Hague, during what amounted to a bogus trial by an American-invented "international tribunal". Denied heart surgery that might have saved his life, his condition worsened and was monitored and kept secret by US officials, as WikiLeaks has since revealed.
Milosevic was the victim of war propaganda that today runs like a torrent across our screens and newspapers and beckons great danger for us all. He was the prototype demon, vilified by the western media as the "butcher of the Balkans" who was responsible for "genocide", especially in the secessionist Yugoslav province of Kosovo. Prime Minister Tony Blair said so, invoked the Holocaust and demanded action against "this new Hitler". David Scheffer, the US ambassador-at-large for war crimes [sic], declared that as many as "225,000 ethnic Albanian men aged between 14 and 59" may have been murdered by Milosevic's forces.
This was the justification for Nato's bombing, led by Bill Clinton and Blair, that killed hundreds of civilians in hospitals, schools, churches, parks and television studios and destroyed Serbia's economic infrastructure.  It was blatantly ideological; at a notorious "peace conference" in Rambouillet in France, Milosevic was confronted by Madeleine Albright, the US secretary of state, who was to achieve infamy with her remark that the deaths of half a million Iraqi children were "worth it".
Albright delivered an "offer" to Milosevic that no national leader could accept. Unless he agreed to the foreign military occupation of his country, with the occupying forces "outside the legal process", and to the imposition of a neo-liberal "free market", Serbia would be bombed. This was contained in an "Appendix B", which the media failed to read or suppressed.. The aim was to crush Europe's last independent "socialist" state.
Once Nato began bombing, there was a stampede of Kosovar refugees "fleeing a holocaust". When it was over, international police teams descended on Kosovo to exhume the victims of the "holocaust". The FBI failed to find a single mass grave and went home. The Spanish forensic team did the same, its leader angrily denouncing "a semantic pirouette by the war propaganda machines". The final count of the dead in Kosovo was 2,788. This included combatants on both sides and Serbs and Roma murdered by the pro-Nato Kosovo Liberation Front. There was no genocide. The Nato attack was both a fraud and a war crime.
All but a fraction of America's vaunted "precision guided" missiles hit not military but civilian targets, including the news studios of Radio Television Serbia in Belgrade. Sixteen people were killed, including cameramen, producers and a make-up artist. Blair described the dead, profanely, as part of Serbia's "command and control". In 2008, the prosecutor of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, Carla Del Ponte, revealed that she had been pressured not to investigate Nato's crimes.
This was the model for Washington's subsequent invasions of Afghanistan, Iraq, Libya and, by stealth, Syria. All qualify as "paramount crimes" under the Nuremberg standard; all depended on media propaganda. While tabloid journalism played its traditional part, it was serious, credible, often liberal journalism that was the most effective - the evangelical promotion of Blair and his wars by the Guardian, the incessant lies about Saddam Hussein's non-existent weapons of mass destruction in the Observer and the New York Times, and the unerring drumbeat of government propaganda by the BBC in the silence of its omissions.
At the height of the bombing, the BBC's Kirsty Wark interviewed General Wesley Clark, the Nato commander. The Serbian city of Nis had just been sprayed with American cluster bombs, killing women, old people and children in an open market and a hospital. Wark asked not a single question about this, or about any other civilian deaths. Others were more brazen. In February 2003, the day after Blair and Bush had set fire to Iraq, the BBC's political editor, Andrew Marr, stood in Downing Street and made what amounted to a victory speech.. He excitedly told his viewers that Blair had "said they would be able to take Baghdad without a bloodbath, and that in the end the Iraqis would be celebrating. And on both of those points he has been proved conclusively right." Today, with a million dead and a society in ruins, Marr's BBC interviews are recommended by the US embassy in London.
Marr's colleagues lined up to pronounce Blair "vindicated". The BBC's Washington correspondent, Matt Frei, said, "There's no doubt that the desire to bring good, to bring American values to the rest of the world, and especially to the Middle East ... is now increasingly tied up with military power." 
This obeisance to the United States and its collaborators as a benign force "bringing good" runs deep in western establishment journalism. It ensures that the present-day catastrophe in Syria is blamed exclusively on Bashar al-Assad, whom the West and Israel have long conspired to overthrow, not for any humanitarian concerns, but to consolidate Israel's aggressive power in the region. The jihadist forces unleashed and armed by the US, Britain, France, Turkey and their "coalition" proxies serve this end. It is they who dispense the propaganda and videos that becomes news in the US and Europe, and provide access to journalists and guarantee a one-sided "coverage" of Syria.
The city of Aleppo is in the news. Most readers and viewers will be unaware that the majority of the population of Aleppo lives in the government-controlled western part of the city. That they suffer daily artillery bombardment from western-sponsored al-Qaida is not news. On 21 July, French and American bombers attacked a government village in Aleppo province, killing up to 125 civilians. This was reported on page 22 of the Guardian; there were no photographs.
Having created and underwritten jihadism in Afghanistan in the 1980s as Operation Cyclone - a weapon to destroy the Soviet Union - the US is doing something similar in Syria. Like the Afghan Mujahideen, the Syrian "rebels" are America's and Britain's foot soldiers. Many fight for al-Qaida and its variants; some, like the Nusra Front, have rebranded themselves to comply with American sensitivities over 9/11. The CIA runs them, with difficulty, as it runs jihadists all over the world.
The immediate aim is to destroy the government in Damascus, which, according to the most credible poll (YouGov Siraj), the majority of Syrians support, or at least look to for protection, regardless of the barbarism in its shadows. The long-term aim is to deny Russia a key Middle Eastern ally as part of a Nato war of attrition against the Russian Federation that eventually destroys it.
The nuclear risk is obvious, though suppressed by the media across "the free world". The editorial writers of the Washington Post, having promoted the fiction of WMD in Iraq, demand that Obama attack Syria. Hillary Clinton, who publicly rejoiced at her executioner's role during the destruction of Libya, has repeatedly indicated that, as president, she will "go further" than Obama.
Gareth Porter, a samidzat journalist reporting from Washington, recently revealed the names of those likely to make up a Clinton cabinet, who plan an attack on Syria. All have belligerent cold war histories; the former CIA director, Leon Panetta, says that "the next president is gonna have to consider adding additional special forces on the ground".
What is most remarkable about the war propaganda now in floodtide is its patent absurdity and familiarity. I have been looking through archive film from Washington in the 1950s when diplomats, civil servants and journalists were witch-hunted and ruined by Senator Joe McCarthy for challenging the lies and paranoia about the Soviet Union and China.  Like a resurgent tumour, the anti-Russia cult has returned.
In Britain, the Guardian's Luke Harding leads his newspaper's Russia-haters in a stream of journalistic parodies that assign to Vladimir Putin every earthly iniquity.  When the Panama Papers leak was published, the front page said Putin, and there was a picture of Putin; never mind that Putin was not mentioned anywhere in the leaks.
Like Milosevic, Putin is Demon Number One. It was Putin who shot down a Malaysian airliner over Ukraine. Headline: "As far as I'm concerned, Putin killed my son." No evidence required. It was Putin who was responsible for Washington's documented (and paid for) overthrow of the elected government in Kiev in 2014. The subsequent terror campaign by fascist militias against the Russian-speaking population of Ukraine was the result of Putin's "aggression". Preventing Crimea from becoming a Nato missile base and protecting the mostly Russian population who had voted in a referendum to rejoin Russia - from which Crimea had been  annexed - were more examples of Putin's "aggression".  Smear by media inevitably becomes war by media. If war with Russia breaks out, by design or by accident, journalists will bear much of the responsibility.
In the US, the anti-Russia campaign has been elevated to virtual reality. The New York Times columnist Paul Krugman, an economist with a Nobel Prize, has called Donald Trump the "Siberian Candidate" because Trump is Putin's man, he says. Trump had dared to suggest, in a rare lucid moment, that war with Russia might be a bad idea. In fact, he has gone further and removed American arms shipments to Ukraine from the Republican platform. "Wouldn't it be great if we got along with Russia," he said.
This is why America's warmongering liberal establishment hates him. Trump's racism and ranting demagoguery have nothing to do with it. Bill and Hillary Clinton's record of racism and extremism can out-trump Trump's any day. (This week is the 20th anniversary of the Clinton welfare "reform" that launched a war on African-Americans). As for Obama: while American police gun down his fellow African-Americans the great hope in the White House has done nothing to protect them, nothing to relieve their impoverishment, while running four rapacious wars and an assassination campaign without precedent.
The CIA has demanded Trump is not elected. Pentagon generals have demanded he is not elected. The pro-war New York Times - taking a breather from its relentless low-rent Putin smears - demands that he is not elected. Something is up. These tribunes of "perpetual war" are terrified that the multi-billion-dollar business of war by which the United States maintains its dominance will be undermined if Trump does a deal with Putin, then with China's Xi Jinping. Their panic at the possibility of the world's great power talking peace - however unlikely - would be the blackest farce were the issues not so dire.
"Trump would have loved Stalin!" bellowed Vice-President Joe Biden at a rally for Hillary Clinton. With Clinton nodding, he shouted, "We never bow. We never bend. We never kneel. We never yield. We own the finish line. That's who we are. We are America!"
In Britain, Jeremy Corbyn has also excited hysteria from the war-makers in the Labour Party and from a media devoted to trashing him. Lord West, a former admiral and Labour minister, put it well. Corbyn was taking an "outrageous" anti-war position "because it gets the unthinking masses to vote for him".
In a debate with leadership challenger Owen Smith, Corbyn was asked by the moderator: "How would you act on a violation by Vladimir Putin of a fellow Nato state?" Corbyn replied: "You would want to avoid that happening in the first place. You would build up a good dialogue with Russia... We would try to introduce a de-militarisation of the borders between Russia, the Ukraine and the other countries on the border between Russia and Eastern Europe. What we cannot allow is a series of calamitous build-ups of troops on both sides which can only lead to great danger."
Pressed to say if he would authorise war against Russia "if you had to", Corbyn replied: "I don't wish to go to war - what I want to do is achieve a world that we don't need to go to war."
The line of questioning owes much to the rise of Britain's liberal war-makers. The Labour Party and the media have long offered them career opportunities.. For a while the moral tsunami of the great crime of Iraq left them floundering, their inversions of the truth a temporary embarrassment. Regardless of Chilcot and the mountain of incriminating facts, Blair remains their inspiration, because he was a "winner".
Dissenting journalism and scholarship have since been systematically banished or appropriated, and democratic ideas emptied and refilled with "identity politics" that confuse gender with feminism and public angst with liberation and wilfully ignore the state violence and weapons profiteering that destroys countless lives in faraway places, like Yemen and Syria, and beckon nuclear war in Europe and across the world.
The stirring of people of all ages around the spectacular rise of Jeremy Corbyn counters this to some extent. His life has been spent illuminating the horror of war. The problem for Corbyn and his supporters is the Labour Party. In America, the problem for the thousands of followers of Bernie Sanders was the Democratic Party, not to mention their ultimate betrayal by their great white hope. In the US, home of the great civil rights and anti-war movements, it is Black Lives Matter and the likes of Codepink that lay the roots of a modern version.
For only a movement that swells into every street and across borders and does not give up can stop the warmongers. Next year, it will be a century since Wilfred Owen wrote the following. Every journalist should read it and remember it...

 

If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues,
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
The old lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.

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Suđenje Draži Mihailoviću i ostalim kolaboracionistima za izdaju i ratne zločine trajalo je od 10. 6. do 15. 7. 1946. godine. Proces je vođen pred Vrhovnim sudom Federativne Narodne Republike Jugoslavije u Beogradu. Glavni dokazi protiv Mihailovića bili su originalni dokumenti iz zapljenjene četničke arhive, kao i iz okupatorskih arhiva. Tokom suđenja, Mihailović je priznao da su njegovi komandanti sarađivali sa okupatorom, ali se branio da su to činili na svoju ruku... (Izvor)